“Vengo
anche io!” mormorò decisa April quando le
spiegarono cosa
avrebbero fatto.
“Ma
quello che potremmo vedere non è...”
iniziò a dire Don, certo che
i ricordi di Isabel non dovessero essere visti da nessuno, in
realtà.
Aveva il presentimento che ci fosse un baratro di orrore nella sua
mente.
“Mi
sta a
cuore quanto a voi. Vengo anche io!”
Il ninja sospirò,
arrendendosi alla grinta della donna che sapeva non avrebbe desistito
per nulla al mondo, una volta deciso.
“Poggiate
una mano sulle sue braccia, basta un contatto minimo” disse
Splinter, invitandoli a sedersi attorno al letto.
“Dopo
chiudete gli occhi, respirate a fondo e cancellate ogni cosa dalla
vostra mente. La sua coscienza vi richiamerà.”
Tutti
obbedirono, poggiando la mano sulle spalle o gli avambracci di
Isabel; con profondi respiri eliminarono ogni pensiero superfluo,
cadendo in meditazione.
Raph
non ci riusciva: era troppo arrabbiato. Quando chiudeva gli occhi
continuava a vedere il loro scontro, il modo in cui l'aveva
attaccata, senza pietà, e poi il suo viso riverso, ricoperta
di
sangue, subito dopo averlo salvato.
Perché non l'aveva ascoltata?
Perché il suo maledetto orgoglio aveva prevalso su tutto il
resto?
Sulla gioia di saperla ancora viva, di rivederla?
Spalancò
gli occhi, ben conscio di doversi concentrare, invece; i suoi
fratelli, April e Splinter dovevano già essere nella sua
mente,
magari si erano accorti della sua assenza. Scostò le dita
lungo
l'avambraccio di Isabel, passando dalla pelle morbida e liscia,
-seppure ferita in molti punti,- alla garza ruvida e graffiante, fino
ad arrivare alla sua mano, abbandonata sul lenzuolo.
Seguì con un
dito le linee nel palmo, svoltando ogni volta che si intersecavano,
percorrendola decine di volte, sovrappensiero; all'improvviso le dita
di Isabel tremolarono impercettibilmente, niente più di una
lieve
scossa, ma che lo incoraggiò: strinse la sua mano, chiuse
gli occhi
e respirò a fondo, concentrandosi solo sul calore che gli
trasmetteva, dimenticando tutto il resto.
Si
sentì trascinare lontano, senza peso o pensieri, rilassato
da una
sensazione familiare, di benessere, come se Isabel lo stesse davvero
guidando per mano fino alla sua mente.
Si ritrovò con gli altri
in un posto completamente vuoto. Pieno di grigiore soffuso, sopra,
sotto, anche se non erano sicuri di dove fosse per certo il sopra o
il sotto.
“Siamo
nella sua mente, sensei? Non c'è niente”
constatò Michelangelo,
con innocenza. Raphael lo colpì alla nuca, per la sua uscita
infelice.
“È
rinchiusa in un ricordo e ha lasciato tutto il resto in sospeso.
Siamo noi a dover immaginare come vogliamo vedere le sue
memorie”
spiegò il maestro, pensieroso, alla ricerca di un metodo.
“Con
le classiche porte come si vede nei cartoni animati?”
suggerì il
ninja, prima che qualcuno potesse impedirglielo.
Una
fila infinita di porte apparve dal nulla, dapprima incorporee ed
evanescenti, poi via via più solide, fino ad essere
materialmente
lì, tutte alla stessa distanza l'una dall'altra, tutte
dipinte con
motivi o colori diversi.
“Avrei
potuto pensare a qualcosa di più pratico”
sospirò Splinter,
rassegnato, iniziando ad incamminarsi.
“Dato
che non usi la tua, facci un favore, Mikey, non parlare nella mente
degli altri!” sbottò Raph, seguendo il resto della
comitiva.
Camminarono,
superando porte su porte, tante da non riuscire a vederne la fine.
Stavano sospese a mezz'aria, qualche centimetro al di sopra di
ciò
che loro toccavano con i piedi, per lo meno, sempre più
sfocate e
piccole via via che lo sguardo si allontanava verso
l'orizzonte.
“Ehy,
guardate questa” disse Mikey d'un tratto, con la mano sulla
maniglia di una porta rossa solcata da squarci profondi.
Era
diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta, che erano
più
colorate e piene di decori infantili ed era diversa da quelle
successive, improvvisamente buie e cupe.
“No!
Non aprirla!” urlò April allarmata, provando a
bloccarlo; persino
lei riusciva a sentire che non era un buona idea, ma il ninja aveva
già abbassato la maniglia, ormai, e la porta si
spalancò
praticamente da sola.
Una
stanza si materializzò attorno a loro, un salottino intimo,
completamente devastato: i mobili erano stati ribaltati, il loro
contenuto sparso ovunque sul pavimento, alla rinfusa; i quadri
giacevano per terra tra schegge di vetro e di legno, grottescamente
riversi, sottosopra, obliqui; i muri giallini erano sporchi di
macchie rosse e segni di bruciature e l'aria era piena di fumo.
Da
qualche parte arrivavano rumori di lotta, scontri e scoppi, e due
voci di uomini, che urlavano.
Una
donna si trascinava sofferente sul pavimento, ricoperta di sangue,
con fatica, mormorando qualcosa che non riuscirono a sentire: ne
furono mossi a pietà, tanto che sentirono l'impulso ad
aiutarla,
prima di ricordare che fosse solo un ricordo.
Era impressionante
la somiglianza che Isabel aveva con la donna, quasi come se fossero
state sorelle: gli stessi occhi castani e profondi, la stessa bocca,
perfino le stesse espressioni. Non era difficile capire chi fosse.
Una
bambina terrorizzata apparve da dietro al tavolo rovesciato,
avvicinandosi a lei, con gli occhi scuri colmi di paura, gettandosi a
controllare come stesse.
Un tonfo, un boato e una risata
arrivarono da un'altra stanza, seguiti da un urlo di un uomo, ma
disumano, agghiacciante.
La donna parlò con tono accorato,
stringendo la piccola tra le braccia, ma lei si dimenò,
scrollando
la testa, negando con tutte le sue forze.
“Che
cosa... cosa dicono?” domandò Mikey, concentrato
sulle due figure
terrorizzate.
“È
italiano. La madre di Isabel era italiana. I suoi ricordi, i suoi
pensieri... sono tutti in quella lingua” rivelò
Raphael,
ricordando quel particolare, di una chiacchiera di una serata
lontana, quando ancora lei era solo la sua allieva e non la donna che
gli aveva stravolto l'esistenza.
“E
come possiamo capire quello che si dicono, allora?”
“Dobbiamo
solo desiderare intensamente di capirlo. La mente di Isabel
farà il
resto” spiegò tranquillamente Splinter,
già assorto in
meditazione.
Ognuno di loro si concentrò, seguendo l'esempio del
maestro, poi la loro attenzione ritornò sul salottino in
disastro e
le due figure abbracciate e spaventate, con urgenza.
“Va'
via. Scappa!” sussurrò la donna, provando ad
alzarsi.
