Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: Kourin    27/03/2014    2 recensioni
Un venticello fresco fa frusciare le foglie rosse degli aceri, una si stacca e finisce sull'acqua. Faccio per toglierla, ma tra le increspature vedo qualcosa di strano. E' il volto di un bambino che ha capelli di alghe e occhi di serpente. Mi spavento, poi ricordo che la malattia ha cambiato per sempre il mio aspetto. Non riesco proprio ad abituarmi a vedermi così. A pensarci bene, neanche queste mani che tremano ancora e sanno di erbe medicinali sembrano le mie.
Storia gemella di Tōryanse. Stavolta i protagonisti sono Shin e Naaza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cye Mouri, Sekhmet
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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3. Nāza



Shin non sapeva per quanto tempo sarebbe rimasto in quel luogo. A dire il vero, non sapeva nemmeno se in quel luogo il tempo scorresse. Poteva benissimo trovarsi ancora in fondo al mare, come il Tarō Urashima della fiaba che tanto gli piaceva da piccolo.
“Lui era stato trattenuto nel regno del Re Drago dalla felicità. Che cosa mi trattiene qui?” si chiese osservando il rosario di ricordi che gli incatenava il braccio. Le perle creavano un groviglio inestricabile e incomprensibile, come l'armatura che portava il nome di Yakushi.
“Uno strumento di morte che guarisce. Uno strumento di guarigione che avvelena. Avevi due facce, come Suiko,” disse all'elmo che teneva in mano.
Iniziò a radunare con lo sguardo gli altri frammenti, trovò l'impugnatura di una spada. Bastò il debole scintillio dell'occhio del serpente per liberare in Shin il ricordo dei combattimenti con Nāza. Il tanfo del mare avvelenato a morte tornò a soffocargli i sensi, una fitta di dolore gli ghermì i visceri. Lasciò cadere l'elmo e portò le mani al viso ancora inumidito dalle lacrime del ragazzo di Satsuma, come per creare un sipario in grado di chiudere l'atto di quella tragedia.
Il buio, tuttavia, risultava ugualmente insopportabile.
“Ragazzi, dove siete? Ho bisogno di voi.”
Gradualmente, silenziose come fantasmi, affiorarono in lui nuove immagini. Erano ricordi che gli appartenevano, anche se non avrebbe potuto dire con esattezza a quando risalissero.
Battibeccava con Shū, che lo aveva rimproverato di preoccuparsi troppo. Osservava Tōma che, pensieroso, portava la mano al mento. Sperava nella certezza che vedeva delinearsi negli occhi di Seiji. Accoglieva il calore della mano di Ryō appoggiata sulla spalla.
Rincuorato, iniziò a schiudere le dita. Lentamente, come un bambino che spera di aver cambiato la realtà esprimendo un desiderio.
Con grande sorpresa di Shin, qualcosa era cambiato davvero. Vicino a Nāza c'era una sagoma bianca. Un animale acciambellato, dal pelo folto e le orecchie appuntite. Accortosi di essere fissato, le scosse e si alzò: si trattava di un lupo, per giunta di grandi dimensioni. Nei suoi occhi non era riflessa la luce la luna, ma un cielo dorato illuminato da astri sconosciuti. Fu attraverso quello spazio che la voce di Kaosu si propagò fino dentro Shin, proprio come quando anni prima gli parlava in sogno.
“Suiko, vestire l'armatura è il destino dei Samurai Troopers, ma per i guerrieri che Arago aveva reso suoi servitori non è diverso. Quando le armature sono andate distrutte non sono stati liberati dal loro destino, ma ne sono stati privati. È tuo compito riforgiare Yakushi per permettere al guerriero che la indosserà di portare a termine la sua esistenza umana.”
Shin si rese conto di quanto fosse cambiato. Le parole di Kaosu erano sempre state per lui una guida e una fonte di sollievo nell'inquietudine, invece ora gli apparivano dure e spietate.
“Kaosu,” rispose, “Io ho imparato ad accettare il destino di cui parli. Convivo ogni giorno con la presenza di Suiko, ma faccio fatica a non odiarla, perché ho imparato che è uno strumento di distruzione. Non sono la persona adatta per un compito del genere.”
