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Autore: alexisvampira    26/03/2014    3 recensioni
Che ne è stato davvero di Haymitch, mentre Panem cadeva nella rivoluzione? Che ne è stato di Effie?
Una storia parallela agli eventi narrati nell’ultimo capitolo della saga, che ne riprende le fila e le narra dal punto di vista amaro di un vincitore dimenticato. Perché mentre il mondo va in fiamme, ognuno è lasciato a combattere la sua battaglia. E a fare i conti con se stesso.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Effie Trinket, Haymitch Abernathy
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Angolo autrice
Imperdonabile. E' ciò che continuo a dirmi mentre metto radici davanti alla tastiera del pc per mancanza di ispirazione. A coloro che non si ricordano nemmeno che esista questa storia dico: vi capisco. Scusate.
A coloro che nonostante tutto hanno ancora la pazienza di sbirciare qui e leggerla dico: grazie. Scusate elevato ad infinito. Consolatevi con il fatto che è un capitolo abbastanza lunghetto.
Ah, è il momento della svolta. 
Da qui in poi, niente sarà come prima. 
Non domandatevi in che modo: ancora non lo so io.
Oppure anzi, chiedetevelo e passatemi le vostre energie creative.
Ora come ora, l'unica cosa che si è scritta praticamente da sola è il titolo di questo capitolo, una fedele rappresentazione della mia esistenza in quest'esatto momento.
Buona lettura.
A.v.

CAP. 10 – ATTESA

(POV. HAYMITCH) 
Il tempo successivo all’entrata delle persone nel rifugio del 13 è più interminabile di quanto avessi mai potuto immaginare. Loro si rannicchiano sui freddi pavimenti di roccia, noi fissiamo gli schermi con i sederi incollati alle sedie. Almeno finchè non cade un altro missile: in quel caso si rischia che il culo tocchi terra, tanto si avvertono le vibrazioni che oltrepassano le pareti come fossero fatte di carta.
È un’attesa che mi lacera più di una lama incastrata in una ferita aperta.
Odio aspettare le tornate in successione delle bombe. Odio essere circondato da persone che aspettano come me. 
L’attesa è una delle poche cose che riesce a sfinirmi nel profondo: è strano, in effetti, per uno come me, abituato a bere aspettando la sbronza per poi attendere la sobrietà necessaria a tornare a bere di nuovo.
Piuttosto strano, in effetti.
La cosa che più mi fa male è anche quella da cui non riesco a liberarmi.
Piuttosto triste, in realtà.

“Se solo qualcuno lo volesse, potrebbe spezzarmi da un momento all’altro” penso. Non so perché ora rifletto su questo.
Probabilmente è per via di Katniss e della sua chiacchierata con Prim nel rifugio; non che volessi origliare, ma nelle ultime ore ascoltare di soppiatto le conversazioni di quelli nel bunker è stata l’unica cosa in grado di tenermi in piedi. 
In effetti, è origliare, si. E, in effetti, non me ne importa affatto. 
È stato un attimo; una frase, pronunciata dalla giovane Everdeen, ben più matura di quanto dimostri la sua età: qualunque cosa serva a spezzare te.
Si parlava di Peeta, ovviamente. Si parlava di Katniss e Peeta. La realtà è che si sarebbe potuto parlare di tutti e di nessuno.
Che cosa potrebbe spezzarmi?
Non so rispondere. O forse non voglio. Sono sottigliezze su cui posso benissimo passare sopra.

Per quanto provi a passare sopra anche all’attesa, qui il tempo scorre inesorabilmente lento.
E penso.
Qualcuno ha avuto la geniale idea di tirare fuori una brutta copia del caffè e io ho avuto l’ancor più geniale idea di berlo. 
E ora penso ancora di più.
Quando tutto è finito e vedo tornare Katniss e gli altri non sono sicuro nemmeno di che giorno è. Il bombardamento è terminato, il distretto è vivo: tutto questo è talmente meraviglioso che bisogna assolutamente girarci un bel pass-pro per immortalare il momento; anche se Katniss ha la faccia pallida e gli occhi che probabilmente stanno fissando il vuoto in cerca del ragazzo del pane; anche se Finnick Odair tiene tra le mani una zolletta di zucchero come se ne andasse della sua stessa vita; anche se io stesso dovrò supervisionare le riprese pur non sapendo nemmeno se riuscirò a reggermi in piedi dopo tanto stare seduto.
Come ho detto, è davvero un momento meraviglioso.