La
bambina scosse ancora la testa, mentre il labbro tremava di paura;
aveva il viso inondato di lacrime silenziose e le manine tremavano
sul maglione azzurro chiazzato di sangue della madre.
“Devi
andare via! Non puoi rimanere qui!”
La risata di poco prima si
fece più forte e sguaiata, seguita da un rumore di passi
sempre più
vicini.
Con
uno strillo allarmato, la donna passò la tracolla di una
borsa che
aveva con sé oltre la testa della bimba, poi con uno sforzo
enorme
si alzò e, presala per un braccio, la trascinò
verso la finestra.
Spalancò le ante velocemente e la issò oltre, in
un giardino,
benché soffrisse per ogni movimento.
Tutti loro si ritrovarono di
colpo fuori dalla casa, insieme alla bambina, nel giardino di un
villino a due piani, simile a quello in cui Isabel aveva vissuto a
New York.
“Mamma!”
urlò disperata la piccola, premendosi contro il muretto,
mentre la
donna chiudeva la finestra, guardando la bambina con infinito amore,
imprimendosi il suo visino nella mente.
“Scappa,
Isabel. Vivi, tesoro mio!”
La madre sparì all'interno, mentre
la piccola si innalzava sulla punta dei piedini per guardare
all'interno e cercare di richiamare la sua attenzione, eppure senza
osare fiatare dal terrore.
D'un tratto la donna urlò, straziante,
un acuto prolungato e graffiante.
La bambina tremò sul posto,
impossibilitata a muoversi dalla paura, con gli occhioni spaventati e
vigili.
Un
altro urlo la raggiunse e uno schizzo di sangue macchiò il
vetro,
repentino e grottesco; la bimba strillò terrorizzata e si
rannicchiò
al suolo, sconvolta e piangente. Una risata gelida e divertita
esplose dalla casa, facendola tremare di paura: si alzò di
fretta e
voltandosi corse via, agitata.
La scena sfumò lentamente, i
contorni del giardino e della casa sparirono, riportandoli nella fila
delle porte, nel grigiore soffuso.
April
stava trattenendo le lacrime, ma erano tutti turbati.
Erano
inorriditi. Increduli di aver appena assistito all'omicidio dei
genitori di Isabel, increduli che lei stessa ne fosse stata
testimone.
Raphael sapeva che era stato un grosso trauma, ma non
aveva mai capito quanto; non aveva mai scavato davvero nelle paure di
Isabel, anche se ne aveva avuto l'occasione. Perché si era
lasciato
ingannare dai suoi continui sorrisi, senza capire quanto dolore
cercassero di nascondere?
Un
singulto spezzò il silenzio. Si guardarono l'un l'altro, per
capire
chi stesse piangendo, ma non era nessuno di loro.
Un altro
singhiozzo riecheggiò, debolmente. Dovettero tendere le
orecchie al
massimo, per capire da dove provenisse.
Don
camminò fino alla porta rossa e sporse la testa dietro. Lo
videro
fare un cenno con la mano, per richiamarli. Dietro la porta,
rannicchiata con la testa tra le ginocchia, c'era la piccola Isabel
di qualche istante prima, che piangeva, impercettibilmente.
Si
avvicinarono cautamente, non sapendo esattamente cosa fosse. Una
memoria? Una manifestazione del subconscio?
“Piccola,
come stai?” sussurrò April in tono gentile, anche
se non sapeva se
potesse davvero interagire con un ricordo.
La bambina sollevò la
testa e li squadrò, spaventata, con gli occhi rossi di
pianto colmi
di terrore.
“È
tutto a posto. Siamo amici” sussurrò la donna con
voce dolce,
chinandosi per arrivare alla sua altezza. La bambina si alzò
con uno
scatto e indietreggiò, velocemente; si tormentava le mani,
cercando
una via per scappare.
Non si fidava per niente.
Raph
si inchinò, d'istinto, senza averlo nemmeno pensato. Ma
sapeva che
convincere Isabel era una cosa che solo lui poteva fare.
“Vogliamo
aiutarti. Siamo davvero tuoi amici” mormorò nella
maniera più
convincente possibile. La piccola lo occhieggiò incredula,
prima di
spostare lo sguardo intorno, come un animale braccato in cerca di
fuga.
“Se
non fossi tuo amico come potrei sapere che hai un coniglietto di nome
Muffin?” chiese, furbo, usando le cose che Isabel si lasciava
sfuggire su di sé, durante il periodo degli allenamenti. Non
aveva
dimenticato nemmeno una delle cose che lei gli aveva detto, erano
tutte incise nella sua mente e nel suo cuore, dopo tutto quel tempo,
nonostante tutto quello che era successo.
La bambina si sorprese e
spalancò gli occhi, fissandoli infine su di lui, attenta.
“E che la domenica ti piace guardare la TV, prima di fare colazione? E so che hai costruito una casetta per gli uccelli con le mollette da bucato, da mettere in giardino, ma si è staccata e si è rotta. E tu ci sei rimasta male, ma eri contenta che nessun uccellino ci fosse entrato o si sarebbe ferito.”
La
piccola Isabel ascoltò con crescente meraviglia, mentre si
dondolava
da un piede all'altro, indecisa se fidarsi. Stava tormentando la
manica della maglia, torcendola per la paura e il dubbio.
“E
so che da grande vuoi un negozio tutto tuo, dove vendere
fiori”
rivelò alla fine Raph, con un sorrisetto tenero, per quella
confessione che lei gli aveva fatto una sera, sul suo sogno nascosto
di quando era bambina: un negozio di fiori, quasi fiabesco, dove
creare composizioni e bouquet.
Allora aveva pensato che fosse una
cosa così tenera e femminile, ma non gliel'aveva detto,
troppo
imbarazzato da ciò che stava iniziando a provare per lei.
Isabel
trattenne il fiato, sorpresa, poi si avvicinò, lentamente.
“Non
ho mai detto a nessuno che voglio un negozio di fiori” disse
col
broncio, a pochi passi da lui.
“A
me lo hai detto. Perché siamo amici” rispose lui,
tendendole la
mano, sicuro di averla convinta. La bambina scattò in
avanti, ma
invece che stringerla, si gettò tra le sue braccia,
circondandogli
il collo.
“Il
mio
papà e la mia mamma... aiutali. È
tutta colpa mia” singhiozzò sulla sua spalla,
tremolando.
“Non
è colpa tua. Non lo è affatto.”
La
strinse, delicatamente, la versione in piccolo della donna che
conosceva, che aveva amato... che amava ancora? Non lo sapeva, ma
sapeva che non voleva che soffrisse in quel modo. Le carezzò
la
testa, straziato dal suo dolore.
“Sensei,
adesso che l'abbiamo trovata, possiamo uscire?” chiese,
desiderando
solo di andare via da tutti quei ricordi orribili.
“No,
figliolo. Dobbiamo cercare Miss Isabel nella sua forma adulta,
così
com'è ora. E scoprire chi l'ha torturata, purtroppo, e cosa
vuole da
te.”
Raphael
riuscì a convincere la piccola Isabel a seguirli nella loro
ricerca
nella memoria.
