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Autore: NightmareInsomnia    29/03/2014    13 recensioni
Rainbow Sky Storm, terzo piano, appartamento tredici.
L’ossessione del suicidio è caratteristica di colui che non può né vivere né morire, e che non distoglie mai l’attenzione da questa duplice impossibilità.
Emil Cioran. Il funesto demiurgo.
Niall James Horan, quarto piano, appartamento diciotto.
A che cosa faccia appello la musica in noi è difficile sapere; è certo però che tocca una zona così profonda che la follia stessa non riesce a penetrarvi.
Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973
C'è chi sente le voci e chi le note.
C'è chi grida e chi canta.
C'è chi vede le ombre e chi l'armonia.
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=w0yCxUWXHrA
 
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Blood.
 

 

Rainbow Sky Storm, terzo piano, appartamento tredici.
 
Rain ha uno strano rapporto col sangue.
Ricorda vagamente quando da piccola aveva il terrore per quel liquido rosso scuro e quasi si sentiva mancare le forze alla sola vista.
Ora Rain non ne ha più paura.
Non ha più paura quando la scia calda le scorre lungo il braccio, tracciando una linea irregolare che finisce per circondarlo, proprio come farebbe un prezioso braccialetto di rubini.
Non sviene quando vede le gocce cadere sul pavimento, in piastrelle bianche, del bagno. Lei ride, con tutte le forze che ha in corpo.
I suoi pensieri girano vorticosamente nella sua testa e nel suo breve momento di lucidità si chiede perché non si sia ancora puntata il coltello al petto invece che divertirsi sfiorando appena, con l’affilata lama, la pelle diafana.
L’arma cade quando le risate si fanno troppo forti, quando le immagini in bianco e nero nella sua testa girano decisamente troppo velocemente, quando la vista si fa appannata, quando il petto inizia a dolerle, quando il respiro si fa affannoso, quando le palpitazioni diventano percettibili e quando sul suo viso l’aria divertita viene completamente spazzata via da una di panico.
Come sempre crolla a terra. La mano destra sul cuore, quella sinistra appoggiata alla gelida piastrella macchiata di sangue. Un brivido di freddo le percorre la schiena facendola contorcere sotto il suo tocco leggero e delicato.
Sente di non farcela più. Sta per morire.
L’intero corpo è rannicchiato e scosso dai tremori.
Sta soffocando. Ne è sicura.
Due anni fa un ragazzo ha cercato di ucciderla premendole un cuscino sulla faccia lasciandola totalmente senza aria.
Non ricorda quasi niente di lui. Aveva i capelli scuri e un nome che assomigliava a Tony, o forse era Toby.
Sa soltanto di averlo conosciuto a scuola ma non di non averci mai parlato molto e dopo una festa di essere andata a casa sua. Niente di più. Le immagini nella sua testa non sono mai state chiare su quell’avvenimento.
La sensazione è però simile. Come sempre.
 
Non sa per certo quanto tempo sia passato, crede circa otto miseri minuti, ma si rende conto che a lei è sembrato interminabile.
Si sdraia con alcune ciocche dei suoi capelli scuri in bocca e altre sparse, annodate e disordinate, sulle spalle, lasciando che il suo respiro si regoli.
 
Sua madre le ha sempre ricordato quanto da piccola fosse disordinata, cosa che è tuttora. Ha semplicemente acquisito l’abitudine di pulire il sangue.
Come sempre è inginocchiata nel bagno con il disinfettante e lo straccio a pulire ogni singola gocciolina ormai secca.
Si alza tenendo stretta l’impugnatura del coltello da cucina per poi chiuderlo nel cassetto insieme alle posate.
 