“Nessun altro cuore può toccare i ricordi di Tei. L'obbedienza che presiede al potere della medicina può risvegliarsi pienamente solo se sorretta dalla fiducia. Se tu non gliela accordassi, alimenteresti la paura che si annida in entrambi i vostri animi.”
Shin si sentì travolgere dall'amarezza, quando il lupo gli si avvicinò e gli leccò la mano. Shin lo accarezzò. “Kaosu, mi ritieni un codardo?”
“No Suiko, affatto. Ti chiedo perdono, perché di nuovo obbligo voi Samurai Troopers a riparare ad un mio sbaglio. Più di quattrocento anni fa, gli scontri tra i signori della guerra avevano fatto sì che a Satsuma nascesse un ragazzo fuori dal comune. Il suo cuore, Tei, era immaturo e solo. Arago ne approfittò subito e lo prese con sé. Fu un mio grave errore credere di avere spogliato Arago della sua forza dividendo in nove parti la sua armatura.”
Il lupo indietreggiò, poi iniziò ad ululare. Lo shakujō di Kaosu piombò dall'alto piantandosi davanti a Shin. Gli anelli tintinnarono, lo squarcio sul soffitto si allargò come una macchia rivelando un cielo albeggiante dove coesistevano il sole e la luna. Le assi delle pareti semidistrutte ondeggiarono fino a trasformarsi in drappi di seta rossi e bruni, decorati da paesaggi autunnali e uccelli in volo. Pregni d'incenso, mossi da correnti d'aria umide e calde, i raffinati tessuti svelavano e nascondevano rocce in cui erano scolpiti misteriosi volti. Sebbene nel cielo non ci fossero nubi, tutt'intorno si udiva il suono delle gocce d'acqua che scivolavano lungo le foglie.
Nāza giaceva ancora addormentato. Si era spostato su un fianco e ora i suoi capelli verdastri formavano un tutt'uno col tappeto di muschio che copriva l'umido pavimento di roccia. Sulla sua fronte Tei brillava pura, simile ad un gioiello. Il lupo bianco gli era tornato accanto, come a volerlo proteggere.
Non ho scelta. Non posso cancellare le armature, posso solo cancellare la paura del loro potere contraddittorio. Se non lo farò, non uscirò mai da questo luogo.
Shin disse: “Riforgerò Yakushi. Il mio cuore troverà la forza nella fiducia che i Samurai Troopers hanno sempre riposto in me.”
L'animale reclinò all'indietro le orecchie, poi si diresse verso un drappo di seta più scuro degli altri e svanì nella natura autunnale che lo decorava, quasi fosse stato un precoce fiocco di neve.

Bastò toccare il pettorale di Yakushi perché si ricomponesse. I ricordi, divenuti metallo liquido, rinsaldarono le fratture e ravvivarono ciò che era apparso irrimediabilmente corroso. Il verde assunse tonalità più chiare, il rosso s'ingentilì di sfumature ramate. Alcune parti si riplasmarono del tutto e la loro superficie divenne grigio metallo.
Elemento dopo elemento, l'armatura acquisì la sua nuova forma. L'elmo mantenne la decorazione fiammeggiante, gli speroni che spuntavano da spalle ed i gambali si ritrassero, il lungo fiancale si aprì in tre parti, snellendosi.
Quando arrivò il momento di toccare le spade, Shin non poté fare a meno di pensare per l'ennesima volta: “Sono armi che hanno ucciso esseri umani e altre creature viventi.
Per un attimo le lame parvero rigenerarsi, ma il metallo che le costituiva non s'indurì. Ondeggiava come se fosse vivo, mentre le impugnature si appiattivano e si aprivano in due, sibilando. Shin arretrò di scatto, rendendosi conto che le spade si stavano trasformando in cobra: la loro pelle era fatta di squame dorate, gli occhi erano rubini. Si avvolsero contemporaneamente intorno all'armatura, le bocche spalancate ad esporre i denti venefici, come se fossero un unico essere a sei teste.