La bambina si era asciugata le lacrime con la
manica della maglia e poi gli aveva preso una mano, attaccandoglisi
addosso; tutti gli altri non li aveva nemmeno considerati, si fidava
solo di lui.
Trotterellava al suo fianco, tenendolo per mano,
silenziosa e guardinga.
“LadyKiller”
gli mormorò all'orecchio Mikey, scansando poi il suo pugno
esasperato.
Le
porte dopo quella rossa erano molto più cupe, con tinte
scure o
opache e quasi prive di decori. Si trattennero dal toccarle;
l'esempio di quello che era successo l'avevano ancora davanti agli
occhi.
Dopo averne oltrepassato qualche migliaia, ne intravidero
due con una tinta brillante, in lontananza.
Avevano
notato un cambiamento già almeno un centinaio di porte prima
di
quelle.
La prima diversa fu una verde scuro, con il disegno di un
fulmine e gocce di pioggia; la seconda era viola acceso, con le
impronte di due mani, unite a formare un cuore sbozzato; poi ci fu
una scura, con delle foglie autunnali che cadevano su delle pozze
d'acqua e l'ultima aveva l'immagine di una luna e dell'ombra di un
Sai: erano le porte dei momenti in cui lui e Isabel si erano
incontrati, quando aveva cercato di convincerla a farsi insegnare il
ninjitsu.
Quelle
subito dopo avevano delle tonalità gradualmente
più tenui e
delicate, ma quelle due che avevano attirato la loro attenzione erano
proprio diverse da tutte le altre.
La prima era annerita nella
parte inferiore, aveva disegni di fiamme e zampe di gatto e sembrava
emanare un intenso calore.
La porta della sera dell'incendio.
Non
aveva bisogno di aprirla per ricordare con precisione la scena del
villino divorato dal fuoco, il fumo acre e l'intenso calore, mentre
tutto spariva tra le fiamme. E Isabel che stringeva il corpo senza
vita di Shadow e le sue lacrime di dolore, lasciate cadere senza
più
controllo; poi il funerale improvvisato al gattino, prima di scoprire
che lei era ferita mortalmente.
La
porta successiva era bianca, la prima porta completamente bianca; e
anche l'unica. Era talmente brillante, in mezzo a tutta
quell'oscurità, da fare quasi male agli occhi.
In un angolo,
c'era una bandana rossa.
Non si dovette sforzare per capire quale
fosse il ricordo, eppure era sempre più confuso: se Isabel
era
scappata, perché sembrava che, nella sua mente, quella notte
fosse
importante? E perché il fatto che non ci fosse nessuna porta
come
quella, né prima né dopo, lo aveva rincuorato?
Incontrò
per caso gli occhi dei suoi fratelli, tutti puntati su di lui;
distolse lo sguardo, memore della furiosa litigata lasciata in
sospeso da quel giorno. Non che avesse più infranto le
regole, dopo:
si era mantenuto distante miglia da qualsiasi donna o essere
vagamente femminile.
Non si era più innamorato di nessun'altra,
non avrebbe potuto più innamorarsi di nessun'altra.
Oltrepassarono
anche quelle porte, rituffandosi nella fila, ancora molto lunga.
Camminarono, ancora e ancora, chiedendosi con curiosità e
paura cosa
ci fosse dietro ognuna di quelle porte, provando a capirlo dai suoi
colori e dai disegni.
Ma non potevano capirle, non sapevano cosa
quei simboli rappresentassero nella mente di Isabel.
Finalmente
arrivarono alla fine: una porta nera, completamente nera, quasi un
buco nel nulla, si parò sulla loro strada.
Stillava sangue,
copiosamente, come se piangesse.
“Deve
essere questa, spero siate tutti pronti” esclamò
Don, inorridito,
facendosi avanti per aprirla. La maniglia si abbassò con un
cigolio
cupo.
Si
trovarono in una grande sala dal pavimento in marmo e arazzi alle
pareti, ricolma di mobili pregiati e opere d'arte, la maggior parte
in penombra. Sembrava lo studio di un ricca abitazione, dallo stile
classico tipico dell'Europa antica.
Ci fu un tocco deciso alla
porta in legno pregiato e un uomo che rispose, imperioso.
La
piccola Isabel iniziò a tremare, tanto che Raph si vide
costretto a
inginocchiarsi, finendo stritolato in un abbraccio spaventato.
“Cosa
c'è?” chiese preoccupato, stringendola per provare
a
calmarla.
“Quella
voce, quell'uomo...” tremò la bambina, incapace di
dire altro,
affondando il visino nell'incavo del suo collo, tremante.
La
porta della sala si spalancò e due uomini in divisa
entrarono, con
fare marziale, con un gesto di saluto piuttosto rigido.
“È
arrivata, signore” annunciarono, guardando verso la
scrivania,
vicino a delle pesanti tende che nascondevano la luce.
“Portatela
da me” disse trionfante l'uomo, alzandosi. Girò
attorno alla
scrivania, lentamente, e si incamminò verso l'ingresso, con
le mani
conserte dietro la schiena.
Era sulla quarantina, coi capelli neri
spruzzati di grigio sulle tempie, un naso dritto, da profilo greco, e
le labbra sottili, piegate in un sorriso malvagio. Era alto e in
forma, un bell'uomo, ma l'espressione di cupidigia che mostrava lo
rendeva grottesco.
Dalla
porta arrivò un rumore sferragliante.
Un'altra guardia fece il
suo ingresso, trascinando una giovane donna, incatenata mani e piedi;
l'uomo tirava la catena con forza, mentre lei lottava per cercare di
liberarsi.
Isabel aveva di nuovo i capelli corti come quando
Raphael l'aveva incontrata la prima volta, e benché avesse
perso
peso, rimaneva comunque molto tonica e allenata.
Come era stata
catturata?
“Bene,
bene, bene! Ben ritrovata, dolce Isabel” esultò
l'uomo brizzolato,
avvicinandosi per studiarla meglio.
“Come
sei cresciuta!”
“Mi
hai fatto penare, sai? Sei stata cattiva a scappare per così
tanto
tempo. Ho quasi temuto che ce l'avresti fatta a nasconderti fino ai
tuoi ventun anni” confessò, prendendole il mento
tra le dita,
studiandola compiaciuto.
“E
guarda come ti sei fatta bella!”
Isabel
scosse la testa, allontanandosi dalla sua presa, con stizza e
disgusto.
“Nove
anni
e mezzo, che ti cerco per tutto il globo... e quando finalmente ti
trovo tu ti comporti come una cattiva gattina dispettosa?” la
ammonì lui, prendendola per il collo, stringendo con
cattiveria.
Isabel tossì, presa di sorpresa, artigliando il suo
braccio con le unghie.
“Farai
bene ad abituarti alle mie mani, perché le userò
su di te spesso,
in bene o in male!”
“Hai
usato... dei bambini... pur di catturarmi! Sei uno spregevole...
fottuto bastardo! Come hai potuto ucciderli? Non ce l'hai una
coscienza?”
Era furiosa, sul punto di piangere dalla rabbia,
tossicchiando le parole per la mancanza di aria, mentre si dimenava
con tutta la sua forza perché la lasciasse andare.