Controlla velocemente l’orario e si accorge che la sua giornata è finita ormai da tempo visto che dovrebbe essere a letto per le nove, ma infondo, non lo è mai.
Si alza dal parquet liscio del corridoio sentendo l’intero corpo debole. Le ossa le fanno male, forse per la posizione scomoda in cui è stata per delle ore intere fissando la crepa della parete davanti ai suoi occhi.
Apre la porta bianca a destra ed entra nella stanza, la sua preferita.
Le mura sono dello stesso colore del sangue che le scorre nelle vene blu che può vedere attraverso la pelle magra del suo polso, il pavimento sporco di tempera nera e lo spazio occupato da tele, fogli, cavalletti.
Si inginocchia al centro iniziando a canticchiare una canzoncina. Forse solo inventata al momento, forse conosciuta da anni.
Gli occhi scorrono sul manico in legno chiaro del grande pennello, immerso nella tempera nera contenuta nel barattolo di latta, sporco di ogni tonalità di colori.
Lo afferra nella mano tremante e traccia una linea sul suo braccio nudo, mentre un brivido di freddo le percorre l’intera schiena, arrivando fino alla testa che piega di scatto all’indietro.
Si sente abbastanza soddisfatta da quel colore.
Il nero rappresenta una metà di lei. Il nero sono le sue preoccupazioni che troppo spesso le attanagliano il cuore, la sua malinconia infinita, le sue fobie ossessive che caratterizzano le sue azioni e i suoi, ormai poco lucidi, pensieri. Il nero è il colore delle voci e delle ombre.
Però lei non è del tutto nera. Lei ha bisogno di altro per finire la sua opera d’arte.
In realtà sa benissimo di star sbagliando a definire il nero un colore. Il nero non contiene alcun colore. Come la sua metà non contiene più niente di lei. Non la lei di adesso. Non questa, distrutta dalla follia, dalla droga, dai farmaci, dalla vita. La Rain che è stata. La Rainbow di un tempo.
Ormai neanche il suo nome vero, datogli dalla madre amante della pace, della natura e delle persone, è più adatto a lei.
Rain ha comunque bisogno di altro, e cosa c’è meglio del bianco?
Neanche il bianco è un colore ma li contiene. Tutti quanti.
Non può certamente dire che metà di lei è come il bianco, ma infondo contiene ancora delle leggere sfumature dei colori che una volta componevano l’immenso arcobaleno che la sua persona è stata.
Prende in mano l’altro pennello passando sull’altro braccio. Quello su cui poche ore prima aveva sfogato il suo nuovo essere.
La pelle già chiara assume un pallore maggiore, forte, intenso, candido come la neve. Ma il suo bianco non è come quello che scende in piccoli fiocchi nella fredda e rigida stagione invernale. È sporco. Sporco dalla sua pazzia, dalla sua risata insana, dai suoi strani momenti di piacere, dalla sua irrefrenabile voglia di sporcare quel soffice biancore da una scia liquida del colore che più la rappresenta. Perché quando il bianco incontra il nero, l’unica possibilità è la guerra. La guerra vera e propria, quella che commette stragi impensabili, quella capace di portare solo dolore e sofferenza e inutili spargimenti di sangue. Il suo sangue.
Ora è per metà nera e per metà bianca. Non c’è bisogno di colorare la parte del suo cuore di rosso. È come sottinteso, scritto all’interno di lei, e così dannatamente allettante.
Il suo sangue è allettante. Appetitoso per i demoni che le stanno divorando l’anima.
I suoi piedi traballano incerti sul pavimento, muovendosi come in una dolce danza. Non importa della mancanza di sincronizzazione, della stanchezza che quel gesto trasmette. Non importa del diavolo in persona che sta tirando le corde del suo burattino preferito a suo piacimento. Lei è ugualmente aggraziata. Come una piccola farfalla dai mille colori che dopo essere passata da fiore in fiore, è pronta per spiccare il volo con le sue fragili ali, temeraria, pronta ad affrontare le avventure che solo un cielo azzurro e limpido può donare a uno degli insetti più belli che esistano.
Peccato che i colori che porta sulla pelle la rendano ancora più scheletrica e mostruosa e le ali, forse troppo fragili per poter affrontare il grande volo che sarebbe la sua vita, sono scomparse. Forse si sono semplicemente nascoste convinte di non essere ancora pronte. O forse no. Forse sono andate distrutte. Ridotte in ceneri gettate sulla defunta lei. La bellissima lei del passato.
Fatto sta che Rain non sta affatto volando. È crollata, per terra, sdraiata su una tela sporca dai più disparati colori.
Canta. Canta sussurrando una vecchia melodia di cui è impossibile riconoscere le parole. Deve essere una di quelle canzoni che la madre, quando era piccola, le intonava all’orecchio se faceva fatica ad addormentarsi. E come sempre fa effetto, perché sì, le palpebre di Rain si abbassano fino a chiudersi completamente, con la bocca ancora socchiusa. Il sonno ha finalmente deciso di prendersela con sé, avvolgendo il suo minuto corpo in una coperta leggera, filata con la stessa sostanza dei sogni più dolci e degli incubi più oscuri.
 
