Ho pensato di postare io l'11 e lasciare alla Clari il 12 (o venerdì o sabato, ma credo sabato) ... questo perchè oggi mi sono ritrovata un po' di tempo libero per preparare il tutto!!! Ci ho impiegato meno tempo del previso a preparare la valigia e il resto, quindi eccomi qui!
Un rinrgaziamento veloce a tutte voi che mi seguite, ed in particolare a:
BellaSwan95, aLbICoCCaCiDa, Wind, summer718, giulia9_91, ery, _sefiri_, MoonlessNight, sophie_95, Raki, AngelOfLove, Hele91, alice brendon cullen, 4everWITCH, PenPen, yumisan, emily ff, Giulls, novilunio, Lilian Potter, lilly95lilly, 3mo_is_love, BloodyKamelot, carlottina, lilistar, Deimos, Miki87
Vero che fate lo stesso anche con questo capitolo? Spero di sì!!!
E poi, volevo chiedervi se potevate dirmi quale tra i capitoli postati vi è piaciuto di più ... Sono troppo curiosa!!!
Ciao e a presto!!! Scusate per i ringraziamenti molto brevi, ma nel caos della partenza ... l'importante è postare XD
Un bacio gigante
Cassandra
Bella's Pov
" Bella …
Bella… Bella …”
La voce di Edward mi giungeva
lontana. Una Eco che si
perdeva nell’oscurità.
Un’effimera illusione …
Lo chiamavo, ma la mia voce era flebile, poco più che
un sussurro smorzato.
Era quella, dunque,
La morte, che non portava dolore.
La morte, che non portava sofferenza.
La morte, che non avrebbe dovuto portare solitudine.
Che non avrebbe dovuto portare paura, tristezza …
E allora, perché? Perché diavolo dovevo sentirmi
sola,
disperata, impaurita?
Neanche nell’oblio mi veniva concessa la pace?
Nel tormento di queste domande
senza risposta, mi
voltai su un fianco, o per lo meno ci provai.
Ad impedirmelo, delle mani forti e robuste, un
improvviso bruciore al braccio sinistro.
Il peso della verità mi
piombò addosso insieme alla consapevolezza
della realtà.
“Viva …
Viva!” mi gridavano tutte le cellule del mio
corpo.
Dischiusi le labbra e, sorridente
ed intontita dagli
antidolorifici, sussurrai:
< Edward … > Mi aspettavo di trovarlo al mio
fianco,come per una sorta di miracolo.
Ma la voce irata di Jane, mi riportò alla dolorosa
realtà.
Se fino a quel momento avevo fatto
di tutto per
cercare di aprire gli occhi, in quel istante serrai di più
le palpebre. Non
volevo che fosse vero.
La sentii parlare con qualcuno.
Nessuna risposta.
Era al cellulare …
< Sì, Sì, si sta svegliando. Ha cominciato
a
parlare. >
Silenzio.
< Che vuoi che abbia detto? Le stesse cose che
ripeteva anche prima. Edward,
Edward …
>
Disse sprezzante, imitando la mia voce.
< Si agitava un po’. Adesso chiamo la dottoressa.
Ti faccio sapere. > E sentii lo scatto secco di un telefonino
che viene
chiuso.
< Mi senti? > La
voce ora era vicino al mio orecchio. Secca e tagliente.
< Ei? Mi senti? >
Non risposi. Non volevo svegliarmi. Volevo l’oblio, o
mio marito. Non Lei.
Cercai nella memoria la voce di
Edward, ma la paura mi
impediva di ritrovarla.
Sentii le lacrime scorrermi sul viso e bagnare il
cuscino.
Jane sbuffò e poi premette qualcosa. Una voce,
distorta, chiese qualcosa in una lingua che non conoscevo. Jane rispose
nello
stesso idioma.
Pochi minuti dopo, la porta si
aprì e si richiuse
subito.
Dita calde mi accarezzarono il volto, le guance. Mi
presero il battito sul collo e sul polso destro. Esaminarono il braccio
sinistro.
