Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: Kourin    15/09/2013    2 recensioni
Un venticello fresco fa frusciare le foglie rosse degli aceri, una si stacca e finisce sull'acqua. Faccio per toglierla, ma tra le increspature vedo qualcosa di strano. E' il volto di un bambino che ha capelli di alghe e occhi di serpente. Mi spavento, poi ricordo che la malattia ha cambiato per sempre il mio aspetto. Non riesco proprio ad abituarmi a vedermi così. A pensarci bene, neanche queste mani che tremano ancora e sanno di erbe medicinali sembrano le mie.
Storia gemella di Tōryanse. Stavolta i protagonisti sono Shin e Naaza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cye Mouri, Sekhmet
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Lasciami guarire


 
1. Ohenro



Quel pomeriggio sulla costa di Iyo regnava il silenzio. Le foglie d'autunno terminavano la loro esistenza vorticando prima di adagiarsi, immobili, sul sentiero percorso dai pellegrini.
Il tintinnio di un campanello annunciava il passaggio di uno di loro. Come tutti, indossava abiti bianchi. Un bastone di legno lo aiutava a scandire il ritmo pigro dei suoi passi, un cappello di paglia lo proteggeva dallo scorrere impetuoso dell'epoca in cui il destino lo aveva deposto.
Proprio lui, una volta così fiero di aver raggiunto l'immortalità, si sentiva come una piccola lucertola nata fuori stagione. Per quanto s'impegnasse, gli risultava impossibile riafferrare ciò che i refoli d'aria salmastra restituivano: frammenti di passato tondeggianti, rari e belli come perle, oppure frammenti di passato taglienti, numerosi come gusci di conchiglie. Tutti minuscoli granelli che rischiavano di scivolare tra le dita, perdendosi per sempre.
Stanco come non mai, si abbandonò a sedere su una roccia e lasciò che lo sguardo s'inebriasse dell'azzurro del Mare Interno di Seto, dapprima punteggiato da piccole isole, poi solcato da pescherecci, infine fuso con il cielo. Il soffio del vento increspava il labile confine dell'orizzonte, richiamando dal passato velieri zeppi di merci, soldati e corsari pronti a combattere per la supremazia della strada celeste. Affascinato dai prodigiosi miraggi della mente, il pellegrino non dava importanza ai passi affrettati che si avvicinavano, né ai richiami affannati che cercavano con insistenza di raggiungerlo.
Tornò al presente solo quando l'uomo gli fu crollato davanti, sfinito. Grande e grosso, aveva i capelli grigi: né la stazza né l'età dovevano essergli state d'aiuto nella corsa. “Mia moglie è stata morsa da una vipera, sto andando a chiamare i soccorsi,” farfugliò ansimando. “Lei si intende di medicina?”
Senza togliersi il cappello, il pellegrino annuì. L'uomo indicò la direzione mentre riprendeva fiato. Il pellegrino raccolse il bastone e iniziò la discesa verso il mare: a differenza dell'animo, il suo corpo si era mantenuto agile e incorrotto.
Trovò la donna a terra, terrorizzata. Il volto era pallido, le mano tremavano. Altre due la sostenevano, ma sembravano più spaventate di lei quando le dicevano di 'farsi coraggio'. Stavano per spiegare al pellegrino la situazione, ma lui le fermò con un cenno. “Mi faccia vedere il morso,” disse mentre lasciava scivolare il cappello sulla schiena. Alle donne il suo aspetto dovette apparire ben strano, poiché nei loro occhi egli poté leggere distintamente sconcerto e ripugnanza. “Chi sei?” chiese allarmata la più giovane.
Il pellegrino fece per rispondere, ma poi si morse le labbra e tacque. Si inginocchiò ed esaminò il polpaccio della donna ferita. I segni del morso erano chiaramente visibili. “Mi perdoni,” disse prima di stringere la ferita in modo che il sangue tornasse a fuoriuscire. Poi iniziò a succhiarlo.
La donna strillò, tentando di allontanare il pellegrino spingendolo con l'altra gamba. Le altre due lo tiravano per le spalle ma, per quanta forza ci mettessero, non riuscivano a farlo desistere. Esclamarono: “Ma da dove vieni? Non si deve fare una cosa del genere!” E poi: “È pericoloso anche per te, rischi di finire avvelenato!”
Ma il pellegrino non le ascoltò e quando ebbe finito disse: “Mi scusi ancora, signora. Passerà subito.”
Una volta che gli ebbero tolto le mani di dosso, si alzò, si risistemò la giacca e si allontanò. Poco dopo alle sue spalle udì l'esclamazione: “Il dolore è sparito!” E poi: “Aspetta, ragazzo!” Ma lui non si voltò indietro, perché aveva una missione da portare a compimento e l'incontro con quegli esseri umani non aveva fatto altro che ricordargliene impietosamente l'urgenza.
Negli ultimi secoli aveva vissuto nell'eternità dell'odio. Un odio assoluto, profondo, che lo aveva fatto sentire forte. Ora avrebbe dovuto esserne libero eppure, per qualche strana ragione, continuava ad esserne affascinato. In un certo senso, l'odio altrui costituiva l'unica certezza della sua esistenza scostante. La missione, invece, gli imponeva di andare alla ricerca di un sentimento diverso. Proprio quello che, negli esseri umani, era certo di ispirare di meno.
Come spesso accadeva quando si trovava a ragionare sulla sua condizione, il torace iniziò a scuotersi in una risata. Per calmarsi, fermò i propri passi.
In quel punto il sentiero costeggiava una spiaggia sassosa. Alcuni gabbiani che riposavano sulle rocce, allarmati, lanciarono i loro richiami e si levarono in volo.
Il rosso del tramonto iniziava a scurire gli scogli appuntiti che emergevano dal mare. Le ombre che prendevano forma sull'acqua inquieta sembravano pugnali affilati rivolti contro di lui. Il pellegrino si avvicinò all'acqua e allargò le braccia, pronto a riceverli. La risata repressa esplose mescolandosi al cupo sciabordio delle onde.
“Sto ridendo di me, non ti basta?” gridò al mare e a tutto ciò che racchiudeva.
La spuma delle onde gli rispose schiaffeggiandogli il volto.

