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Autore: Gaea    20/03/2014    1 recensioni
Guglielmo è frustrato: ormai in pensione, non trova un senso nella sua vita. Vorrebbe davvero poter essere altrove, un posto in cui poter essere accettato e amato senza riserve, senza dover sempre tenere alto il ricordo del sé precedente… Un posto dove ricominciare.
Ritrovò il sasso che aveva calciato all’andata, con ben altra disposizione d’animo. Lo colpì, ancora, più per noia che per reale volontà. Lasciò che la malinconia lo invadesse, trascinandolo sempre più giù, portandolo sempre più lontano, come il sasso che prendeva a calci. Sempre dritto. Piccole alterazioni e impercettibili curve, sì, ma trovava sempre poi il suo piede. Un metro più avanti. Quattro. Due. L’ultimo tirò lo spedì un po’ più lontano. Stava svogliatamente per colpirlo di nuovo, quando si fermò. Il sasso non c’era.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo: dove tutto finisce. Fino alla prossima volta.

 

 

Papà!”.

 

Berenike arrivò correndo e gli lanciò le braccia al collo.

“Mi sono svegliata da un incubo orribile, ti ho chiamato al cel, ma non rispondevi e non eri in casa, e poi nessuno riusciva a trovarti, avevamo paura ti fosse successo qualcosa!”.
Aveva gli occhi lucidi e strisce di mascara colato fino a metà guancia.

 

“Dove diamine eri finito?! Sono ore che ti chiamiamo sul cellulare, la mamma era preoccupata e voleva già chiamare la polizia, non hai idea del casino che ha tirato in piedi” la seguì il fratello maggiore, lasciando filtrare tutta l’irritazione che il fatto inatteso gli aveva causato.

“Dov’è la mamma?” chiese Guglielmo in tutta risposta, accarezzando la guancia della piccola.

“Sta tornando dall’ospedale. È venuta là a portarti gli antidolorifici per la gamba verso l’una e non ti ha trovato, ha chiesto in giro e le hanno risposto che te n’eri andato ore prima. Pensava ti fosse venuto un infarto per strada, ha girato tutti gli ambulatori della zona” le rispose lui, calcando la mano sulla parola infarto.

“Sì, Orazio, va bene, sono vecchio, ma adesso smettila di tenere il broncio, d’accordo? Come fai ad essere arrabbiato con un così bel sole, non senti il profumo delle rose di tua madre fino a qui?”.

L’altro parve spiazzato.

“Sì… in effetti si sente. Papà, stai bene, sembri… giurerei che sei più abbronzato di stamattina, sei stato dall’estetista?”.

“Qualcosa del genere” ribatté lui, facendo spallucce.

 

La telefonata con Enea fu lunga. Molto lunga. Vennero dette molte cose, e non è questo il luogo per raccontarle.
Basti sapere questo: per la prima volta da parecchio tempo, la mattina successiva, il ragazzo scese a fare colazione col resto della famiglia.
E accennò perfino un saluto, prima di uscire.


Ci volle ben più di qualche risposta criptica, invece, per tranquillizzare sua moglie.
Ci vollero, nell’ordine, una cena al ristorante, un esaustivo racconto di come si era seduto sul marciapiede a pensare e di come il tempo gli fosse sfuggito – sono passata per quella strada due volte, Gigi, due, e non ti ho visto, com’è possibile che non abbia visto un omone di due metri seduto per terra?! – e un sacco di baci. E carezze sulla mano. Erano anni che non baciava in quel modo sua moglie, ma sentiva che era la cosa giusta da fare. Dopotutto, non era forse lei che lo amava nonostante i suoi enormi, incontestabili difetti?

I ricordi sfumavano velocemente, come quando si tenta di ricordare un sogno. E di sogno doveva essersi trattato: la barba era un leggero velo grigiastro sulle guance, esattamente come era stata la mattina, e lo stesso per i capelli; i jeans erano sporchi di terriccio ma, ehi, si era seduto a ridosso di un’aiuola. Finirono il vino e chiesero il conto. Stava ridendo di una battuta della moglie mentre apriva il portafogli  – diamine, quanto era sexy quando rideva? – quando l’occhio gli cadde su una macchia di fango che copriva il volto di Berenike. Adorava quella fotografia. La cosa gli rievocava… qualcosa. Qualcosa di…

“Tesoro? Tutto a posto?”.

“Tutto perfetto, amore” rispose di slancio, sorridendo.

Si sentiva in pace.

_______

 

 

Note: Questa storia deve un ringraziamento enorme a uno dei miei amori letterari: Michael Ende. Da cui ho preso la finestra di gesso – che sta diventando un refrain in tante mie storie e che non è proprio così, ma quasi – e l’idea base per il popolo senza individualità.

Maurus era l’antico nome usato per gli abitanti della Mauritania: l’excursus etimologico è un infodump enorme, ma dovevo in qualche modo giustificare il perché ho voluto chiamarlo così – la Mauritania era l’attuale Africa costiera settentrionale, bene o male (regno dei Mauri, ossia i berberi, detti poi “Mori”… ).

Berenike: appena l’ho letto ho pensato a Poe – adoro quel racconto. Speravo ne fosse una versione e (grazie Wiki!) ho scoperto che è la versione greca/macedone del moderno Berenice. La protagonista del racconto “diventa” bionda, il padre è biondo… mi sembrava un buon compromesso. Il resto della descrizione caratteriale e fisica s’è scritta da sé, quindi la colpa di eventuali imprecisioni è unicamente sua. Di Berenike, intendo. Non deve sembrare strano che uno chiami la figlia così, alla luce dei nomi dei maschi… ritengo, anzi, che a lei sia andata piuttosto bene. Certo che i due devono aver letto la Pitzorno, quando suggerisce di non dar mai nomi banali ai personaggi, sennò ce li si dimentica strada scrivendo…

 

Infine, quell’asterisco (sono fiera di essermelo ricordato). “Udaram” dovrebbe essere (secondo la Treccani e la parte sull’etimologia del suo dizionario) la parola sanscrita da cui è derivato l’”utero” latino. E italiano. Giusto per non sprecarmi troppo sulla fantasia dei nomi :’D

 

E il riferimento a Finardi? Suvvia, “Extraterrestre, portami via, voglio una stella che sia tutta mia… voglio tornare, per ricominciare!”.

 

Infine, per chi mi conosce: è una storia stucchevole! E ne sono felice! Credo sia da… tanto? Troppo? Che un mio protagonista non sopravvive alla narrazione. O, meglio, che sopravvive senza riportarne traumi tanti e tali da voler comunque morire. E anche se non sono convinta che il risultato sia entusiasmante – forse troppe psicominchiate – la ritengo una bella novità, per me. Per una volta “Tutto è bene ciò che finisce bene”!

   
 
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