Domandò qualcosa, ma Jane disse in inglese: < Non
parla Italiano. Solo Inglese. >
Nessuna risposta.
Poi la voce di prima, una donna, mi
domandò:
< Signorina? Signorina? Mi sente? È salva
… >
Non mi mossi.
< Isabella? Isabella? >
Socchiusi gli occhi. Non c’era molta luce nella
stanza. Le tende erano tirate.
Senza guardare Jane, sussurrai:
< Dove sono? >
< In una clinica privata piccola. Come ti senti?
>
< Bene … > Mentii. In realtà, non
sentivo
proprio niente. Ma tanto …
La mia voce era affaticata. Avevo sete.
< Sicura? >
< Mh mh … > Feci io cercando di annuire, il
che
mi provocò un’ondata di nausea.
< Bene. Sei stata molto fortunata. I tuoi amici
sono riusciti a portarti qui in tempo. Le ferite erano molto profonde.
Appena
starai meglio, ti fisserò
un colloquio
con uno dei nostri psicologi. >
La sua voce era tranquilla, rassicurante.
< No, non ce n’è bisogno …
> Cercai di dire,
< Davvero … è stato solo un incidente
… >
La vidi annuire distratta, mentre
controllava la
cartella clinica.
< Alcuni valori non rientrano del tutto nella
norma. Ti faremo degli esami. Il tuo sangue è già
in laboratorio, oltre
naturalmente quello che ti sei lasciata per strada! > Non
sembrava
preoccupata.
I suoi occhi incontrarono i miei. Vidi una strana
luce. Appoggiò i fogli sul comodino e cominciò a
tastarmi il corpo.
Jane osservava la scena dall’altro capo della stanza.
Sembrava pensare ad altro. Afferrò il telefonino ed
uscì improvvisamente. Era
annoiata.
Appena la porta fu chiusa, la
dottoressa mi alzò il
camice dell’ospedale e cominciò a tastarmi la
pancia. Tremai e lei se ne
accorse.
Mi disse: < Scelte come la
tua, sono sbagliate, ma
tristemente frequenti. Succede, in certi momenti, di sentirsi deboli,
inadatti.
Magari dopo un forte shock … Ma non per questo bisogna
pensare che farla finita
sia la scelta migliore. > Mi sorrideva.
< Fare la mamma è difficile, ma si impara con il
tempo. Se sei da sola, puoi chiedere aiuto … non verresti
abbandonata a te
stessa … >
Arrossii.
Quando ebbe finito di tastarmi il
ventre, mi rassicurò dicendomi
che andava tutto bene e poi mi ricoprì, sistemandomi anche
il lenzuolo.
< Ma immagino che tu non voglia parlarne … >
< No. > feci io, e poi aggiunsi, appoggiandomi
la mano sul mio ventre: < Neanche lei lo farà, vero?
Con loro intendo … >
Mi osservò materna e mi rassicurò: <
Segreto
professionale. Se vuoi, sei ancora in tempo per tirarti indietro,
l’intervento
è breve, non desterebbe sospetti … >
Mi accarezzava la mano, mentre parlava.
< No, grazie. Voglio tenerlo … >
Annuì e poi, guardando l’orologio al polso, mi
disse:
< Devo andare. Se hai bisogno di me, o anche se hai solo voglia
di parlare,
fammi chiamare. Sono la dottoressa Rosa Cestari. Adesso, riposa ancora
un po’ …
Te la sei vista brutta … temevamo davvero di perderti.
L’emorragia non si
fermava. Un paio di trasfusioni però, ed ora sei come nuova!
> Cercava di
essere rassicurante.
< Scusi? > Chiesi prima che e ne andasse.
< Quanto ancora dovrò stare qui? Ah, giusto, quanto
ci sono rimasta? >
Mi osservò e tornò ad accarezzarmi, questa volta
la
fronte.