Quest'armatura non ha fiducia in me, perché io non ho fiducia nel suo cuore.
Shin si avvicinò al Generale del Veleno, gli si inginocchiò accanto e gli pose la mano sulla fronte. “Naotoki,” chiamò.
Lui aprì gli occhi. “Ragazzino...” La voce adulta uscì dal corpo giovane, facendolo tremare. Si guardò intorno guardingo, poi assottigliò le palpebre violacee, fissando l'armatura incompleta.
“Che cosa ci accomuna?” chiese Shin. “La tristezza, forse? Dopotutto anche tu l'avevi provata quando hai indossato per la prima volta Yakushi.”
Il generale si alzò seduto, senza annuire né smentire.
“Tu sei passato dalla parte di Arago e io non riesco a farmene una ragione,” proseguì Shin. “Mi serve quel ricordo.”
Nāza rispose: “I ricordi di Satsuma erano quanto di più prezioso io avessi. Sono dovuto scendere nel mondo degli uomini per raccoglierli uno ad uno, seguendo i sentieri dei pellegrini. Ma al mio dolce Suiko non bastano,” concluse con un ghigno. “Il mio dolce Suiko vuole di più!” Esclamò piegando il collo all'indietro e prorompendo in una risata. Shin lo lasciò ridere finché gli mancò il fiato, poi attese che si riprendesse in mezzo a rantoli e colpi di tosse.
Dopo che fu rimasto per un po' in silenzio, Nāza iniziò a raschiare il muschio con le unghie. Alcune si spezzarono e il sangue si sparse nei solchi, ma lui sembrava talmente concentrato nei suoi pensieri da non avvertire dolore.
All'improvviso si alzò e si tolse la giacca in un solo gesto, quasi strappandola, restando a torso nudo. “Guarda bene, Suiko!” ordinò.
Shin vide che una cicatrice gli solcava l'addome. Probabilmente era stata inferta da una spada.
“Non sono mai riuscito a guarirla,” rivelò Nāza. “Ma non so nemmeno come me la sono procurata. È un ricordo che il mare di Iyo non mi ha mai restituito. Pensa, Suiko, nella mia esistenza di Generale Demone del Veleno sono stato così malvagio da attirare perfino il suo odio.”
Shin però si chiedeva: “Che razza di discorso sta facendo?
“Dev'essere la mia punizione,” continuò Nāza guardandosi le mani, mentre la voce si faceva più acuta. “Vivere le conseguenze dell'odio senza sapere il perché.”
Quei ricordi sono sempre rimasti dentro di lui, li ha portati con sé nel mondo degli yōja, ora li conserva da qualche parte nel suo cuore.
“Perché?” chiese Nāza fissando i drappi di seta.
Rispose il verso stridente, quasi assordante, di un uccello, seguito da un frenetico battito d'ali e dal rumore delle fronde strappate con violenza. Nāza portò le mani alle orecchie e urlò. Il grido feroce attirò una folata di vento che sembrò lacerare la barriera effimera che li proteggeva dall'ignoto, mentre Tei diveniva intermittente come il bagliore di una lucciola.
Shin chiamò: “Naotoki!”
Se è vero che Tei e Shin sono collegati, deve esserci un modo per recuperare quel ricordo. Shū, Seiji, Tōma, Ryō... Aiutatemi!
L'altro lo fissò con astio. “Non so perché io ti permetta di chiamarmi per nome, ragazz...” Ma Shin aveva già appoggiato la fronte su quella di lui, tenendolo fermo per i capelli. Chiuse gli occhi, tornò a cercare la voce di Suiko in mezzo allo stridore e al caos, finché il bagliore azzurro della Fede iniziò a guidarlo.
Con la mano sinistra toccò l'addome del Generale Demone, come se le dita dovessero penetrare all'interno della cicatrice. Gradualmente, iniziò a riconoscere la forma dei ricordi rimasti sopiti per quattro secoli.
Aiutatemi,” ripeteva, mentre l'animo tornava a respirare salsedine e morte.