“Ti
sembro uno che possieda una cosa del genere? Mi sono preso
ciò che è
mio! Dopo anni di attesa, con ogni mezzo possibile!”
Continuò
a strattonarla, divertito dalla luce di paura che c'era nel fondo dei
suoi occhi, che mascherava con la furia che metteva nel graffiare la
sua mano.
Provò a calciarlo via, ma la guardia strattonò la
catena, riportandola al suo posto con un furioso contraccolpo che la
fece barcollare.
Poi, d'improvviso, un bagliore accecante illuminò
il collo di Isabel, proveniente dalla collana che portava al collo;
brillò a intermittenza, di rosso, e l'uomo si ritrasse,
allarmato.
“Cosa
diavolo...? Cos'è? Com'è possibile che tu possa
usare la magia? Le
manette bloccano i tuoi poteri!”
Afferrò
la pietra, dando uno strattone per strappargliela via, ma una scarica
elettrica lo allontanò, in preda al dolore.
Contemporaneamente il
bagliore scemò e il ciondolo ritornò viola,
inerme, come
prima.
Isabel sorrise, sollevata e divertita.
“Non
puoi toglierla!” esclamò trionfante.
“Cos'è?”
urlò lui, ad un centimetro dal suo viso.
Isabel era contenta del
suo panico. I suoi occhi lo scrutavano cinici e taglienti, come se
nascondessero il segreto più grande del mondo.
“Chiamate
il saggio Jervis!” ordinò, insospettito dal ghigno
soddisfatto
della ragazza. Uno degli uomini corse fuori all'istante e
tornò dopo
qualche minuto sorreggendo un anziano, canuto e mingherlino, che
osservò la scena da dietro un paio di spessi occhiali.
Sembrò
triste nel vedere la ragazza in catene, ma non disse nulla; si
limitò
ad abbassare lo sguardo, deferente.
“Mi
avete fatto chiamare, signore?” chiese con una voce stentata,
resa
debole dalla vecchiaia; si avvicinò precariamente, sempre
tenendosi
alla guardia con la quale era arrivato.
“Questa
collana! Dimmi cos'è, cosa fa!” ordinò
l'uomo, con tono urgente,
puntando verso il collo della ragazza.
Il
vecchio si accostò ad Isabel e tirò su la testa,
stendendo di poco
la schiena ingobbita; strizzò gli occhi dietro gli occhiali
dalla
montatura antiquata e studiò il ciondolo, senza
però toccarlo;
probabilmente aveva capito al primo sguardo che era più
saggio non
farlo.
Gli occhi azzurri però si accesero di interesse, sotto le
cespugliose sopracciglia bianche.
“È la pietra degli amanti, signore” iniziò a spiegare. “Fa coppia con un'altra uguale.”
“Vengono
da un'antica leggenda. Si dice che il Dio del sole e la Dea della
luna si amassero, ma non potessero mai incontrarsi, a causa del loro
ruolo nel cielo: potevano sfiorarsi solo al mattino e alla sera per
pochi istanti, quando il cielo si tingeva di rosa e viola, mescolando
i loro colori.
Nient'altro che un fugace tocco, pieno di
sentimento, ma effimero, che presto rimaneva solo un ricordo nelle
loro menti. E così, tristi e frustrati, cristallizzarono
quei
momenti speciali, segni tangibili del loro amore: una pietra per
l'alba, una per il tramonto, gemelle e unite, come una sola cosa. E
la Dea della luna tenne la pietra dell'alba, mentre il Dio del sole
quella del tramonto, per stare sempre vicini l'uno all'altra, almeno
col cuore.
Di fatto, le pietre esistono da secoli e si illuminano
quando la persona amata è in pericolo. E solo chi ha l'altra
può
toccarla o toglierla. È
un tesoro del regno, creduto perduto.”
La
voce del vecchio Jervis si interruppe, fiocamente, nel silenzio che
si era creato, sia nel ricordo che tra di loro, mentre ascoltavano
rapiti e meravigliati quella storia.
Raph si sentì
improvvisamente in soggezione, con se uno sguardo infuocato lo stesse
puntando. Alzò lo sguardo, lentamente, e incontrò
gli occhi dei
suoi fratelli, che lo osservavano in attesa.
Sbatté le palpebre,
un paio di volte.
“Sì,
ho io l'altra” ammise, imbarazzato dalle loro facce curiose,
attirando anche l'attenzione di April e del maestro. Ogni occhio era
incollato su di lui, mentre i proprietari macinavano teorie.
“Ma
non sapevo cosa fosse o cosa facesse. Né della leggenda o
che fosse
un oggetto magico. E non l'ho mai messa, è in un
cassetto.”
L'aveva
trovata tra le macerie della sua camera distrutta, mesi dopo che lei
se n'era andata, quando finalmente aveva deciso di reagire. Aveva
scorto uno scintillio, debole e fugace; aveva spostato i frammenti di
ciò che rimaneva della sua cassettiera e l'aveva vista: la
pietra
viola, che quella notte, troppo intento a leggere il biglietto di
addio, non aveva considerato. Sembrava così innocua. Ma era
una cosa
sua, perciò odiosa, malefica e dolorosa.
L'aveva stretta nel
pugno, deciso a gettarla via, a frantumarla contro la parete, ma poi
aveva riaperto la mano e guardato il modo in cui la luce si
rifrangeva sulle sue sfaccettature e non se l'era sentito. Aveva
aperto l'ultimo cassetto, quello che non apriva mai, e lo aveva
gettato dentro, richiudendo con foga, cercando di non pensarci
più.
Perché
Isabel gli aveva dato una cosa così importante?
Perché lo aveva
lasciato, dopo quello che aveva detto su quella notte, per poi dargli
un oggetto così intimo, che lo legava a lei? E
perché lei indossava
l'altra, come se volesse essere sicura che lui stesse bene?
Sentiva
la testa scoppiare, di dubbi atroci che gli attanagliavano la mente e
il cuore. Non ci capiva più nulla, si sentiva confuso.
“Perché
ha detto del regno? Che regno?” chiese Mikey, attirando
l'attenzione su di sé.
“Il
regno dei maghi” rispose la piccola Isabel, sollevando la
testa
dalla spalla di Raph.
“Tu
lo sai dov'è questo regno?” le domandò
lui, curioso.
La
piccola scosse la testa con foga, irata.
“No.
Gli altri maghi hanno costretto papà ad andarsene,
perché ha
sposato mia madre. I maghi sono orribili!”
L'urlo
di Isabel, quella grande del ricordo, li fece concentrare su
ciò che
stava accadendo. L'uomo brizzolato la teneva per i capelli,
strattonandola con furia.
“Per
il tuo bene, dimmi che non ti sei fatta l'amichetto, stupida
ragazzina!”
“Non
sono affari tuoi. O sei geloso, vecchio bavoso?” lo
canzonò lei,
con un ghigno divertito, anche se questo lo fece ancora più
arrabbiare.
La trascinò per i capelli fino alla porta, senza
pietà.
“Guardia!
Portala dal medico, che la controlli da capo a piedi. E tu, prega di
non aver fatto l'errore più stupido della tua
vita!”
