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Autore: _Nica89_    20/03/2014    1 recensioni
Vincere i giochi e tornare a casa è la speranza di tutti i tributi. Tornare a casa, in un distretto che non allena favoriti, però non è solo l'assaggio di una vita diversa e la gioia di poter riabbracciare i propri cari può non essere l'emozione più forte. Una piccola shot sui pensieri di Cecelia, mentre affronta il suo viaggio di ritorno da Capitol City.
(Storia partecipante al contest "1 su 24" ce la fa! di ManuFury)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cecelia
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Storia partecipante al secondo turno del contest "1 su 24 ce la fa!" di ManuFury. Vincitrice del premio speciale "Anche gli strateghi hanno un cuore"
Nick sul forum/ Nick su EFP (segnalare quello che si vuole avere sul Banner): _Nica89_

Tributo: Cecelia
Turno: secondo
Titolo Storia: Tornare a casa
Pacchetto (se presente): zaino arcobaleno
Genere: introspettivo
Raiting: giallo
Avvertimenti:
Pairing (se presente): nessuno
Note (facoltative): la storia è idealmente collegata alla precedente (La storia che non avrei voluto raccontare), anche se cronologicamente avviene prima di quella scritta per il primo turno, ma può essere tranquillamente letta come storia a sè. Le vicende dell’arena possono sembrare diverse, ma a mio avviso sono solo complementari. Nella storia precedente Cecelia aveva di fronte dei bambini molto piccoli, qui invece è da sola e non ha bisogno di censurare cosa è accaduto. In corsivo è stata evidenziata la frase di Edgar Allan Poe, contenuta nel pacchetto.







Tornare a casa

Le porte del treno si chiudono alle mie spalle. Ancora non mi sembra vero di poter tornare a casa. Ho vinto, sono sopravvissuta, potrò riabbracciare la mia famiglia. Eppure, adesso che tutto ciò sta diventando reale, non riesco a esserne felice. Credevo che questo viaggio simboleggiasse la fine di un incubo, invece non è così.

Tornare nel Distretto 8 mi spaventa quasi quanto temevo di dover partecipare agli Hunger Games. Improvvisamente la carrozza si fa troppo stretta ed io inizio ad ansimare, in preda al panico crescente. Vengo subito soccorsa dai miei mentori, Sarah e Daniel. Le braccia dell’uomo mi sorreggono, impedendomi di cadere, mentre sento la voce di lei cercare di rassicurarmi. Solo quando riesco a riprendere controllo su me stessa, mi accorgo che i due mi hanno fatta sdraiare su un piccolo divanetto.
«Forse dovresti provare a riposare un po’, prima di cena» propone Daniel. Scuoto la testa, incerta di riuscire a parlare. Non sono mai stata una grande oratrice, ma da quando sono uscita dall’arena mi sono chiusa in un silenzio ostinato; l’unica eccezione è stata durante l’intervista con Caesar Flickerman, e – anche in quel caso – non si può dire che io abbia brillato per loquacità.

Decido che questo divanetto diventerà il mio rifugio per questi due giorni di viaggio. Al contrario di quanto mi aspettassi, Sarah e Daniel si limitano a condividere con me la stanza, senza che la loro presenza mi distolga dai miei pensieri. Rimango in silenzio anche per quasi tutto il giorno successivo, passando buona parte del pomeriggio a osservare distrattamente il panorama che corre al di fuori del finestrino. Sarah mi ha spiegato che impiegheremo qualche ora in più rispetto all’andata per raggiungere il nostro distretto, in modo che gli abitanti di Capitol City possano godersi la diretta dell’arrivo del treno per l’ora di pranzo, senza dover ricorrere alle repliche per vedere l’accoglienza che mi sarà riservata, una volta a casa. Al contrario di quanto si aspettasse, la notizia ha la capacità di donarmi un po’ di sollievo.

Durante la cena i miei mentori cercano in diversi modi di coinvolgermi nei loro discorsi, ma con scarsi risultati. Rispondo alle loro domande solo per educazione, ma non aggiungo mai più di qualche parola, che comunque non è sufficiente per porre le basi di una qualsiasi conversazione.
«Devi smetterla di continuare a ripensare a quello che ti è successo» le parole di Sarah smuovono in me qualcosa. Punta nell’orgoglio, alzo gli occhi dal dessert quasi intatto e la fisso con astio. Daniel cerca di addolcire la frase che ancora aleggia nell’aria e che sembra non volersi dissolvere.
«Quello che Sarah intendeva dire è che se guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare in te. Ti stai facendo del male inutilmente».

Vorrei gridare loro di stare zitti, di non darmi consigli, perché non sanno cosa sto provando in questo momento, divisa tra il sollievo di essere ancora viva, il dolore per aver visto morire così ingiustamente altri ragazzi, la vergogna per i compromessi ai quali mi sono piegata e la paura della reazione dei miei genitori e di Richard. Poi, mi rendo conto che anche loro hanno dovuto affrontare il viaggio di ritorno. E che, probabilmente, hanno vissuto le stesse mie paure.