< Sei qui da ieri sera … sono le sette e venti del
mattino. Se tutto andrà bene, come da prassi, ti terremo qua
altri 3, 4 giorni.
Il tempo che tu ti rimetta, e poi ti indirizzeremo ad un centro
specializzato.
Come questa struttura, anche quella è privata. Ci hanno
detto che l’anonimato è
molto importante per voi. > Mi guardò fiera ed
aggiunse: < noi siamo
estremamente discreti e trattiamo le informazioni dei pazienti con
estremo
riguardo. La privacy secondo noi è fondamentale. Capiamo
perfettamente che, una
ragazza giovane come te non voglia far sapere certe cose …
> ed ammiccò, poi
mi disse: < però, per i segni, non potremo fare
molto. Abbiamo dovuto darti
davvero molti punti.
Inghiottii un po’ di saliva … porca miseria, ci
ero
andata giù pesante …
La dottoressa sospirò e poi, cordialmente, mi
salutò
ed io feci lo stesso.
Rimasi sola per qualche minuto.
Dalle tende tirate non
filtrava la luce. L’illuminazione proveniva da una piccola
lampada su un
piccolo tavolino.
La stanza era anonima, come in tutti gli ospedali. Come
nella mia prigione, niente orologi. Anche qui, il tempo doveva parermi
fermo.
I tubicini nel naso erano fastidiosi ma, in ben più
felici circostanze, mi ci ero abituata e sopportarli non mi fu
difficile.
La sete era tutta un’altra cosa. A Phoenix, Edward era
sempre pronto con un bicchiere di acqua fresca a portata di mano. Mi
aiutava a
bere …
< Devi mantenerti idratata.
> Mi ripeteva tra un
bacio e l’altro …
Quanto mi mancavano le sue labbra
…
Sentii lo stomaco stringersi e cercai di pensare ad
altro.
Per esempio, ero disposta a sopportare la sete, pur di
non chiedere aiuto a Jane, pur di non dovermela rivedere lì.
Ma tanto, lei tornò. Non
mi aspettavo il contrario.
Stavo diventando pazza forse, ma scema non lo ero di certo. Spostai il mio braccio
destro.
Non mi rivolse neanche la parola. Si sedette e si
limitò ad osservarmi con sguardo accusatorio.
Io fissavo decisa il soffitto.
Avevo tre, quattro giorni al
massimo per fuggire.
Se non ci fossi riuscita, mi avrebbero di nuovo
sepolta laggiù, ed in quel caso, lo sapevo, non mi avrebbero
lasciata sola
neanche un secondo. Non avrei potuto più togliermi la vita,
né fuggire.
Avrebbero scoperto il bambino. Per quanto ancora sarei
riuscita a nascondere la gravidanza? Uno, due mesi nella migliore delle
ipotesi?
No, sicuramente se ne sarebbero accori prima. E poi? Non volevo neanche
pensarci …
Dovevo fuggire finché
ero lì, in ospedale.
Ero riuscita ad arrivarci
… il piano aveva funzionato
… ora, dovevo andare avanti. Se non ci fossi riuscita, ero
disposta anche a
buttarmi dalla finestra. Là sotto, nella prigione, non ci
sarei mai tornata.
Forse fu il continuo e regolare “plic plic” della
flebo, forse il suono ritmato del mio cuore, amplificato dallo
strumento alla
mia sinistra … quel continuo: “bip. Bip. Bip. Bip
… ”
Fatto sta che i miei occhi si fecero pesanti e il
sonno prese il sopravvento. La mia mano scivolò di nuovo sul
mio grembo.
Al mio risveglio, trovai insieme a
Jane anche Alec.
Quest’ultimo mi osservava
preoccupato. Quando feci per
parlare, lui si portò una mano alla fronte e disse:
< Non dire niente. Stai zitta. Non voglio sentire.
>
Rimasi con la bocca aperta qualche secondo, prima di
ricordarmi di richiuderla. Ero sorpresa.