La donna più bella del mondo è lì, di fronte a lei.
Avrà sulla quarantina d’anni ma il viso ancora giovane e dolce e le poche rughe le danno più che altro un’aria saggia e matura.
È seduta su una vecchia poltrona rosa, il vestito nero spiegazzato, le mani in grembo e il sorriso a renderla ancora più unica, più speciale.
La giovane sa bene cosa non deve fare ma lei non può non cadere in tentazione.
Rain ha sempre amato gli occhi di sua madre, di un azzurro così diverso dal colore dei suoi. Così limpidi, sinceri, bonari, veri. Perché quegli occhi non sono due semplici occhi. Sono distese di mare immerse nel più bello degli incantesimi.
E la ragazza è fin troppo attratta da quell’incantesimo.
Non può farcela. È troppo debole.
Punta le sue iridi in quelle della donna tanto amata e allora sa che non sopravvivrà nemmeno a questo.
«È solo colpa tua.»
Infondo è una semplice frase, corta e sintetica, quella che è uscita dalle labbra piene e rosee di quella che sembra essere la statua rappresentante afrodite.
Una semplice frase che la trafigge come la più appuntita e affilata delle lame. E lo sente questa volta il dolore. La sente la pelle aprirsi facendo fuoriuscire quello che durante tutta la giornata è rimasto dentro di lei.
Ombre nere, fatte di ceneri scure, che volano nella stanza senza una meta, semplicemente girando in cerchio con l’unico scopo di oscurare la luce proveniente dalla lampada da comodino di quella che sembra una stanza da letto.
Figure conosciute, uccise e bruciate da lei stessa, tornate per perseguitarla fino alla sua morte e forse anche oltre. Uccise e dimenticate, perché no, lei non ha la minima idea di chi siano. O forse ciò che rimane della vecchia lei lo sa ma è troppo debole per far venir fuori i suoi pensieri.
Rain cade, come sempre. Distrutta dalle sue parole, dai suoi gesti, dal suo passato. Sente la sofferenza squarciarle a metà il povero cuore ormai distrutto, ormai bisognoso di amore. Amore che la mora ha già provato sulla sua pelle e dentro la sua anima. Un amore che lei stessa ha distrutto sugli ordini dei suoi demoni.
Vuole morire. Si chiede come sia possibile essere sopravvissuta a così tanto. Non è umanamente possibile. Si chiede se forse dovrebbe essere lei stessa a strapparsi la vita, tutta di un colpo, come si farebbe con un cerotto.
O forse Rain vuole soffrire. Lei non ricorda perché ora è così. Sa soltanto che ogni notte la madre le ricorda che è tutta colpa sua. Questo basta. Basta per imporre a se stessa di rimanere, per pagarla. Perché no, lei non si capacita di aver fatto qualcosa a quella bellissima donna e pensa davvero di meritare tutto questo.
Un urlo squarcia l’aria. Quell’urlo è suo. Si copre le orecchie, tremante, rannicchiata sul pavimento in legno, rigato dai mobili spostati e dalle scarpe coi tacchi, mentre oscilla avanti e indietro, come per cullarsi. Ma non le sente le braccia della madre che la avvolgono, né la sua voce rassicurante che canticchia la solita ninna nanna al suo orecchio, dolcemente, come se la sua bambina fosse una delicata bambola di porcellana, non un mostro.
Rain sente solo l’eco del suo urlo perforarle ugualmente i timpani.
La donna si alza, lentamente, soave, per poi camminare a piccoli e leggeri passi verso di lei, scalza su quella superficie così fredda e poco rassicurante.
Rain è sorpresa, in nessun incubo l’aveva mai fatto. Si chiede se forse si stia per trasformare in un dolce sogno, ma si sbaglia.
La madre si inginocchia ai suoi piedi. Le prende le mani e le sposta dalle sue orecchie fino ad avvicinare la bocca rossa per sussurrarle qualcosa, come quando era piccola.
La mora non può far a meno di rabbrividire al contatto con la sua pelle ma cerca di non farci caso, concentrandosi sulle parole che sta per dire.
«Ti meriti tutto questo.»
Le parole spietate venute dalla stessa persona che una volta aveva solo frasi dolci per lei, sono la goccia che fanno traboccare il vaso.
Tutto ciò che prima è riuscita distinguere come una delle camere della sua vecchia casa, nonostante l’oscurità, sparisce nel nulla lasciando spazio solo all’oscurità.
Rain si sente risucchiata, come se fosse al centro di un buco nero, verso il basso e si lascia trasportare mentre con tutto il fiato che ha in gola urla. Il dolore alla testa la sta annientando e le lacrime cadono dagli occhi chiusi senza volersi fermare.
Sta pregando che tutto finisca. E con tutto intende la sua vita.
 