Vergognandomi di me stessa, corro nella carrozza che è stata adibita a mia camera da letto e scoppio in lacrime. Svuotata dal pianto, accendo la piccola bugia che trovo sul comodino. Forse è stupido – visto l’evoluto impianto d’illuminazione presente sul treno – eppure, la fiamma della candela riesce a trasmettermi un senso di sicurezza che l’elettricità non mi procura. La presenza del fuoco, che così tanto mi è mancato nell’arena, riesce a ricacciare i miei fantasmi all’interno della gabbia innevata che mi sono lasciata alle spalle e a farmi sentire protetta.
Lascio che il lume si consumi, creando strani giochi di luci e ombre nella stanza. Nel silenzio quasi assoluto del treno addormentato, il leggero crepitio dello stoppino diventa un compagno col quale confidarsi. Con la mente più lucida e grazie al rassicurante tremolare della fiamma, riesco finalmente a dare sfogo alle mie paure più profonde.

Nonostante i consigli dei miei mentori, ripercorro i giorni trascorsi nell’arena. Fa male, hanno ragione, ma ciò che più mi tormenta – insieme al ricordo e alla consapevolezza che quei ragazzi non potranno più riabbracciare le loro famiglie – è la reazione dei miei genitori. So che mi hanno vista cambiare sotto i loro occhi impotenti, trasformarmi dalla loro bambina in una persona completamente differente, estranea. Ho paura di quello che potrò leggere domani nei loro occhi. Potranno davvero essere felici che io sia tornata a casa, anche se la figlia che conoscevano è morta nell’arena, durante il bagno di sangue? Per sopravvivere ho fatto cose orribili: ho dovuto uccidere per non soccombere all’inizio dei giochi, ho rubato cibo e strappato giubbotti ancora caldi ai tributi morenti senza il minimo indugio. Vorrei poter giustificare tutto col fatto che sia stata costretta, che sia stata la necessità di sopravvivere a spingermi a tanto, ma – anche così – non riesco a vedere come possano essere felici del mio ritorno. Sono la loro unica figlia, ma può bastare perché non vedano in me solo il mostro che sono diventata?
E poi c’è Richard. Salutarlo dopo la mietitura è stato straziante quasi quanto dire addio ai miei genitori; mi ha implorato di sopravvivere, ma come potrà guardarmi ancora, dopo aver visto quello che sono stata in grado di fare? Ho lasciato morire il mio compagno di distretto, come può essere certo che, per salvarmi la pelle, non possa fare altrettanto con lui?

Come può tutto il distretto acclamarmi come vincitrice, dopo avermi vista agire senza pietà?
La stanchezza ha la meglio e non sono sicura di aver formulato lucidamente gli ultimi pensieri, oppure di averli solamente sognati. Quando sento bussare alla porta della carrozza sobbalzo, destandomi dallo stato di dormiveglia nel quale ero caduta. Osservo la candela accanto a me, che si è consumata durante la notte, e mi rendo conto che sono ancora seduta sulla moquette, cosa che non sembra piacere alla mia stilista, visti i suoi commenti a mezza voce.
Senza protestare, lascio che mi prepari per le telecamere. Poco prima di arrivare in stazione mi mostra il suo lavoro, mettendomi davanti a uno specchio a figura intera, ma non riesco a vedermi realmente, troppo impegnata a pensare a cosa succederà quando uscirò da questo limbo sicuro che è diventato – per me – il treno.

Le porte si aprono su quella che sarà la mia nuova vita al Distretto 8 e vengo sopraffatta dalle grida di gioia dei tanti abitanti venuti a festeggiarmi. Sorpresa e un po’ intimidita rimango sul treno per poter osservare la folla esultante. Sono tante le voci che chiamano il mio nome. Accenno qualche saluto, cercando tra le persone gli unici volti che desidero realmente vedere, ma che non riesco a scorgere.
Qualcosa dentro di me s’incrina, mentre credo che le mie paure si siano trasformate in realtà. Poi, la sento.
«Cecelia!» Non ho dubbi che quella sia la voce di mia madre. Per un momento mi sembra di non essere più in grado di respirare, mentre la vedo sbracciarsi accanto a mio padre, per farsi notare. Nei loro occhi leggo solo la gioia di rivedermi sana e salva. Incurante di tutti i protocolli che dovrei seguire in questo momento, corro da loro, perdendomi nelle braccia di mia madre, scoppiando a piangere per la gioia e il sollievo.
«Richard sarebbe voluto venire in stazione, ma è stato costretto a rimanere in fabbrica» mi spiega papà, accarezzandomi i capelli, come quando ero bambina. Mi asciugo le lacrime con la mano e mi perdo nuovamente in un altro loro abbraccio. Improvvisamente, nonostante le urla festose degli abitanti del distretto e la presenza delle telecamere ingorde, su questa banchina è come se ci fossimo solo noi tre e – finalmente – so di essere tornata a casa.
  
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