Era un brutto presentimento quello che lo aveva tirato giù dal letto prima del suono della sveglia. Uno di quelli che a Seiji faceva incrociare le braccia e affermare: “Ho un brutto presentimento,” solo che a Shin non riusciva di dirlo con classe. Stava male e non riusciva a dissimulare la sua inquietudine in alcun modo. Non soffriva il mal di mare, eppure gli veniva da vomitare. In tutta la giornata non aveva toccato cibo. Ai suoi colleghi però non aveva detto nulla. “Che cosa avrebbero potuto capire?
Shin si trovava a bordo di un'imbarcazione adibita agli studi sull'inquinamento, ora impegnata in un complesso monitoraggio del Mare Interno. Insieme ad altri ragazzi, tutti studenti e ricercatori universitari, aveva trascorso l'estate a raccogliere campioni di sedimenti marini. L'industria chimica del dopoguerra aveva indiscriminatamente versato in quelle acque i propri scarti, alcune zone erano state irrimediabilmente contaminate e costruire una mappa sulla gravità della situazione era diventato di primaria importanza. Shin era orgoglioso di poter dare il suo contributo. “Era ora che ci rendessimo conto di averlo avvelenato,” pensava quando fissava la distesa calma e azzurra. Il Mare di Seto nascondeva bene i suoi problemi: in superficie si mostrava limpido, nei fondali covava i veleni accumulatisi nel passato. “In un certo senso, ci assomigliamo,” concludeva spesso Shin con un sorriso amaro.
Quella sera attraccarono in una piccola baia che si apriva a pochi chilometri di distanza da un vecchio impianto, ora dismesso, per la raffinazione degli idrocarburi. Lì sorgeva una cittadina anonima, fatta di squadrate costruzioni in cemento. Tra queste lampeggiava l'insegna al neon di un piccolo supermercato. Shin diede ai colleghi le indicazioni per la spesa (doveva ammettere che non era semplicissimo convivere con persone ghiotte di pesce), poi si allontanò con la scusa di dover fare una telefonata. Inizialmente la telefonata voleva farla davvero, perché aveva una gran voglia di sentire Shū e scherzare con lui. Poi si era reso conto che non sarebbe stato capace di mentire sulle sue redivive paure. Così aveva finito per incamminarsi da solo lungo la riva tinta dal crepuscolo autunnale. Sapeva che il suo malessere non aveva un'origine fisica né psicologica ma era legato a Suiko, la sua armatura, che per qualche motivo si stava risvegliando.
Saprei affrontare un combattimento ora?” si chiese fissando i palmi delle mani. “È una domanda che non dovrei nemmeno pormi,” si rispose stringendo i pugni.
Anche se non riusciva ad accettare completamente il destino di Samurai Trooper, si era ripromesso che mai e poi mai avrebbe agito da vigliacco. Se si fosse rifiutato di affrontare un combattimento a lui destinato, la responsabilità sarebbe caduta su Ryō oppure Shū, Tōma o Seiji: loro non avrebbero sofferto né più né meno e Shin, di riflesso, sarebbe sprofondato nella vergogna.
Si guardò intorno, poi percorse il molo dov'erano attraccate alcune imbarcazioni per la pesca, piccole e fragili in confronto al mare che diveniva inesorabilmente più scuro. Il molo stesso era inclinato, come se il fondale ne avesse eroso le basi per prepararsi ad inghiottirlo. Shin lo percorse e, giunto alla sua estremità, alzò lo sguardo. “Dimmi che cosa vuoi, Suiko,” ordinò all'acqua prima di tuffarsi tra le onde.
Immergersi di notte, al di fuori della stagione estiva e senza muta, non era una cosa insolita per Shin, che in ogni condizione riusciva ad apprezzare la pressione del liquido sulla pelle, il contatto con il sale, la carezza delle alghe. Nemmeno il buio costituiva un problema, perché sapeva di potersi lasciar guidare dalle correnti.
Appena giunto in acque più profonde, venne affiancato da un banco di cefali. Sorrise, rasserenato dalla loro compagnia, poi notò che le loro squame rilucevano, toccate da una luce argentea che penetrava dalla superficie. Meravigliato, alzò lo sguardo per individuarne la fonte, ma questa fu oscurata da una sagoma ovale che nuotava sopra di lui. Allora iniziò a riemergere per andare incontro a quella che doveva essere una tartaruga marina di età rispettabile. La creatura pareva aspettarlo e non obiettò quando Shin si aggrappò al carapace e si fece trascinare fino in superficie.
