054. O Child-sama
Oh venerabile fanciullo
“All alone | even when I was a child | I’ve always known there was something to be find”, Breaking Down, Florence + the machine
Era la fine dell’estate.
Da due settimane, appena ornata da scuola, mi mettevo al lavoro con più
sollecitudine del solito per rendere la casa presentabile. Aspettavamo l’arrivo
di un ospite, che avrebbe trascorso con noi, se i calcoli di mio padre erano
giusti (ed i calcoli di mio padre erano sempre giusti), almeno un anno e mezzo.
Il preavviso era stato minimo: giusto sedici giorni prima di presentarsi alla
porta di casa, era arrivata una lettera dal nuovo allievo di mio padre che ci
informava del suo arrivo. Non che se la lettera fosse arrivata prima qualcosa
sarebbe cambiata: finita la scuola, in ogni caso, ero solita filare a casa per
finire le faccende cominciate la mattina. Certo, ora stavo passando in rassegna
ogni angolo, anfratto e cantuccio della nostra casetta semi diroccata. Non ero
mai stata una di quelle bambine che rimane a rincorrersi con i compagni di
classe nel giardino della scuola dopo il suono della campanella, né una di
quelle che viene invitata dalla vicina di banco a fare merenda a casa sua con
torta al limone e tè esageratamente zuccherato, per poi giocare tutto il
pomeriggio con la casa delle bambole. Avevo una casa vera da gestire.
La verità è che sono
sempre stata una bambina poco socievole. Spesso me ne stavo da sola, almeno
così è stato fino a quel famoso giorno di fine estate.
Avevo dieci anni e avevo
appena finito di sbattere il tappeto del salotto. Un lavoro faticoso, ma
soprattutto noioso. Le braccia mi facevano male ed ero tutta accaldata. Avevo
fatto il lavoro nel giardinetto sul retro della casa. Papà, tanto per cambiare,
si era trincerato nel suo studio, dietro torrioni di libri. Avevano suonato
alla porta, ma lui, anche se aveva sentito, non si era alzato dalla scrivania
per andare ad accogliere l’ospite. Poco male. La porta di casa nostra era
sempre aperta: non avevamo niente di valore che potesse essere rubato e il
carattere scontroso di mio padre riusciva a tenere lontano chiunque. Stavo
passando in ingresso, con il battipanni di canna in mano, diretta in cucina,
quando a sbarrarmi la strada trovai un ragazzino con un lungo cappotto nero, i
capelli spettinati e due valigie, una a destra e una a sinistra, appoggiate sul
pavimento. Il tacco dei pantaloni e le suole delle scarpe erano completamente
infangate, così come, di conseguenza il mio povero pavimento. E dire che avevo
finito di lavarlo solo due ore prima!
«Ciao! Ho suonato, ma
nessuno a risposto. La porta era aperta così sono entrato. È questa la casa del
maestro Hawkeye, giusto?». La sua voce sprizzava eccitazione, una gran voglia
di mettersi subito a lavorare per apprendere i segreti dell’Alchimia. Con
grande delusione iniziale di mio padre, io non mi ero mai interessata allo
studio dell’alchimia. Alla fine anche lui aveva dovuto ammettere che era stato
meglio così: in questo modo potevo concentrarmi sulla gestione della casa e non
toccava a lui preparare la cena o fare il bucato. Un motivo in più per Berthold
Hawkeye per uscire il meno possibile dal suo sancta sanctorum.
«Mhmh». Ho già detto che
non sono mai stata di molte parole? Aggiungiamoci anche che ero ancora
abbastanza sconvolta dal mio pavimento infangato per rispettare i cerimoniali e
rispondere con una lunga frase cortese. E poi, ero di fronte ad uno sconosciuto
che si era preso la libertà di entrare in casa mia. Lo stavo guardando
malissimo. Di questo ne ero sicura. Non ero tanto sicura che lui avesse capito
perché.
«Sono Roy Mustang. Il
nuovo allievo del maestro» disse con un radioso sorriso allungandomi la mano
perché la stringessi.
Strinsi il battipanni
con entrambe le mani. «Le scarpe!».
«Cosa, scusa?» rispose
con ancora la mano in aria e lo sguardo smarrito.
«Le scarpe, per favore.
Puoi toglierle. Avrei appena finito di lavare».
«Oh, ma certo!». Si
tolse le scarpe, tenendole in mano perché non sapeva dove metterle.
«Di fianco alla porta»
indicai minacciosamente con il battipanni. Lui eseguì senza fiatare.