Nel tempo in cui riesco a riguadagnare la postura eretta e a trascinarmi in superficie per prendere la prima vera boccata d’aria da un sacco di tempo, i preparatori sono riusciti a rimettere a nuovo la piccola ghiandaia e ad allestire un set decente fra le rovine delle bombe.
Scelgo di dare il mio contributo a tutta la faccenda semplicemente perdendo il contatto con la realtà.
È un’idea che funziona a meraviglia almeno finchè le parole di Katniss non rimbombano in sottofondo come un disco rotto; ed è allora che sento i mormorii generali e mi accorgo che la mia vincitrice è accasciata a terra e sta annegando nel suo stesso dolore.
Mi ricorda i piccoli ciuffi di erba da cui prende il nome: un fuscello piegato e secco che tenta disperatamente di sfruttare il vento e rimettersi in piedi.
E mentre geme qualcosa che sembra somigliare al mio nome mi rendo conto che è già stata spezzata.
E nemmeno un miracolo la rimetterà in piedi.
E’ più il dovere di mentore che mi porta ad avvicinarmi ed abbracciarla in modo goffo che una reale voglia di condividere quel peso. Le sussurro parole insipide che sanno di scontatezza e rammarico.
Mi dispiace davvero dolcezza, non è che non mi preoccupo per te. E’ che di dolore ne ho già abbastanza di mio.      
Continuo a dirgli che andrà tutto bene e che non è colpa sua.
Ancora una volta sono un egoista che rivolge parole a se stesso.
Tutto accade piuttosto rapidamente: mi ritrovo a tenerla ferma mentre è presa da una crescente isteria e subito dopo sorreggo il suo corpo floscio, messo a tacere da un’abbondante dose di tranquillante. Vedo che la portano via e dentro di me vorrei tanto che mi iniettassero la stessa cosa per mettermi in pausa almeno un po’. Ma mentre mi alzo meccanicamente per seguirla in ospedale so che quelli come me non meritano lo stesso trattamento di favore.

Non faccio in tempo a fare un paio di passi che subito la mano curata e profumata di Plutarch mi ferma per comunicarmi che ho altri programmi. A quanto pare, da quando sono confinato in questo maledetto posto sembra che io abbia un sacco di programmi da rispettare di cui semplicemente ignoro l’esistenza: questa situazione me ne fa ricordare un’altra che non ho la forza per sopportare.
In men che non si dica mi trovo seduto di nuovo al chiuso del comando, imbrigliato in una riunione d’emergenza. Qui al distretto 13 amano molto riunirsi, non c’è che dire. Li sento battibeccare con toni accesi sulla necessità di avere la ghiandaia imitatrice più in forma che mai.
Ancora, e ancora, e ancora: darei qualsiasi cosa per sprofondare nell’oblio.
All’improvviso però, in mezzo a tutto quell’inutile ciarlare di necessità, le parole “missione di salvataggio” e “squadra di soccorso” mi svegliano come una secchiata d’acqua gelata in piena faccia.
Comincio decisamente a ringraziare di non aver avuto diritto al calmante.

Andranno a riprendere il ragazzo. Una spedizione per Peeta Mellark.
Sembra che dopo un po’ si accordino anche per recuperare Joahanna Mason, sempre che la trovino viva. In fondo, servono sempre buoni combattenti.
E anche la ragazza pazza del 4, Annie Cresta. In fondo, serve sempre una buona merce di scambio per far combattere quelli che abbiamo.
Mi aggrappo a qualcosa di profondo e viscerale che non ho né il tempo né il coraggio di chiamare speranza.

La riunione si conclude in fretta, e ci lasciamo con il compito di trovare i volontari per l’incursione. E’ come se mi fossero tornati indietro i miei riflessi da vincitore quando salto sulla sedia e afferro il braccio di un Plutarch Heversbee che mi guarda tra il sorpreso e lo scocciato. Lo trascino fuori dal comando sotto lo sguardo di disapprovazione della Coin e la perplessità di Gale che alza subito la mano per offrirsi volontario.
Le porte automatiche della stanza si chiudono e in quel momento rimaniamo solo io, lo stratega e il corridoio vuoto.

Sbatto Plutarch contro una parete e lo inchiodo con uno sguardo che credo sappia di disperazione.
Quella di un uomo che deve sfruttare al massimo la sua ultima occasione per fare ammenda.
- Riporta qui anche lei! - E’ ciò che ringhio.
Quando capisco che non ha afferrato di cosa sto parlando gli alito addosso tutta la mia frustrazione.
- Effie Trinket! Devi recuperare anche lei da Capitol City! -
Non mi piace come mi sta fissando. Ha nello sguardo un misto di superiorità e risentimento: sembra estremamente indignato dalla mia superficialità nel fissarmi su cose di poco conto. Ho una profonda voglia di chiudere le mie dita intorno a quel collo ben curato, perché mi rendo conto che il nome Effie Trinket non gli solletica minimamente la memoria.
Probabilmente non ha mai saputo chi è. Figuriamoci se poteva essere una sua priorità.
Davvero sono stato così stupido da schierarmi con queste persone?

Scorgo un tremolio sulle sue labbra, ma non ha il tempo di aprir bocca, visto che per il suo bene lo precedo.
- Me lo devi Plutarch. Un patto è un patto. Quindi trovala! -
E riportamela, penso.
Perché ho bisogno di farle le mie scuse.
E di risentire la sua voce squillante che in queste stramaledette pareti sotterranee rimbomberà ancora di più.
Non smetto di stringergli il bavero della camicia neanche quando mi assicura che cercherà di far il possibile, neanche quando mi dice che lo farà come favore personale. Lo lascio andare solo quando vedo l’ombra di paura che attraversa i suoi occhi, mentre sussurro la frase: - Bene, perché io sarò qui ad aspettarti! –

E ad aspettare lei.
  
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