Dopo qualche minuto trascorso nel silenzio, Jane
disse:
< Allora io vado. Tra poco arriverà anche Demetri.
>
Si baciarono sulle guance, con
affetto, e poi lui le
fece:
< Mi raccomando. A dopo … >
Quando se ne fu andata, domandai:
< Che ore sono? >
Mi fulmino con lo sguardo e poi mi
ricordò:
< Ti avevo detto di non rivolgermi la parola. E
poi, che ti importa saperlo? Hai in mente un'altra geniale idea per
suicidarti?
> la sua voce era carica di frustrazione. Si sentiva in colpa.
Lo percepivo
chiaramente.
Aggiunse in tono mesto:
< Ci hai spaventato, tutti quanti. Persino Aro.
Complimenti. Ora, non è più disposto ad
aspettare. Appena starai meglio, ti
riporteremo a casa. E poi, per i prossimi nove mesi, non ti lasceremo
mai sola.
Mai. Non mi volterò neanche se ti devi cambiare. Sei
contenta adesso? Allora?
>
Mi osservava furioso.
Io tremavo,un po’
perché non lo avevo mai visto
arrabbiato. Non era contento che venissi trattata a quel modo, lo
sapevo, ma
ora, pensava che me la fossi andata a cercare.
Tremavo anche perché, se Aro non era più disposto
ad
aspettare, se non fossi riuscita a fuggire …
Cercai di pensare ad altro, e domandai di nuovo, in
tono dolce:
< Per favore, Alec, dimmi che ore sono … >
Mi osservò un attimo e
mi disse, rassegnato:
< Davvero, non capisco l’importanza che tu
attribuisci al tempo … Sono le nove di sera. Hai dormito
tutto il giorno. I
dottori dicono che è colpa dello stress accumulato e degli
antidolorifici.
Un giorno … avevo sprecato un giorno. Sentii
l’angoscia invadermi. Non potevo restarmene lì,
dovevo agire. Poi osservai il
mio corpo e mi accorsi di quanto ancora mi sentissi stanca.
Effettivamente,
quel giorno non era stato proprio del tutto sprecato. Avevo bisogno di
rimettermi un po’ in forze. Nonostante la giornata trascorsa
a dormire,, ero
ancora stanca. E poi, se avessi voluto fuggire, avrei dovuto agire in
pieno
giorno, sicura che non avrebbero potuto seguirmi, sotto il sole.
< Alec … >
< Sì? >
< come fate, a restare qui? Come giustificate le
tende tirate e il fatto che uscite solo quando è buio? Sono
medici … >
Rise e mi rispose: < Abbiamo detto loro che siamo
fotosensibili. Io e Jane siamo fratelli, e quindi sarebbe una cosa
genetica,
mentre Dimetri abbiamo detto che era un nostro amico. È una
malattia … ci hanno
creduto. In effetti … > ed ammiccò
< è vero, non ti pare? >
Sorrisi < Grazie … >
< E perché? Non sono riuscito ad impedire che ti
facessi del male, non riuscirò ad impedire che te ne
facciano gli atri … >
< Grazie per essere stato mio amico … >
Mi sorrise e si alzò per accarezzarmi la fronte.
Chiusi gli occhi ed immaginai che
quelle dita
appartenessero ad altre mani …
< Sai, Isabella …
tu, mi piaci … >
< Lo avevo sospettato. > risposi, rigida.
< Se solo il tuo cuore non appartenesse
irrimediabilmente ad un altro … > e sfiorò
la piccola fede d’oro al mio
anulare sinistro.
< Se solo non fossi umana … > aggiunsi io,
ironica.
< Beh, a quello si può sempre rimediare. >
Fece
lui con il mio stesso tono.
< Alec … >
< Sì? >
< Mi spiace,
ma io per te non provo niente di questo tipo … per me,
esiste solo Edward …
>
Povero Jacob. Non sarebbe stato
affatto contento di
sentire quella conversazione. Essere sposata con un vampiro, per lui
era già
difficile accettare la cosa … ma averne pure un altro che mi
viene dietro … non
avrebbe retto, credo.
