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Autore: Pachiderma Anarchico    01/04/2014    1 recensioni
"Le persone che hanno sofferto sono le più pericolose, perché pur temendo il dolore conoscono la loro forza e sanno come sconfiggerlo. La loro paura è pari al loro coraggio. Non si fermeranno di fronte a niente e nessuno e sapranno ingoiare tutte le lacrime, sapranno alzarsi dopo aver toccato il fondo. Chi ha sofferto ha un cuore grande perché conosce il bene e conosce il male e ha rinchiuso in se tutto l'amore e il dolore. Sapranno sempre allungare una mano per fare una carezza e trovare una parola per confortarti, ma non sottovalutarle mai, perché sapranno ucciderti nel momento in cui tu cercherai di farlo con loro."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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Non chiedete spiegazione della tragica sfasatura temporale di questo capitolo perchè non saprei quale giustifazione dargli, so solo che non tutti saranno capitoli "casinisti" come questo.
Grazie immensamente per le visite e un grazie speciale a Megara X per il prezioso sostegno che dai a una scappata di manicomio come me.
Attenzione, la storia non sarà ancora per molto incentrata quasi solamente sull'introspettività di Dominik, ma potrei "partire in quarta" con i "giochi" da un momento all'altro. Preoccupatevi.
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CAP. 3




Dominik -notte tra il 5 e il 6 aprile- 

Le prime notti dopo i primi giorni di quella che mi ostino a chiamare "indifferenza" il sonno mi abbandona come una puttanella sulla strada.
Rimango con gli occhi aperti a fissare il soffitto nell'oscurità sovrana per due buone ore, incapace di rendermi conto del tempo che corre senza aspettarmi, prima di decidermi ad alzarmi e a raggiungere il bagno, giusto per non rimanere imbambolato sapendo che il sonno non arriverà mai. 
Il bagno, però, non lo raggiungo, i miei occhi vengono catturati dal cielo intriso di tenebre e privo di stelle che irrompe in tutto il suo tetro spettacolo nella stanza già priva di luce.
L'argento della luna non è abbastanza forte da sconfiggere i fasci di ostinato buio che la tengono prigioniera. I miei occhi scrutano l'orizzonte. Guardo la luna, che c'è, ma è impotente dinnanzi alla prepotenza del nero ed è costretta a rimanere lì, immobile, mentre il cielo si sgretola intorno a lei.
Si è impotenti, nell'onda della vita, nel corso degli eventi, nel profondo delle nostre emozioni, non si è mai abbastanza per cambiare le cose.
E allora cosa si fa?
Si decide di far finire tutto perché è troppo doloroso sentire la terra che frana sotto i tuoi piedi mentre tu miri all'orizzonte.
O si va avanti. Nonostante la fragilità, nonostante la barriera di nuvole grigie che opprime il sole, contro tutto e tutti anche se tutto e tutti sono molto più grandi di te.
Ma mentre il mio sguardo scorre sul panorama silente alla ricerca di un infimo luccichio, mi chiedo se si potrà mai vincere una guerra che non volevi neanche iniziare, se proprio tu che hai abbracciato il buio potrai mai difenderti dalle ferite della lotta per la luce.
Giungo alla conclusione che nel cielo non c'è neanche una stella e io non voglio combattere, non voglio dispiegare le ali e solo allora ricordarmi che non posso volare. Non posso, non voglio, non mi è concesso, non fa differenza. Mi limito a rimanere nel mio spazio ad osservare tacitamente la realtà che mi piace ogni giorno di meno. Ho fatto così per tutte le mattine incolori di questi primi giorni d'Aprile, circoscrivendo i miei occhi al rettangolo del quaderno sul banco e alzando la testa solo per incontrare le facce degli insegnanti e far capire loro che non mi sono addormentato. Ho avvertito, ogni volta, mire di iridi puntate su di me, sulla mia schiena incurvata, sulla mia nuca scura e sul cellulare su cui sbriciavo l'ora di tanto in tanto. 