Isabel
venne portata fuori, nonostante si ribellasse con un rumore
sferragliante e cupo, che si affievolì man mano.
La
scena attorno a loro sfumò, in un grigiore soffuso e
avvolgente.
“Cosa
succede?” domandò April, in ansia, dando rapide
occhiate attorno,
cercando di focalizzare qualcosa in quella bruma.
“Credo
che sia successo qualcosa che il suo subconscio non vuole che
vediamo. Sa che siamo qui, sa che stiamo guardando i suoi
ricordi”
spiegò Splinter, con calma.
Si osservarono perplessi, azzardando
teorie nelle loro menti che non ebbero mai il coraggio di dirsi.
Dopo qualche attimo la sala si riformò attorno a loro, nitida e ormai familiare, e c'era ancora l'uomo, che sedeva dietro la scrivania, in attesa. Batteva le dita con impazienza, tamburellando un ritmo sempre più veloce e inquieto, fastidioso da sentire. Stava squadrando seccato un un uomo biondo con una tunica bianca e spessi occhiali squadrati, che stava in piedi dall'altra parte della scrivania, col capo chino, teso.
Isabel
stava dietro di lui, ancora incatenata. Il suo viso era pallido, ma
manteneva lo sguardo alto e fiero di fronte a sé, duro.
L'uomo
biondo, un dottore, sembrava titubare a parlare.
“Allora?”
insisté il rapitore, battendo con impazienza un pugno sul
legno.
“Ecco,
signore... la ragazza non è... non è
più... vergine” mormorò
l'altro a disagio, confessando la verità al pavimento, dato
che non
riusciva ad alzare lo sguardo dalla paura.
Isabel chiuse per un
momento gli occhi, ingoiando la frustrazione per quel momento di
intimità, suo, sbandierato in faccia all'uomo che odiava di
più al
mondo.
Capirono
all'istante perché non aveva voluto che vedessero quella
parte del
racconto; il suo subconscio non voleva che guardassero mentre veniva
esaminata.
Raph si sentì davvero osservato; un pizzicore diffuso
nella sua testa, che rompeva la sua concentrazione. Se la sua
famiglia avesse avuto la vista a incandescenza sarebbe bruciato vivo.
E non voleva affrontare il maestro e April, perciò, per non
incontrare i loro sguardi e le loro reazioni, si astenne dal muovere
un muscolo, ansioso, imbarazzato anche lui dalla situazione.
Il
dottore venne sbattuto fuori, insieme alle guardie.
L'uomo
brizzolato si alzò con calma e si avvicinò ad
Isabel, che lo
fronteggiava con impassibilità, nonostante la situazione.
Si
fermò a due centimetri dal suo viso.
“Sei
una lurida, piccola puttanella!” le sibilò piano,
trattenendo la
rabbia in ogni parola.
“E
tu ne sai qualcosa. Tua madre era una lurida, grossa
puttanella!”
rispose lei, con un ghigno impertinente.
Raph si chiese
esterrefatto se non le avesse trasmesso un po' del suo carattere, in
un modo o in un altro.
L'uomo la colpì al viso col pugno chiuso, mandandola a sbattere contro una libreria. Cadde a terra, colpita da una cascata di libri.
La piccola Isabel affondò il viso nel collo di Raphael, terrorizzata, mentre lui cercava di calmarla, passandole una mano sulla schiena. Era tutto un ricordo, ma non poté non provare rabbia. Se fosse stato lì, se le fosse stato accanto, avrebbe accartocciato la faccia di quel bastardo che aveva osato toccarla.
L'uomo si avvicinò alla grande Isabel e la riprese per i capelli, tirandola verso l'alto.
“Lo
sai cosa hai fatto? Lo sai, puttana? Credi forse che sia solo il
matrimonio che mi permetterà di prenderti i poteri? È
quello che viene dopo, l'importante! La prima notte di nozze! E tu
hai rovinato tutto! Quel bastardo si è preso i miei diritti
su di
te!”
Era fuori di sé dalla rabbia e continuava a sbatterle la
testa contro il ripiano dello scaffale, con gli occhi fuori dalle
orbite e un sogghigno malvagio.
Isabel si lasciò sfuggire un paio
di mugugni di dolore e lui la lasciò andare, di scatto, per
paura di
ucciderla, con il respiro pesante per la foga dei colpi.
Lei
si accasciò a terra, scossa di colpo da una risata isterica.
“Sai
cosa?” riuscì a dire tra le risate.
“Io
non lo sapevo. Ma adesso, tutto questo, rende il piacere di quella
notte doppio. Sei fregato, lurido bastardo!”
L'uomo le tirò un
calcio all'addome che spense la sua risata con uno strillo di
sofferenza.
“Sai
cosa?” la canzonò inchinandosi al suo livello,
tirandola ancora su
per i capelli.
“Se
io lo uccido tutto ritornerà come prima, potrò
ancora rubarti i
poteri. Dimmi il suo nome, puttanella!”
Lei
spalancò gli occhi, atterrita; poi vennero attraversati da
una luce
di determinazione e un sorriso beffardo le piegò le labbra.
“Devi
essere davvero stupido se credi che te lo dirò!”
gli sputò in
faccia, divertita dal suo nervosismo.
La colpì un pugno, che la
fece rannicchiare su sé, scossa di nuovo da una risata
sfrenata.
“Oh,
ma me
lo dirai. E quando urlerai il suo nome, non sarà un grido di
piacere, ma di dolore!” la minacciò lui, furioso.
La
gettò in una cella, piccola, oscura, umida e maleodorante,
assicurando la sua catena al soffitto.
Poi iniziò col suo piano,
personalmente. Mostrò a Isabel ogni oggetto con cui
l'avrebbe
torturata, con calma, spiegandole cosa le avrebbe fatto, con cinica
cattiveria, provando a penetrare l'aria di indifferenza che lei si
era messa addosso.
Furono costretti a guardare le sue torture:
giorno dopo giorno, che divennero settimane e poi mesi.
Venne
ferita, frustata, bruciata, fulminata con scariche elettriche.
Raph tremava. Non poteva farne a meno. Di paura e rabbia, sotto pelle, mentre con le braccia copriva le orecchie della piccola Isabel, perché non sentisse quei rumori agghiaccianti, nascondendo il suo visino contro il suo petto, per impedirle di vedere il sangue e quell'orrore.
Ma
lui non poteva. Osservò ogni istante, ogni tortura, ogni
stilla di
sangue che usciva dal corpo di Isabel, ogni taglio e livido che la
marchiava, tormentato.
Ogni colpo spezzava anche il suo respiro.
Ogni scudisciata la poteva percepire sulla sua schiena. Ogni taglio
lacerava la sua carne. Ogni bruciatura ustionava anche la sua
pelle.
Perché ogni sofferenza che lei sopportava era per causa
sua, perché voleva proteggerlo.
Voleva urlare, con tutte le sue
forze, perché tutto quello che quel bastardo le faceva, lo
faceva
stare così male da farlo impazzire. Strinse i denti
così forte, per
impedirselo, che li sentì stridere dolorosamente.