Non sono tornato a casa. Non so il perché. Forse ho paura, forse è giusto che sia così. Quando guardo la cicatrice che mi segna il fianco, mi chiedo se sono un essere umano oppure un demone, il figlio di una donna serpente che stregò mio padre in una notte d'estate. Forse il mio posto non era sulle spiagge dei pescatori né dentro ai castelli dei samurai, ma sui monti, dove dimorano gli spiriti.
Eppure mi trovo ancora vicino al mare, in mezzo agli esseri umani. I monaci che mi hanno trovato sull'isola mi hanno portato con loro senza fare domande. Mi hanno dato una veste che un tempo doveva essere stata nera. Mi è grande e mi copre come il silenzio in cui mi sono avvolto per nascondere il segreto che porto.
Ogni giorno le correnti restituiscono alle spiagge di Iyo i cadaveri delle battaglie. I monaci li raccolgono e li seppelliscono. Ogni sera mi perdo nelle litanie funebri, finché il vento ne disperde gli echi a sud insieme ai sentimenti che avevano condotto quelle persone in mare.
La mia famiglia mi manca, ma sento di non poter tornare. Non ora.

Anche oggi vedo arrivare quello strano ragazzo. Veste abiti grigi più malandati dei miei e porta sempre con sé una sacca. Si ferma al limitare della spiaggia e mi osserva a distanza da sotto la zazzera che gli ricade sugli occhi, senza dire nulla.
Stanco di chiedermi se stia cercando me o se abbia soltanto fame, stamattina ho deciso di andargli incontro. Nascosto nella manica porto il riso che ho messo da parte. È il mio pranzo, ma posso benissimo farne a meno.
Mi avvicino camminando lentamente tra i sassi. Lui non fugge: resta fermo, come se mi aspettasse. Quando ci separa solo un mucchio di sterpi, mi rendo conto di quanto sia grande. Per la mia età sono piuttosto alto, eppure credo di non arrivargli nemmeno al torace.
Gli porgo il riso, lui risponde con un ghigno che spaventerebbe chiunque, ma non me. So che non può essere diversamente perché gli mancano dei denti. Quando le sue labbra carnose e storte si muovono, esce un suono che assomiglia ad un latrato: “Non ne ho bisogno.”
Vuoi che ti guarisca? Guarda che lo vedo, che non sei in buona salute.”
Non ne ho bisogno.”
Allora perché vieni qui ogni giorno?”
Quel ragazzo abbassa la testa. Le sue spalle si muovono come se ridesse, ma io sento solo il sibilo del vento. “Volevo vederti, ragazzo-serpente,” dice infine, colpendomi a tradimento con un ghigno ampio e tagliente.
Non provare a prendermi in giro!” Lascio cadere la ciotola, stringo i pugni. “Anche se sei grande e grosso non mi fai paura. Io... io...” Vorrei dire 'Sono un samurai', ma le parole mi si bloccano nella gola.
Tu sei come me. Sono stato cresciuto da un monaco, nessuno mi voleva perché sembravo un mostro. Ma lui è morto. Ormai da tanto tempo. A causa di un'armatura.”
Faccio un passo indietro, spaventato. “Che ne sai, tu?”
Le armature danno la forza per realizzare i desideri. Ma non qui. Nel mondo degli esseri umani portano sventura ed infelicità. Guardati, ti definisci un guerriero? Qui non avrai mai ricompensa per ciò che vali.”
Resto accecato, come se le sue parole avessero spalancato all'improvviso una porta sul sole di mezzogiorno. Osservo le mie mani ossute macchiate dai medicamenti, gli orli lisi delle vesti, i sandali consunti, il riso sparso a terra.
Quando avrai deciso di usare la vera forza che possiedi, tornerò per mostrarti la via per Bonnōkyō,” dice il ragazzo prima di andarsene. I suoi capelli non paiono diversi dagli sterpi seccati dal vento, né i suoi vestiti paiono diversi dalle pietre erose dal sale, tanto che lui sembra svanire nel nulla.