«Lasci la valigia qui.
La recuperiamo dopo. Adesso l’accompagno da mio padre». Dopo queste parole il
suo sorriso sbarazzino lasciò lo spazio ad un leggero stato d’ansia e di
preoccupazione. La prima impressione che gli altri hanno di te ti stigmatizza,
ti fissa per sempre nell’opinione di chi ti conosce. Sapevo per certo che lui,
Roy Mustang, voleva fare buona impressione sul maestro. Si guardò i piedi,
senza scarpe, solo i calzini grigio scuro, per poi spostare lo sguardo su di
me. «Ma posso presentarmi al maestro così?».
«Mi creda, non se ne accorgerà
nemmeno», cercai di rassicurarlo. Con scarsi risultati, mi duole ammettere con
il senno di poi.
Gli feci strada fino
allo studio e dopo aver bussato, aspettammo in religioso silenzio per alcuni secondi il permesso di entrare. Prima
entrai io, subito dietro me Roy Mustang. Mio padre se ne stava seduto alla
scrivania, libroni polverosi aperti sul pavimento, fogli scarabocchiati, penne
spuntate, boccette vuote d’inchiostro, un plaid sulle spalle, i vestiti
spiegazzati di due giorni, il viso non rasato, gli occhi incavati per la
stanchezza. E il nuovo ragazzo, con la sua camicia bianca perfettamente stirata
e infilata nei pantaloni neri, si preoccupava di fare una brutta impressione
solo perché non indossava le scarpe?
Il maestro sembrò non
guardarlo nemmeno. «E così tu saresti Roy Mustang?» domandò mio padre
rilassandosi sullo schienale della sedia.
«Sissignore!».
«Molto bene. Riza, puoi
lasciarci. Va’ a finire quello che stavi facendo» mi liquidò.
Solo a quel punto mi
resi conto di stringere ancora il battipanni in mano e di non essermi nemmeno
presentata al ragazzo. Ero troppo concentrata su quello che avevo fatto e
dovevo ancora fare. Aveva sentito il mio nome pronunciato da mio padre, con il
suo tono di voce apatico e disinteressato. Chissà che impressione io gli avevo dato!
Ubbidiente e silenziosa
tornai ai miei mestieri. Per rimediare, già che c’ero, pulii le scarpe di Roy
Mustang e portai la valigia nella sua stanza.
Ci rivedemmo per cena, dopo
che era rimasto chiuso un paio di ore nello studio con mio padre. La prima cosa
che mi disse, con lo stesso sorriso entusiasta che mi aveva accolto quando me l’ero
trovato nell’ingresso di casa fu «Non sapevo che il maestro avesse una figlia. È
un piacere fare la tua conoscenza, Riza!». Come se non ci fosse stato nulla dopo
la sua improvvisa apparizione, mi allungò la mano perché la stringessi. Non potei
che sorridergli di rimando.
E così si conclude la storia
di come la seriosa Riza Hawkeye incontrò l’uomo della sua vita Roy Mustang e di
come quella sua vita da quel momento non fu mai più la stessa. Così ha avuto inizio
la mia storia.
NOTE FINALI:
Sono viva!!! Ammettetelo: credevate fossi finita in un buco nero. Ed è effettivamente ciò che è successo. Se qualcuno è interessato ai miei affaracci privati e ai molti e alcuni validi, altri molto meno, motivi per cui non ho navigato per il lidi EFPiani, può contattarmi privatamente e sorbirsi una serie infinita di pippe e contropippe da parte della sottoscritta! Uomo avvisato... si usa dire!
Sono tornata con un theme che è tutto un programma. Nella lista è presentato così: 054. O Child-sama (somewhat playful tone of words here).
Ora, parliamone... con un titolo così non è facile sbloccarsi, soprattutto se negli ultimi mesi hai scritto solo in inglese, e per di più inglese accademico. Ma qualcosa ho tirato fuori dal mio magico cappello. Sarebbe stato molto più facile scrivere qualcosa su Roy (non rimuginiamo sul fatto che mi viene più istintivo e facile scrivere dal punto di vista di un uomo... la cosa è preoccupante, ma per il momento preferisco non affrontarla), o suoi i Mustang's-puppies! Ma siccome sono una tosta -o almeno mi piace crederlo- ho cercato di entrare nella testa di Riza. 87% ho sfondato nell'OOC. Pace, devo togliere un po' di ruggine! I hope you enjoyed it