Svegliarsi per lei non è stato mai così rassicurante. Ora si sente al sicuro fra quelle quattro mura vuote dall’affetto e dall’amore che qualunque casa dovrebbe avere.
Appoggia le mani dietro alla schiena buttando indietro la testa facendo uscire tutti i suoi pensieri. Si sente bene in questi momenti. Quelli in cui ha la mente completamente libera. Nessuna ombra, nessuna voce, nessun demone, nessun ricordo.
Quando è pronta per affrontare un’altra giornata con se stessa si alza camminando con i piedi nudi sulle macchie di colore e si dirige in bagno con l’intento di grattarsi il colore secco dalla pelle.
Riempie la vasca con l’acqua gelata per poi immergersi dentro.
Le si accappona la pelle ma le piace quella sensazione. Le piace il gelo a contatto con la cute. Ormai le è rimasto solo quello e il caldo le ricorda troppo la presa materna.
Non ha idea delle ore che passa lì dentro. Il tempo è scandito solo dai tasti di un pianoforte il cui suono arriva ovattato alle sue orecchie. Conosce le dita che lo stanno suonando. Appartengono al musicista.
Rain non l’ha mai visto di persona ma conosce la sua musica. Sembra non poterne fare a meno. Proprio come lei non può fare a meno del suo sangue.
Decide di essere stata a mollo abbastanza e, prendendo una spugna gialla, inizia a grattare via il colore dalle sue braccia e dalle punte dei capelli.
Quando ha finito, si immerge completamente chiudendo gli occhi.
Ora Rain sta annegando.
Rain però non sta annegando nell’acqua. Sta annegando nei pensieri che sembrano essere tornati tutti insieme, pronti per distruggerla l’ennesima volta.
 
«Quindi vuoi suicidarti?»
Rain sta giocando con delle biglie che una volta dovevano essere trasparenti ma che ora sono sporche di vernice.
Non può fare a meno che annuire distrattamente alla domanda di Lucy, mentre è in realtà occupata a far roteare le piccole biglie sul pavimento sporco, inginocchiata sulle ginocchia con il tessuto dei jeans scuri che le graffia le gambe.
«Non puoi.» afferma tranquillamente la bionda buttando il busto, prima piegato per avvicinarsi alla mora, indietro mentre un ampio sorriso le solca le labbra.
La giovane si blocca, facendo cadere le biglie e alzando la testa di scatto verso l’altra.
Si è finalmente decisa di farla finita una volta per tutte, perché non può farlo?
«Non puoi.» ribadisce severa Lucy notando lo sguardo di Rain.
Non c’è un perché. L’ossessione di Rain per il suicidio deve rimanere tale, non diventare realtà.
Ma che può fare una povera anima in pena a cui non è concesso né vivere né morire?
Solo lasciare che tutte le passa addosso senza poter alzare un dito.
Lucy sparisce nel nulla, come tutti i suoi amici, lasciandole solo una lista di domande in testa.
Vuole divertirsi e sa perfettamente come farlo.
 