Raccolgo la ciotola di legno, la nascondo nella manica e corro verso il tempio. Mi chiudo in un ripostiglio, controllo la sfera che brilla nel palmo della mia mano. Non ha perso il suo candore. “Tei,” continua a dirmi con insistenza. Allora richiudo le dita, abbraccio le ginocchia e attendo che trascorra l'autunno.


Un fiocco di neve trascinato dal vento tocca la mia guancia. La scia umida che lascia sulla pelle mi dà sollievo: presto la guerra si fermerà e le armature non saranno più necessarie.
Tutti dicono che sarà un inverno duro, perché non c'è da mangiare. Il riso è andato al bakufu, il grano è andato ai signori. A contadini e pescatori è rimasto ben poco da spartire.
Mentre cammino verso il villaggio con la cesta delle erbe medicinali, continuo a guardarmi intorno. Non ho più visto in giro quello strano ragazzo, ma ho la sensazione che continui ad osservarmi sia quando tento di riscaldarmi al sole di giorno che quando tremo di freddo la notte.
Forse dovrei dimenticarlo e preoccuparmi piuttosto dei briganti. Sono sempre più numerosi, dicono che molti di loro erano samurai. Ma come può un samurai divenire un brigante? Più ci penso e più mi sembra una cosa impossibile.
I miei pensieri vengono interrotti da una folata di vento che porta con sé l'odore di legno bruciato. Guardo verso il villaggio, vedo il fumo che si alza mentre il refolo successivo mi schiaffeggia con grida e spari.
Inizio a correre in quella direzione, senza prestare attenzione a chi, fuggendo, mi mette in guardia. “Naotoki, vattene, scappa!” oppure “Naotoki, sei impazzito, ti uccideranno!” Dicono. Ma io non li ascolto e continuo ad avanzare.
A darmi il benvenuto ci sono solo scintille e ceneri spazzate via dalle case deserte. Il vento non si cura dei gemiti dei pescatori che giacciono feriti a morte, né del pianto delle donne caricate sui carri insieme a pesce essiccato e giare di sake.
Appoggio la cesta e inizio a soccorrere chi sanguina, finché un brigante che sta cercando qualcosa in mezzo al crepitare delle fiamme mi nota. Veste abiti lerci, impugna una lancia. “Che diavolo stai facendo, ragazzino?”
Di lui non ne facciamo niente, è pure brutto,” dice un secondo brigante che sopraggiunge alle sue spalle. È seminudo, ma porta un imponente elmo decorato con corna di cervo.
Aspetta,” si intromette un terzo che imbraccia un archibugio. “Quello dev'essere il ragazzino del tempio. Potrebbe servire, prendetelo!”
Il primo brigante mi afferra per un braccio e mi trascina verso i carri, dove sono radunati tutti i suoi compagni. Sono un'accozzaglia di guerrieri senza insegne, ma sono bene armati e sembrano organizzati, proprio come dei mercenari. Come ho potuto essere così stupido da volermi unire a gente simile?
Vengo spinto in avanti. Non riesco ad evitare di cadere, ma rialzo subito lo sguardo. Nei volti degli uomini che mi scrutano leggo disprezzo misto a divertimento. Iniziano a discutere se io sia davvero capace di fare qualcosa e se sia il caso di uccidere qualche donna per lasciarmi un posto sul carro.
Inizio a provare disgusto, ai miei sentimenti fa eco la voce dell'armatura. Risuona in me con un ritmo crescente, come nel giorno in cui la trovai. Mi convinco che la sua forza è necessaria, perché al momento nessun altro può salvare queste persone.
Quando ormai nessuno presta più attenzione a me, cerco la sfera e sussurro: “Vestizione.”
Per un attimo tutto diviene buio, poi l'armatura risponde saldandosi al mio corpo. Quando riemergo nella luce, la tracotanza dei briganti svanisce. Vedo le loro gambe tremare, alcuni di loro cadono all'indietro e provano a scappare.