< Lo so più che
bene. Sapessi quanto diavolo parli
nel sonno! > Rise
< Non preoccuparti. Sono felice, che comunque tu mi
consideri un amico. Per me è già un buon
traguardo. E poi, non potrei
aspettarmi altro da te. Immagino che le circostanze dei nostri incontri
ti siano
risultate traumatiche. >
< Immagini bene … > Non ero molto attenta,
adesso. Pensavo ad altro. Speravo di non aver parlato troppo, nel
sonno. Di non
aver detto niente di pericoloso. Ma, visto che lui non sembrava
turbato, pensai
di no.
Senza rendermene conto stavo scivolando lentamente nel
sonno. Alec, in silenzio, mi teneva la mano.
Quando sentii delle dita calde
sfiorarmi il collo e la
fronte, aprii gli occhi.
Mi stavano chiamando.
Mi osservai intorno e la stanza era ancora buia.
Chiesi: < Ho sete, potrei
avere da bere? >
< Certo signorina, ma adesso deve venire con noi.
Sono le dieci. Dobbiamo rifare la camera, e lei deve andare a fare
degli esami.
>
Annuii ancora disorientata e tentai di portarmi a
sedere. L’infermiera mi aiutò. Dopo avermi
staccato tutti i tubicini, mi
avvicinò una sedia a rotelle.
< No, no. Preferisco camminare … > Mi
guardò
scettica e poi mi aiutò, sostenendomi per farmi uscire. Non
mi voltai ma
sentivo lo sguardo della mia guardia fisso su di
me. Jane disse: < Ti aspetto qui. Poi
dimmi com’è andata. > Annuii e poi uscii,
nel corridoio. Ero malferma sulle
gambe. Debole.
Le finestre avevano delle tende
color panna e i muri
erano azzurri. C’era odore di ospedale, giustamente. Con
lentezza percorsi il
corridoio lungo e luminoso. Avrei voluto osservare il mondo fuori dalle
finestre, ma non potevo fermarmi. C’era luce, luce vera.
Sorridevo piena di
speranza.
La struttura era abbastanza piccola. Prendemmo un
ascensore e scendemmo al piano terra, dove si trovavano gli ambulatori.
< Prego cara, entra
… > e così feci. Nello
studio, la dottoressa del giorno precedente. Mi salutò
cordialmente e mi mostrò
l’esito degli esami del sangue specifici che aveva richiesto.
Sospirai
infinitamente sollevata, quando mi disse che il bambino stava bene. Mi
sciolse
la fasciatura al braccio e mi medicò di nuovo. Mi si
rivoltò lo stomaco a
vedere tanta devastazione. Distolsi lo sguardo.
< Bene, abbiamo finito … ora puoi tornare in
camera. > Sorrideva conciliante. Io sussultai. Dovevo agire.
Subito. Era la
mia occasione. Da dietro il vetro della finestra che dava sul retro,
sul
giardino, vedevo il cielo terso. Non avrebbero potuto seguirmi.
< Scusi, non è che potrei andare in bagno, prima?
> La dottoressa mi osservò per qualche istante e poi,
sorpresa, mi disse:
< Certo, la prima porta a destra. Però,
c’è anche in camera tua … > mi
osservava. Abbozzai un sorriso e dissi: < Ho sete …
> < Certo cara, fa
pure con comodo. > E tornò alle sue carte.
Con passo incerto, andai in bagno.
La prima cosa che
feci, fu di aprire l’acqua del rubinetto e bere, bere fino a
dissetarmi. Nello
specchio, il riflesso di una ragazza stanca e malata. Poi aprii la
finestra e
lasciai che il sole mi accarezzasse. Era forte e caldo. Mi era mancato
tantissimo, così come
l’aria che mi
scompigliava i capelli. Mi sentii rinascere. Fortunatamente, constatai
che il
prato del giardino si trovava appena due metri sotto la finestra. In
silenzio,
scavalcai il cornicione e, lentamente, mi calai. Fu difficile, sia
perché ero debole,
sia perché la camicia da notte di certo non mi risultava
molto comoda. Data la
mia agilità, mi sbucciai cadendo … Avevo
esercitato troppa forza sul braccio e
sentii i punti tirare. La fasciatura si macchiò un
po’ di rosso. Non vi feci
caso.