Trovò ad attenderlo un cielo stellato in cui si muovevano furtivi scuri strascichi di nubi, scacciati dalla presenza di una straordinaria luna piena. L'aria era fredda, come se fosse appena passata una tempesta. “Dove mi trovo?” Shin si guardò intorno nel tentativo di individuare la lanterna della baia, ma non la trovò. Vide solo una catena di piccole isole, poi gli occhi neri della tartaruga che lo stavano fissando come se stessero aspettando qualcosa. “Grazie, continuo da solo,” disse. La tartaruga tornò ad immergersi, mentre Shin si diresse verso l'isola più vicina.
La breve spiaggia terminava in una pineta. Gli aghi degli alberi erano punteggiati da minuscole e limpide gocce: troppo piccole per aggregarsi e cadere, restavano a formare un rivestimento scintillante che tremolava al soffio del vento, lo stesso che seccava l'acqua marina sulla pelle lasciando che salsedine e alghe formassero un sottile strato pungente.
Man mano che s'inoltrava tra i tronchi dei pini secolari segnati dalle intemperie, Shin sentiva lo sciabordio delle onde farsi più lieve. Tuttavia non aveva timore di perdersi. Pensò: “È come se non fossi mai uscito dal mare.
In quella quiete profonda riusciva a percepire chiaramente la voce dell'armatura. Il suo rintocco costante, stranamente gentile, lo accompagnò fino all'ingresso di un tempio che sembrava abbandonato da molto tempo. L'ingresso appariva intatto; Shin lo varcò.
Dentro ristagnava un intenso profumo d'incenso, come se il tetto non fosse mai collassato aprendo l'ampio squarcio che aveva esposto l'interno alle intemperie e alla salsedine. La luce lunare delineava le membra di una statua sparpagliate sul pavimento. Apparivano come incenerite, forse da un fulmine o forse da un atto sacrilego compiuto da pirati d'altri tempi. La testa del buddha, ancora integra, non aveva perduto l'espressione di pace e sembrava rivolgersi al visitatore con aria benevola.
Inginocchiato accanto, c'era qualcuno. Una patina nera insozzava i suoi abiti candidi, ma la persona sembrava non curarsene e continuava a pulire la statua con delicatezza, stringendo un panno con dita affusolate che terminavano con unghie lunghe. La corporatura era sottile e sembrava quella di un ragazzo adolescente. Era tuttavia impossibile per Shin distinguerne il volto chino nell'ombra. Niente di maligno emanava da quella figura, che pareva, semplicemente, fare parte di quel luogo. Shin si avvicinò e chiese: “Chi sei?”
Ebbe l'impressione che le parole si propagassero in ritardo e che fossero leggermente distorte. Così, anche quando le labbra di quella persona si mossero, la risposta arrivò lenta e fece in tempo ad assumere le sembianze di una creatura che risaliva da un abisso: “Non mi riconosci, Suiko?”
Dall'oscurità emersero due occhi inconfondibili, grandi, ma senza iridi per riflettere l'umana compassione. Ornati dal solo colore violaceo di palpebre prive di ciglia, fissavano Shin senza sentimento.
L'aspetto umano di Nāza non era diverso da come Shin lo avrebbe potuto immaginare.
Il volto era chiaro come una luna malvagia. I capelli verdastri si radunavano in ciuffi appuntiti e si aprivano su una fronte ampia, dove tra le nude arcate sopraccigliari brillava una gemma opalescente. La bocca era grande, a malapena delineata da labbra livide e sottili. Le vesti bianche che indossava non facevano altro che sottolineare il pallore spettrale della sua figura.
Shin sapeva bene che il Generale Demone del Veleno era un essere umano, eppure nemmeno ora che l'aveva davanti agli occhi riusciva a considerarlo tale: sembrava piuttosto la caricatura grottesca della statua che giaceva smembrata sul pavimento. Come se avesse seguito i suoi pensieri, Nāza inclinò la testa, scrutandolo. “Perché mi guardi così? Pensavi che fossi carino come i tuoi amichetti? Noi generali non siamo carini. Non lo siamo più da quattro secoli,” disse, soffocando una risata che pareva il sibilo di un animale notturno.