Lei
continuava a sorridere, follemente, inghiottendo le urla che
premevano per uscire, di dolore, ma che non avrebbe mai lasciato
andare. E ad ogni suo sorriso la cattiveria e la frustrazione del suo
carceriere si facevano più pressanti, facendogli calcare
sempre più
la mano.
Ogni giorno quell'uomo si presentava alla sua cella,
massacrandola finché non sveniva a terra, ogni giorno
più
arrabbiato del primo.
“Lo
so cosa stai facendo! Manca un anno al tuo ventunesimo compleanno.
Stai cercando di perdere tempo, così che io non possa
rubarti i
poteri. Ma sappi una cosa: se anche ci riuscissi ti terrei qui, ti
torturerei finché non mi diresti quel nome, ucciderei quel
bastardo
davanti ai tuoi occhi, lentamente e dolorosamente, e poi ucciderei
te, pezzo di carne per pezzo di carne!” esclamò
fuori di sé, al
termine di un interrogatorio piuttosto cruento eppure
infruttuoso.
Isabel lo guardò dal pavimento, immobile e ricoperta
di sangue, senza dargli la soddisfazione di lamentarsi, gli occhi
lucidi e fermi. Resisteva, incurante di qualunque cosa lui le
facesse, chiusa dietro un mutismo preoccupante e una maschera da dura
che non sapevano quanto avrebbe durato.
Contarono mesi di torture, almeno quattro, inorriditi, nauseati, sconvolti, mentre Isabel diventava sempre più magra, sempre più silenziosa, sempre più ad un passo dalla morte. I suoi occhi erano diventati un baratro di follia e depressione, eppure la sua volontà non vacillò nemmeno per un secondo. Non pronunciò un fiato, non disse mai una parola, non urlò mai il suo dolore, anche se potevano leggerlo benissimo nei suoi occhi.
Sarebbe
davvero morta piuttosto che svelare il nome del suo amante.
E più
il tempo passava, più tutti loro capirono che era
esattamente quello
che lei voleva: morire. Non le importava del dolore, non le importava
di vivere.
Isabel era ormai solo un guscio vuoto e tutto ciò che
era stata, -bellezza, gioia, allegria,- si era spento. Nei suoi occhi
c'era solo rassegnazione. Nemmeno più un flebile scintillio
di
speranza.
Finché,
una sera, accadde qualcosa di nuovo.
L'uomo aveva infierito con
particolare crudeltà e Isabel rimase al suolo, a fissare con
sguardo
spento il soffitto oscuro sopra di sé. Lui uscì
dalla cella,
urlando le sue consuete minacce, ma lei sembrava non farci nemmeno
più caso. La videro voltare lentamente la testa, con fatica,
fino a
che non riuscì ad osservare la piccola finestrella, unica
fonte di
luce nella buia e umida cella.
Un
rivolo di sangue scese dal taglio aperto sul sopracciglio, percorse
il contorno dell'occhio e scese per parte della guancia, fino ad
incontrare il suolo, dopo essersi staccato dalla sua pelle, con
lentezza, a causa della sua vischiosità.
Le sue labbra tremarono
lievemente, così come le sue ciglia. Forse, Isabel era
arrivata al
suo limite. Forse era arrivato il momento in cui avrebbe confessato
ogni cosa.
Era forse a causa di quello che Raph era seguito e in
pericolo?
Isabel aveva alla fine ceduto e fatto il suo nome?
La
porta della cella scattò, catturando la sua attenzione, e
una donna
dai capelli biondi entrò, guardinga. Non sembrava molto
più grande
di lei, aveva dei meravigliosi capelli ricci e biondi e una figura
piacevolmente in carne. La stava guardando con pietà e pena.
Si
accucciò vicino ad Isabel e lei spalancò gli
occhi, sorpresa,
provando a scostarsi, per quanto le ferite e le catene le
consentissero.
La donna non si fece impressionare dalla sua
reticenza. Si riavvicinò con molta calma e le
mostrò un barattolino
che teneva tra le mani, poi, sempre con gesti lenti e delicati,
iniziò a curarle le ferite, con una pomata gialla, in
silenzio.
“Chi
sei?” domandò Isabel, alzando piano la testa. La
sua voce suonò
roca e gracchiante, dopo tutto quel tempo di silenzio forzato.
“Non
parlare. Sei molto debole” le rispose l'altra, con un marcato
accento francese, arrotondando le erre.
Isabel
ritornò immobile, sospettosa, ma la donna si
limitò a curarla,
senza tentare di farle del male. Lottò con forza contro il
sonno che
la medicina le suscitava, perché non si fidava di lei, ma
alla fine
crollò, addormentandosi sul pavimento.
La donna la portò fino
alla brandina, sollevandola con facilità a causa della
considerevole
perdita di peso, poggiandola con delicatezza. Dopo averle rimboccato
le coperte uscì, semplicemente.
Michelle,
così si chiamava, era una delle donne di servizio;
iniziò ad andare
ogni sera, quando era sicura di non essere vista, scivolando nella
cella silenziosamente. La medicava, le portava da mangiare, le faceva
compagnia, sempre di nascosto, sparendo dopo poche ore, sempre prima
che la guardia passasse a controllare.
Era diventata un'abitudine.
E se dapprima Isabel era rimasta con la guardia alta, a poco a poco
la guardarono sciogliersi e accettare le premure di Michelle.
La
donna le raccontò di essere la nipote del saggio Jervis, che
le
aveva parlato della prigioniera e della sua storia, incuriosendola e
commuovendola. Le spiegò che tutta la sua famiglia era
costretta a
lavorare per Gregor, questo era il nome dell'uomo brizzolato, il suo
torturatore, che minacciava tutti loro di morte.
Nessuno dei loro
poteri poteva nulla contro quell'uomo, che sembrava essere troppo
potente. Per quel motivo si rifiutò di aiutarla a fuggire.
“Non
posso, Isabel. Quello che ti sta facendo è orribile, ma se
ti
facessi scappare, arriverebbe a me. È
un uomo malvagio, meschino, violento e crudele, ma non possiamo fare
altro che ubbidirgli! Altrimenti ci aspetta solo la morte.”
“Avvisa
almeno il concilio! C'è un concilio, no? Fagli sapere cosa
sta
facendo! Fagli sapere che razza di maniaco sia!”
gridò arrabbiata
Isabel, per la paura negli occhi della donna, nonostante fosse lei
quella ferita e agonizzante.
Michelle
si guardò intorno atterrita, come se avesse paura che la
porta si
potesse spalancare in quel momento e una guardia entrare e portarla
via. Scosse la testa violentemente, facendo sventolare i ricci da una
parte all'altra.
“Io...
non posso. È
pericoloso. Mi dispiace, non posso!”
Isabel
si aggiustò contro la parete, facendo tintinnare le catene
nel
processo, stranamente sorridente davanti al suo diniego.
“Anche
io ero come te. Avevo paura, mi tenevo alla larga da tutto e tutti,
sempre sola, sempre in fuga. Mi nascondevo per non affrontare
ciò
che mi terrorizzava, dandogli completo vantaggio sulle mie mosse,
pieno potere sulla mia vita... ma poi ho conosciuto una persona che
mi ha insegnato a combattere e tutto è cambiato. Io sono
cambiata.”