Questa volta non pulisce il sangue. Vuole rimanga lì come la testimonianza della sua presenza, della sua sofferenza nel vivere.
Čajkovskij si fa largo nelle orecchie e non può fare a meno che collegarlo all’abitante dell’appartamento diciotto.
È incuriosita dal musicista.
Si chiede se suoni per professione o per diletto, se è giovane oppure anziano, se è felice o triste quanto lei.
 
«Saresti veramente carina se ti curassi di più.»
Rain è abbastanza sicura di non sentire le dita grassocce di Todd mentre le accarezza i capelli. Solo dei brividi.
Alla giovane non interessa farsi bella. Non si è mai preoccupata di pettinarsi i capelli, di truccare gli occhi, di smaltare le unghie, di abbinare i vestiti. È già tanto se si ricorda di curare il minimo della sua igiene personale.
«Nessuno mi vede.» si limita a dire.
«Invece sì. Fra poco tu sarai lì fuori, tutta sola contro l’intero mondo.» gli sussurra all’orecchio ridacchiando il rosso.
«Loro non mi vedranno lo stesso. Loro non mi conoscono. Loro potranno vedere soltanto una figura camminare per la città. Non potranno mai vedere me.»
La mora si alza dal pavimento aiutandosi con le braccia, mentre gli occhi sono ancora puntati nel vuoto e la testa assorta nei suoi pensieri disconnessi.
 
Il sorriso fin troppo ampio di Molly la accoglie appena varcata la soglia del piccolo e quasi claustrofobico locale come ormai da rito da un anno.
«Cosa prendi, dolcezza?» le chiede con la voce troppo acuta provocandole una fitta alla testa.
Rain alza lo sguardo accigliato squadrando la cameriera che l’ha presa in simpatia, nonostante il sentimento non sia certamente ricambiato.
I capelli tinti di biondo svolazzano sulle sue spalle quando inclina la testa facendo schioccare le labbra ricoperte da un bel lucidalabbra color pesca, mentre sembra che con il tacco delle sue lucide scarpe rosa tenga il tempo.
«Il mio solito cappuccino, grazie.» lo dice quasi con un tono aspro, snob.
Quel grazie sembra veramente ironico, anche se la sua coetanea certamente non coglie quell’espressione che vuole sottolineare la superiorità della ragazza che siede proprio davanti a lei.
Superiorità di cui lei non si accorge. Lei che nonostante segue la moda ed è sempre truccata come una modella non è la classica ragazza oca e senza cervello.
Forse è solo un po’ stupida e poco matura, tutto qui.
Certamente non è cattiva e quella ragazza che la tratta spesso male e non la considera nemmeno, è la persona che più si avvicina alla definizione di “amica” che ha.
 
Le borse della spesa le pesano e i manici in plastica tagliano la pelle dei palmi della sua mano.
Uno, due, tre…
Rain sa che per arrivare a casa sua deve fare esattamente settantadue scalini. Scalini in metallo sporco, ormai chiazzati di ruggine, con i sassolini incastrati fra i fori.
Non le sono mai piaciute quelle scale. Sembrano così instabili, quasi quanto lei.
Non ce la fa più, la schiena le duole troppo e le mani sono completamente arrossate e spellate.
Appoggia con poca grazia le borse e alza lo sguardo verso l’alto, fin quando non li vede.
I due occhi celesti di quello che immagina sia il musicista che abita proprio sopra di lei la stanno fissando e lei si sente a disagio, come se con quello sguardo, un perfetto sconosciuto, sia riuscito a vedere la sua anima.

 




Welcome...
Ho sempre perso un mucchio di parole in questo spazio raccontando per filo e per segno ciò che succede nella storia ma, se siete arrivati fin qua, lo trovo un po' inutile visto che avete già avuto il modo di leggere.
Quindi la farò breve.
Ho deciso di pubblicare questo capitolo nonostante le mie perplessità e vi sarei veramente grata se poteste darmi il vostro parere. I crediti per il banner fantastico vanno tutti a Danila_s. Nel caso non ci fosse il collegamento scusatemi, lo inserisco al prossimo capitolo.
Detto questo, se volete contattarmi:

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Grazie per l'attenzione e, almeno spero, a presto.
   
 
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