Quattro secoli. Questa è l'età di Nāza, il tempo che gli ha permesso di raggiungere la perfezione nella crudeltà.” Shin portava ancora impresse nell'animo le ferite che egli aveva inferto ai Samurai Troopers, agli abitanti di Tōkyō, al mare di Naruto. Anche se erano trascorsi alcuni anni, l'odore di morte che galleggiava sullo stretto continuava a penetrargli nelle narici attraverso gli incubi, straziandogli il cuore.
“Pensi che mi importi del tuo aspetto, dopo tutto quello che ci hai fatto?” disse con freddezza. La sua voce risuonò cupa, quasi irriconoscibile. “Basta la sua vicinanza a rendere un mostro anche me.
Nāza parve divertito, quando rispose: “Certo, perché sei un essere umano.”
“Mi chiedo come tu faccia a sapere di me.”
“Chi ha vissuto nel mondo degli yōja sa molte cose. Ma, a dire il vero, non ci vuole molto a sapere di te. Non hai difese, da te escono i pensieri così come entra liberamente il veleno.”
“Perché hai chiamato la mia armatura, se tanto mi disprezzi? Non ho chiesto io di vederti, Nāza.”
Gli occhi del generale si spalancarono, come se qualcosa l'avesse sorpreso. “Non chiamarmi con quel nome, ragazzino!” sibilò come in preda all'ira, ma subito dopo richiuse placidamente le palpebre, lasciando che dalle labbra sparisse la piega deforme del ghigno.
“Yakushi ha bisogno dell'acqua,” affermò infine con voce priva di sarcasmo.
“Yakushi?”
“La mia armatura,” spiegò Nāza mentre raccoglieva la ciotola dei medicamenti del guaritore di anime, accarezzandone l'interno. “Non posso lasciarla così,” aggiunse indicando gli altri frammenti della statua che giacevano sparpagliati intorno.
Shin scosse il capo, arretrando di un passo. Gli sembrava di assistere al delirio di un pazzo. Anche in passato, di fronte ai suoi atti crudeli, Shin aveva concluso che quell'essere non doveva mai essere stato del tutto sano di mente.
“Non posso fare altrimenti. L'armatura è il mio destino ed è mia ferma intenzione di portarlo a compimento,” insistette Nāza muovendosi a carponi verso di lui.
Shin sbatté le palpebre, perplesso, arretrando ancora. Il repentino cambiamento nei modi in cui il generale gli si rivolgeva lo rendeva, se possibile, ancora più inquietante. “Non gli è mai importato di nulla per raggiungere i suoi scopi, ma è un essere umano. Ho giurato che mai più avrei usato le armi contro un uomo. Che cosa devo fare, Kaosu?
Richiamati da quei pensieri, i rintocchi della vestizione si avvicinarono. Nāza si bloccò, come meravigliato. “È questa dunque la nuova voce della tua armatura?” S'inginocchiò, raggomitolandosi.
“Vattene, non ho intenzione di combattere con te!” esclamò Shin in preda alla disperazione quando, con un movimento fulmineo, Nāza gli afferrò la caviglia. Quando le unghie gli solcarono la pelle urlò: “Lasciami stare!”
“No, Suiko. Yakushi è più importante dei tuoi capricci.”
Ma quelle parole Shin le sentì a malapena. Il cuore aveva iniziato a pulsare lentamente e una violenta sensazione di freddo stava attanagliando il suo corpo a partire dagli arti.
“Devi perdonarmi, Suiko, ma non conosco altro modo per spiegarmi. Sopporta il dolore, io non ti lascerò. Nessuno muore tra le mie braccia. Almeno in questo, sono il migliore.”
Il torace del suo aguzzino si scosse in una nuova risata soffocata che liberò in Shin uno sciame di brividi. Gli stava salendo la febbre, lo capiva dal contrasto con la mano gelida che aveva iniziato ad accarezzargli la fronte.
“Suiko non ha niente a che fare con la te,” provò ad insistere mentre cercava di aprire le palpebre, che però non rispondevano al comando. Una violenta sensazione di nostalgia iniziò ad inondargli l'animo, poi alcune immagini iniziarono a venire a galla. Una risalì più in fretta delle altre, esplodendo come una bolla e liberando colori e sensazioni sconosciute.