Faceva molto caldo e il sole picchiava forte. Non sembrava affatto
ottobre. Non
vidi nessuno nei paraggi, e in silenzio, cominciai a correre, cercando
di non
dare nell’occhio. Uscii dal giardino. Presto si sarebbero
accorti della mia
fuga.
Dovevo fuggire il più
lontano possibile. Sapevo che
non avrei dovuto, ma sarei andata alla polizia. Avrebbero contattato
mio padre
… I Volturi a quel punto non avrebbero più potuto
fare niente, se non volevano
venire scoperti. Ero stata così impegnata ad organizzare la
fuga, che non avevo
minimamente pensato al dopo. Avrei dovuto agire d’istinto. E
l’istinto, in quei
momenti, mi diceva di correre come non avevo mai fatto.
Inciampai più volte, cadendo a terra.
Le mani e i piedi feriti. Avevo dovuto lasciare le
pantofole dell’ospedale nel bagno, con quelle non avrei
potuto correre.
Il sole mi coceva la testa e i sampietrini sotto i
miei piedi erano bollenti.
Faceva caldo e a me era tornata sete. Nel silenzio
della città, oltre al suono delle posate e delle tv, solo il
mio respiro affannoso
e i miei singhiozzi.
Sapevo che piangere era inutile, anzi, dannoso.
Sprecavo acqua … ma non riuscivo a trattenermi.
Vidi una fontana, al centro di una piazza, e mi
avvicinai per bere.
Mi bagnai la testa e il volto. Mi
dissetai. Cercai di
sciacquarmi anche il sangue dalle mani.
E poi ricominciai a correre. Cercavo di rimanere al
centro delle strade, deserte, lontana dai vicoli bui. Sicuramente i
Volturi
avevano già cominciato a cercarmi. Avevo paura.
I miei ansiti riempivano l’aria calda.
Continuai a correre anche quando il
campanile, che
suonava lontano, batté i dodici rintocchi e il sole fu a
picco su di me. Non
avevo più l’ombra. Talvolta, stremata, mi fermavo
pochi attimi a riprendere
fiato, piegata sulle ginocchia.
< Devi farcela, devi farcela. Sei arrivata fin qui
… DEVI farcela Bella > mi ripetevo per farmi forza.
All’improvviso,
un’auto suonò il clacson dietro di me
e mi fece sobbalzare. Mi spostai verso il muro per lasciarla passare.
Cercai di
appoggiarmi ai mattoni, ma la mia mano non incontrò che
vuoto.
Un vicolo stretto e buio
…
Cercai di riportarmi al sole ma
delle braccia gelide
mi afferrarono da dietro, trascinandomi nel buio.
Una mano fredda si poggiò con forza sul mio volto,
smorzando sul nascere il mio grido di terrore.
Sconfitta, mi abbandonai al pianto incontrollato e a
quelle braccia fredde e stranamente accoglienti.
Non capivo più niente,
mentre il mio corpo veniva
scosso dai singulti.
Poi mi accorsi che quelle braccia
mi cullavano e che
mani fresche e gentili mi carezzavano il volto.
Cercavano di tranquillizzarmi e allo stesso tempo di impedirmi di
muovermi, di fuggire ...
Speravo che fosse Alec. Lui forse, se lo avessi implorato, mi avrebbe
aiutato.
Non certo a fuggire, questo era ovvio, ma magari a morire ...
Nel silenzio e
nell’oscurità, mi voltai lentamente, mentre la
mano mi liberava il volto,
permettendomi così di respirare …