Sembrava
fiera di quel pensiero, di quello che era diventata.
“Quello
della collana?” si interessò la donna,
occhieggiando la pietra con
vivido interesse. Non c'era nessuno nel palazzo che non sapesse della
prigioniera e delle collane degli amanti, una delle quali era al suo
collo.
Isabel annuì e afferrò il ciondolo guardandolo
con
dolcezza.
“Ma se è così importante, perché lui non viene a salvarti? La sua collana dovrebbe essere sempre rossa, visto che sei in pericolo.”
“Non credo che la indossi. Ho fatto leva sulla sua insicurezza per allontanarlo da me. L'ho abbandonato all'improvviso, lasciandogli un biglietto con parole che non pensavo davvero, così che mi odiasse e non mi cercasse mai più. Perché Gregor era sulle mie tracce e lui si sarebbe messo in mezzo per proteggermi. In questo modo, invece, è al sicuro.”
Raphael si sentì di colpo molto stupido. Doveva sapere che il motivo per cui se n'era andata non era perché si era pentita, ma per proteggerlo. A conti fatti, a cosa erano servite tutte le parole dolci, tutti i baci, tutti i sospiri di quella notte, se poi aveva ceduto all'insicurezza al primo segno di difficoltà? Non aveva avuto fiducia in lei, in ciò che provava, in ciò che sapeva, preferendo credere a ciò di cui aveva paura.
“Lo
devi amare molto” mormorò Michelle, colpita dalle
sue parole.
“Com'è?”
“È
testardo, arrogante, istintivo e impaziente. Non pensa mai a quello
che fa o dice e agisce d'impulso. Non sa gestire la rabbia,
perché
tutto ciò che fa gli sembra sbagliato e se ne vergogna. Ma
è anche
leale, forte, onesto e dolce, con una gran paura di essere lasciato
indietro, da solo, e col segreto desiderio di essere solo amato, per
ciò che è. Ficca il naso negli affari degli
altri, prende a cuore
le sorti di completi estranei e si batte con tutto sé stesso
per
aiutarli. Come si può non amare?”
raccontò Isabel, persa in
ricordi.
Si lasciò perfino scappare un sorriso, fugace e tenero,
mentre parlava di lui. I suoi occhi scintillavano.
Raphael arrossì per la sua descrizione, assolutamente calzante. Isabel lo conosceva davvero bene, mentre lui non era riuscito a leggere nelle sue azioni, nonostante fosse proprio quello che lei volesse. Poteva dire di averla amata davvero?
Passarono altri due mesi, sofferti e strazianti.
“Non
ce la faccio più a guardare, sensei!”
gridò Donnie, girando la
testa davanti all'ennesima tortura. Il grosso squarcio nell'addome di
Isabel le era appena stato fatto, con un affilato e ricurvo uncino da
macellaio, infilato con forza nella sua carne; si era perfino
lasciata sfuggire un lamento, perché il dolore era troppo
grande e
insopportabile.
“Nemmeno
io, figliolo. È
lo spettacolo più orribile che io abbia mai dovuto guardare.
Ma
questa ragazza sta lottando con tutta la sua forza, distogliere lo
sguardo sarebbe un affronto al suo coraggio” rispose Splinter
con
un filo di voce, carica di pena.
Raphael
era ad un passo dallo scoppiare. Dall'urlare. Non importava che
fossero memorie, che tutto fosse già accaduto e che non ci
potessero
fare nulla: era successo a Isabel, lo aveva vissuto, quell'incubo,
secondo dopo secondo, senza poter scappare.
Il suo respiro era
accelerato per la rabbia e fu la piccola tra le sue braccia a
confortarlo, percependo la sua agitazione. Lo strinse più
forte e
lui, intenerito dalla sua premura, ricambiò la gentilezza.
Quella
volta Isabel giacque incosciente sul pavimento della cella, anche se
Michelle cercava di rianimarla. La donna le deterse il viso e la
chiamò, con gli occhi terrorizzati e sconvolti, ma non
ottenne
risposta; le poggiò le mani sulle tempie, per un momento,
assorta,
forse valutando le sue condizioni.
Rimase in ascolto di qualcosa,
perfettamente immobile. D'un tratto saltò su, silenziosa e
guardinga, e sgattaiolò via, velocemente.
Quando
Gregor tornò, mezz'ora dopo, sorrideva.
Isabel si era
risvegliata, ma non sembrava stare bene. Il suo colorito era molto
pallido e la maglia che indossava era completamente imbevuta di
sangue.
“Bene,
bene,
bene... ho delle buone notizie” esordì felice
l'uomo, camminando
avanti e indietro, senza curarsi dello stato in cui lei
versava.
“Partirò,
a breve” annunciò trionfante.
“Spero
che il tuo aereo cada, la tua nave affondi o qualunque sia il tuo
trasporto finisca male” mormorò Isabel,
poggiandosi con fatica
alla parete, lasciando una strisciata rossa sulle pareti grigie e
fredde.
“Non
vuoi sapere dove andrò?” incalzò
l'uomo, chinandosi al suo
livello, tendendo la catena per far sì che le sue braccia
tirassero
verso l'alto. Isabel sussultò per lo strattone improvviso,
ma si
morse un labbro per non urlare.
“Spero
all'inferno. C'è di sicuro un biglietto col tuo nome di sola
andata!” rispose dopo qualche istante, sputando veleno e
rancore ad
ogni parola.
“Ma
come sei simpatica!” esclamò l'uomo, divertito
dalla sua rabbia,
scompigliandole i capelli con fare fintamente affettuoso, mentre lei
cercava di scostarsi.
“Io
pensavo di visitare l'America... che ne dici? Precisamente New
York.”
Isabel si pietrificò, deglutendo nervosamente. Ma il suo
sguardo si fece più affilato.
“E
quando sarò lì, perché non passare a
salutare il caro Raphael
Hamato?” continuò vittorioso, alla vista del
panico che la
divorava.
“Come diamine l'ha...? iniziò a chiedere il vero Raph, prima di vedere la donna bionda entrare nella cella, spinta da una guardia.
“Mi
dispiace, Isabel” si scusò quella, vergognandosi
di guardarla. Non
poteva sostenere lo sguardo ferito e rabbioso della ragazza.
“Vedi,
farti affezionare a Michelle era la soluzione migliore,
perché
davvero ero ad un passo dall'ucciderti. E tu mi servi viva. Lei si
è
guadagnata la tua fiducia, riuscendo infine a leggere quel nome dalla
tua mente e ora, grazie a quello, io potrò rintracciare il
tuo Romeo
ovunque, piccola puttanella. Aspettami, tornerò con la sua
testa”
le rivelò Gregor, molto divertito dalla sua espressione al
tradimento della donna e all'idea che avrebbe ucciso il suo amante.
Si
allontanò, ridendosela della grossa, trascinando Michelle
con sé,
impaurita.
“Non
ti
azzardare a toccarlo! Ti ucciderò, altrimenti! Ti
ucciderò!” urlò
Isabel, tirando le catene per liberarsi, con un fragore assordante. I
polsi, intrappolati nelle manette, cominciarono a sanguinare dalla
foga con cui strattonava.