Che nessuno fugga!” è il grido del capo, che si fa avanti su un cavallo scuro elegantemente bardato. Indossa un elmo laccato di rosso ornato da una mezzaluna, come quello di un vero signore, chissà se lo è mai stato. Sembra davvero non avere paura. Nei suoi occhi neri leggo solo la brama di affrontarmi, quando chiede: “Non importa quanto bella sia la tua armatura. Come l'hai ottenuta? Hai fatto un patto con un demone o hai semplicemente spogliato qualche cadavere?”
E tu, quella che indossi, come l'hai avuta? Non puoi essere un samurai!”
Ho ucciso chi la possedeva. Ma la tua è più bella e ucciderò anche te per poterla indossare, ragazzino.” Si volge ai suoi e ordina: “Avanti, attaccatelo!”
Subito le pallottole degli archibugi mi colpiscono, ma senza scalfirmi.
Sfodero le spade che porto ai fianchi. Sono completamente diverse da quelle di chi mi sta attaccando e le loro lame risplendono in maniera incredibile. Non ho mai combattuto con due spade, eppure le sento come se fossero il prolungamento delle mie braccia. Riesco a disarmare tutti i briganti che mi attaccano. Quando scrollo il loro sangue, mi accorgo che le lame restano bagnate, come se trasudassero qualcosa, ma non ho il tempo per rifletterci su.
È tutto quello che sai fare?” Mi schernisce il capo. È sceso da cavallo e si sta avvicinando. Ride, ma la risata viene interrotta dalle urla degli uomini che ho colpito. Si contorcono a terra, loro ferite sembrano bruciare. Come se fossero stati avvelenati.
Le mani mi tremano, provo a rinfoderare le spade, non ci riesco, allora le pianto in terra e guardo le mie mani: sono stato davvero io a fare una cosa del genere? Eppure non avevo intenzione di uccidere!
Altri briganti se la danno a gambe, ma il capo si fa passare una lancia e trafigge alla gola il primo, che cade bloccando la fuga. “L'ho già detto, non siamo codardi! Uccidete tutti quelli che trovate vivi, del ragazzino mi occupo io!”
No! Non vi permetterò di uccidere altra gente!”
Allora devi uccidere me. Non credevo che alla tua età sapessi già usare i trucchetti del veleno. Chi te l'ha insegnato? Da dove vieni veramente? Parla, non essere timido come un bravo ragazzo, perché non lo sei.”
Così dicendo mi attacca, io paro il colpo con le braccia. Sfodero un'altra spada, miro al suo fianco, ma lui para con la spada corta, arretra e torna all'attacco. È feroce e agile allo stesso tempo, così mi trovo ad indietreggiare respingendo i suoi assalti senza riuscire a scalfirlo. Mi rendo conto di stare perdendo troppo tempo. Respiro la paura delle persone che stanno per venire uccise, le loro grida mi raggiungono una dopo l'altra e si accumulano nella testa insieme a quelle dei briganti che esalano l'ultimo respiro nel veleno. Il mio avversario ne approfitta per colpirmi il polso. La lama non penetra nella carne, ma avverto ugualmente un dolore intenso, che quasi mi fa lasciare la presa. Proprio in quel punto, dalla mia armatura inizia a colare un liquido rossastro.
Il capo dei briganti se ne accorge e balza all'indietro per mettersi in salvo. Ma appena quel liquido viene a contatto con il vento, si trasforma in una nube che investe chiunque si trovi sulla sua traiettoria. D'istinto porto le braccia davanti al volto.
Tutto avviene nell'attimo di un respiro e, quando mi guardo di nuovo intorno, sono circondato da cadaveri. Gli sterpi sono diventati bianchi come sale e si spezzano al minimo tocco. Non c'è traccia nemmeno di insetti.
Ma tu… chi diavolo sei?” Rantola il mio avversario in mezzo agli spasmi. Il suo volto è sfigurato come se avesse attraversato il fuoco.
Non... non lo so,” rispondo rivolgendomi all'orizzonte.
Mi spoglio dell'armatura, raccolgo le spade che avevo piantato in terra e, trascinando le lame sulle rocce, raggiungo la spiaggia. Seguo il limite delle onde per un tempo che mi pare infinito, finché, stremato, cado. Allora osservo la posizione del sole e mi rendo conto che mi stavo dirigendo verso sud. Inizio a ridere senza riuscire a fermarmi.