Sto correndo con un secchio pieno d'acqua tra le mani, ma le spalle mi fanno male. Devo appoggiarlo sulla strada e fermarmi a respirare e sgranchire le dita. Sono guarito da poco dalla malattia, sono ancora debole. “Un miracolo,” hanno detto tutti, perché quella malattia ha ucciso molte persone e quelli che non sono morti hanno perduto la ragione.
Un venticello fresco fa frusciare le foglie rosse degli aceri, una si stacca e finisce sull'acqua. Faccio per toglierla, ma tra le increspature vedo qualcosa di strano. È il volto di un bambino che ha capelli di alghe e occhi di serpente. Mi spavento, poi ricordo che la malattia ha cambiato per sempre il mio aspetto. Non riesco proprio ad abituarmi a vedermi così. A pensarci bene, neanche queste mani che tremano ancora e sanno di erbe medicinali sembrano le mie.

Non sono io.” Shin tentò di divincolarsi come se volesse impedire ad sogno di trasformarsi in incubo. Ma ciò che stava vivendo non era un sogno. La voce di Nāza disse: “Sei nato nel diciannovesimo anno dell'era Tenbun, sotto il regno dell'imperatore Go-Nara. Il tuo nome è Naotoki Yamanouchi. Ora tu sei me, Suiko. Perdonami.”




Note

Iyo è l'antico nome della prefettura di Ehime. Nāza sta seguendo la strada del pellegrinaggio (henro) degli ottantotto templi di Shikoku . Parte di essi è dedicata a Yakushi Nyorai, il buddha guaritore delle anime.
Yakushi non è l'armatura del veleno, bensì della medicina. È stato Arago, stravolgendo la stessa personalità di Naotoki, a far sì che uccidesse anziché guarire (il confine tra “veleno” e “medicina” è piuttosto labile, dopotutto).
Mi sa che dopo questo trauma Naotoki resterà sempre un po' schizzato, ma almeno l'armatura si può recuperare, che ne dite? Io ci provo con l'aiuto di Shin!
Ringrazio per la fiducia accordata chi deciderà di proseguire con la lettura ^_^

Kourin

 
  
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