Un'altra risata fu tutto ciò che
ottenne come risposta. La porta della cella sbatté con un
suono
cupo, riecheggiando.
Isabel
si accasciò al suolo, sconfitta.
“Raffaello”
mormorò tra sé, come una nenia, finché
il buio non si mangiò
tutto.
A
notte fonda la serratura scattò, silenziosamente. Una figura
scura
come le ombre si avvicinò e iniziò a trafficare
con le sue catene,
senza fare rumore.
“Chi
sei?” domandò Isabel, afferrando il misterioso
visitatore per un
braccio.
Michelle fece cadere qualcosa di metallico, dallo
spavento. Nel silenzio della notte il rumore sembrò perfino
più
forte di quanto avrebbe dovuto essere.
“Io...
sono venuta a liberarti” balbettò in imbarazzo,
cercando le chiavi
al buio.
“Cos'è,
un'altra trappola?” insinuò Isabel, cinica,
trascinandosi lontano
da lei.
“Mi...
mi
dispiace. Potrei dirti che non avevo scelta, ma so che mi diresti che
c'è sempre una scelta. Posso solo scusarmi, ancora e ancora.
So che
ho fatto una cosa sbagliata!”
“E
adesso perché mi liberi?”
“Per
fare la cosa giusta.”
Isabel si ritrovò senza le catene, libera per la prima volta da così tanti mesi. Libera di andare via. Libera di usare i propri poteri. Si fregò i polsi lesi e insanguinati, con una smorfia di dolore, occhieggiando l'altra donna con dubbio. Senza le manette avrebbe potuto fulminarla a proprio piacere, al primo segno di tradimento.
“Portami
dove si trova la mia borsa” le chiese, non appena si fu
rimessa in
piedi. Avrebbe provato a darle ancora fiducia.
Michelle annuì,
scortandola silenziosamente fuori dalla cella.
Il rumore dei passi
si affievolì, mentre la scena scompariva, facendo loro
vedere una
sequela veloce di immagini: Isabel che recuperava vestiti e borsa,
che partiva nella notte dopo aver salutato Michelle, verso un lungo
viaggio per l'America, molto difficoltoso.
Di
colpo tutto svanì, riportandoli nel soffuso nulla dove
fluttuavano
le porte, in un silenzio angoscioso e denso, palpabile come se fosse
stato un essere senziente che esprimeva angoscia.
Nessuno aveva
voglia di parlare, troppo intenti a digerire ciò che avevano
visto.
Solo Isabel, tra le braccia di Raphael, esternava quel senso di
orrore e raccapriccio che tutti loro provavano, piangendo con tutta
la sua anima.
“Mi
dispiace, Raffaello. Mi dispiace” mormorò alla
fine tra i
singhiozzi. La piccola Isabel tra le sue braccia era diventata
grande, identica a quella che due secondi prima avevano visto
scappare dalla cella.
“Non
è colpa tua. Non scusarti” sussurrò
quietamente lui, stringendola
con dolcezza, felice di averla trovata.
“Abbiamo
trovato la Isabel che era rimasta intrappolata. E abbiamo scoperto
chi l'ha ridotta in questo stato” concluse Don.
“Usciamo
da qui, per favore.”
Una
porta di luce apparve davanti a loro, che furono ben felici di
oltrepassare; Raphael prese in braccio Isabel, portandola al di
là.
Ripresero coscienza all'istante, ritrovandosi nella camera di
Leo, attorno al letto. Di colpo sembrò tutto irreale, come
se
fossero appena scappati da un orribile e grottesco incubo, da cui non
erano riusciti a svegliarsi per troppo tempo. Gli sguardi corsero da
una parte all'altra, per riprendere contatto con la realtà,
poi si
posarono sulla ragazza che giaceva ancora incosciente in mezzo a
loro.
Isabel non aveva ripreso conoscenza, ma il suo viso non era
più così sofferente come prima.
Raph
strinse con forza la sua mano, tremando di rabbia. Poi si
alzò di
scatto.
“Raphael,
dove stai andando?” urlò Splinter, interrompendo
la corsa del
figlio verso la porta.
“C'è
un bastardo là fuori che mi sta cercando, sensei. Un
bastardo che ha
torturato Isabel per mesi. Non posso stare qui e nascondermi. Non
sarò la preda, sarò il cacciatore!”
gridò furioso, sorpassandolo
e continuando ad avvicinarsi alla porta.
“Fermati!”
ordinò il maestro.
“Se
lo farai, a cosa sarà valso il sacrificio di quella ragazza?
So che
sei fuori di te, figliolo, e ti confesserò che ne hai tutte
le
ragioni. Ma ti chiedo pazienza. Aspettiamo che Miss Isabel si
risvegli.”
Raphael
lottò contro la propria rabbia, frustrato. Stringeva le mani
così
forte che tutto il suo corpo tremava, di furore, indignazione,
risentimento, voglia di vendetta.
Guardò un attimo Isabel.
Desiderava con tutte le sue forze che si svegliasse e che sorridesse.
Voleva sincerarsi che stesse bene, di persona.
Con un sospiro
rilassò il corpo, sconfitto. Si voltò nuovamente
verso la
stanza.
“Bene,
saggia scelta. Adesso, vieni, raccontami un po' di questa relazione
segreta con Miss Isabel” lo punzecchiò Splinter,
facendolo
inorridire.
Note:
Salve.
Sto
postando il capitolone stasera, con enormi sacrifici, perché
una
lettrice mi ha scritto che domani partirà a tempo
indeterminato e
che non potrà continuare a seguire la storia (a proposito,
ma dov'è
che vai che non ci son né rete né prese? O.o).
Buon viaggio,
comunque.
Anyway,
non pensavo di farcela, ma sacrificando un po' di cose ci son
riuscita. Perdonate eventuali errori perché ho dovuto
revisionarlo
di fretta.
È
stata
una faticaccia immane! Magari più avanti ci ritorno e
controllo
errori. Ho una sorta di sensazione di angoscia, come se sapessi di
poterci aggiungere ancora qualcosa. Solo che adesso non posso.
Sono 22 pagine. Wow. Un'epopea. Di sangue e torture... che sadica.
Se
non vi dispiace dopo questo mi prendo una settimana di pausa. Devo
rimettermi in pari con le cose che ho messo da parte.
Grazie per
la pazienza e per seguire la storia! Mi rendete felice!
A presto
P.S.: nello scorso capitolo ho dimenticato di dirvi che del capitolo precedente (il 13, quello del fattaccio) esiste una sorta di spin-off, ovvero la stessa scena, ma vissuta dal punto di vista di Isabel, che è dentro la stanza e sente la discussione tra Raph e i suoi fratelli. Stavo pensando di postarla alla fine della storia, per non rivelare spoiler, prima del sequel. Che ne dite?
P.p.s.: ah, dimenticavo. Giusto per fare chiarezza, nel caso che con flashback e viaggi vari vi foste perse, Raph, Don, Leo e Mikey hanno ventidue anni e Isabel venti.
Beh, adesso è davvero tutto.
Abbraccionissimo
P.p.p.s.: avete visto il trailer del film delle tmnt? Non so che pensarne! Sono emozionata e timorosa allo stesso tempo!