Ce n'è voluto prima che conoscessi il vero potere della tua armatura. Se avessi chiesto a me, avresti risparmiato tutta questa messinscena.”
Quel ragazzo è di nuovo davanti a me.
Così sembra,” rispondo sorridendogli, come se fosse un amico. Egli mi tende la mano, grande e tozza. Ma io non l'afferro e mi scaglio contro di lui con tutta la forza che mi rimane. Non riesco a sbilanciarlo, tuttavia il sacco che porta in spalla cade sulla sabbia, lasciando rotolare fuori un elmo scuro. La maschera rossa mostra denti affilati, dietro agli occhi ondeggiano fiamme purpuree.
Maledetto!” urlo inorridito. “Che cosa sei, un demone?” Gli afferro i capelli per poterlo vedere negli occhi, ma trovo solo delle cavità scure.
Il ragazzo allora mi prende per la testa e mi solleva da terra con facilità, come se fossi una piuma. “L'armatura che indossi mi appartiene e di conseguenza anche tu sei mio!”
Mi aggrappo al braccio che m'imprigiona, ma non posso fare nulla. La mia fronte brucia. Bruciano la mia malattia, la casa in cui ero nato, le navi da guerra che mi avevano condotto fin qui. Tutto diventa cenere grigia che si sparge nel mare di Iyo.

Intorno ogni cosa è rossa come il sangue. Provo a sfregarmi gli occhi, ma non cambia nulla.
Davanti a me si sta spalancando un cancello. È talmente gigantesco che riesce ad inghiottire il vento. Il cigolio dei cardini si confonde con i tuoni che squarciano un cielo, ai lati le correnti del mare ripiegano in profondi vortici.
La voce che mi parla proviene proprio da lì.“Che cosa aspetti a seguirmi? Questa è la strada per Bonnōkyō, la città dei desideri.”
Chi sei?” chiedo urlando a più non posso, per non lasciarmi cancellare dal vento.
Sono Arago, il futuro imperatore degli yōja e degli esseri umani. È un grande privilegio quello che ti sto offrendo, ragazzino.”
Tu... Voi sapete chi sono?”
Il tuo nome è Nāza, sei il Generale Demone del Veleno. Comanderai gli altri generali, che a loro volta comanderanno i miei eserciti. Diverrai un guerriero leggendario e otterrai ricompense e territori.”
Non ricordo,” urlo. “Io non ricordo di avervi giurato obbedienza.”
Una risata cavernosa si propaga attraverso i contorni delle nubi, danzando tra i lampi. “Nāza, la tua Obbedienza mi appartiene, sono il tuo Signore, è un dato di fatto.”
Sento di non potermi opporre, eppure preferirei non varcare quel cancello. Mi guardo intorno, in terra vedo due spade. Riesco a raccoglierne una prima che il vuoto che si sta creando tra le correnti mi risucchi. Provo orrore di fronte a ciò che ho davanti eppure, passo dopo passo, le mie gambe iniziano ad avanzare nell'acqua gelida.
No!” grido, ma la tempesta mi strappa il fiato. Impugno la spada, con forza. Sento di preferire morire piuttosto che assecondare quella volontà. Anche se il mio braccio trema. Anche se forse, lontano, ci sono persone che piangeranno il mio gesto.
No!” ripeto per l'ultima volta piantandomi la lama nell'addome. Mi attraversa da parte a parte, lacerandomi le viscere finché le gambe, finalmente, si fermano.
Dicono che chi sta per morire riveda la propria vita, ma io non vedo nulla mentre cado in avanti. Non so se la mia vita sia stata quella di un samurai oppure quella di un criminale. Di certo non quella di un buddha perché, se così fosse, non sarei morto di spada. Mi torna in mente il sorriso di una statua, chissà quando l'avevo vista, aveva una gemma bianca incastonata sulla fronte. Dalle mie labbra escono solo due sillabe: “Ya… ku...”. Poi della mia esistenza nel mondo umano non resta più traccia.










 
  
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