Avrei voluto urlare almeno una decina di volte: "Qui dentro non c'è proprio niente! Non è attraverso un telefono che sono andato tra le braccia amorevoli della morte!"
Non l'ho fatto. Non ho intenzione di fare niente che possa intaccare il mio già troppo fragile equilibrio mentale e psicologico.
Sono ancora quello spettatore passivo che ero prima di rinvenire dalla mia intossicazione-overdose, con la sola differenza che ora forse potrei reagire, che adesso, in teoria, sarei qualcosa di più che uno spettro in una dimensione non ben definita sul confine tra la vita e la morte.
In pratica però, il mio cuore pompa solo sangue, la mia mente è schiava di congetture e prigioniera delle mie stesse catene e il corpo racchiude un'anima macchiata di veleno e perdizione.
In questa oscurità è difficile immaginare il sole che combatte la tenebra, è quasi assurdo credere che la luce si farà realmente vedere, da un momento all'altro.
Non vedo luce, non sento salvezza.
Mi chiedo perché sia vivo, chi ha avuto l'insensata corruzione di interferire con i miei piani. 
Mi chiedo perché sia sopravvissuto, e quale parte di me priva di buonsenso ha avuto una voglia tanto grande di rivedere il cielo da trascinarmi via dal sonno eterno ad un passo dall'attimo fatale.
Mi arrampico sul letto mentre la sfera argentea si staglia sulla superficie come petrolio e mi guarda inerte dalla sua altezza. 
La notte non può durare per sempre, eppure a me sembra tutto una  notte infinita. 
Una di queste mattine mi sono riappropriato del mio vecchio banco.
Fu la prima volta, nella settimana appena passata, che arrivai a scuola precedendo il suono della campanella e mi sedetti alla mia vecchia postazione nel corridoio centrale, seconda fila, lato destro.
Il ragazzo che si era trasferito li durante la mia assenza era un diciottenne in perenne versione "monaco buddista" con un fastidiosissimo tono di voce acuto e creato appositamente per perforare i timpani. Non ricordavo il nome. Era sempre stato, da quanto ho memoria, uno di quei dettagli che ricordi per i primi cinque minuti dal momento in cui ti viene detto e che poi la mente ripone in qualche ala del cervello adibita a dimenticatoio. E puntualmente non seppi come chiamare il tipo che veniva e viene solitamente usato dalla scuola come cartoleria ambulante.
Se si fosse fatto pagare tutte le volte che ha prestato qualcosa a qualcuno, sarebbe l'uomo più ricco della Polonia.
Quel giorno si avvicinò al banco su cui io ero quasi sdraiato e con quell'irritante vocetta mi comunicò che a quel posto, solitamente, negli ultimi tempi, si ci sedeva lui.
Non so se avete mai incontrato qualcuno che parla con una calma straziante e un'educazione esemplare anche per mandarti a quel paese.
Ecco, lui è esattamente uno di quei tipi.
E a me, questi tipi, urtano decisamente il sistema nervoso.
Diamine, rivuoi il tuo maledetto posto? E sfrutta tutto il disappunto che hai in corpo, per quando mingherlino tu possa essere, e mandami a fare in culo no?
Ma lui no, lui se ne stava li fermo con quell'aria da innocente samaritano devoto.
Io, che di innocente ho perso anche l'ombra, samaritano non lo sono mai stato e l'unica cosa verso il quale ero devoto in quel momento era la sedia su cui poggiavo il sedere, alzai lo sguardo, palesemente scocciato, verso di lui, con tutta la buona volontà di fargli capire che non era giorno, settimana e neanche mese. 
Ora mi chiedo, a distanza di giorni, cosa il tipetto abbia visto nelle mie pupille, perché si andò a spalmare sul primo banco che trovò libero, e li rimase.
E ripenso a quell'episodio anche la mattina seguente, nel mentre di un'importantissima classificazione di alcune sostante chimiche presenti in alcune boccette su uno dei tavoli da laboratorio.
E' il primo compito che ci assegna la professoressa appena varca la soglia, anzi, aveva già iniziato a vaneggiare con un piede dentro e uno fuori. Questo perché lei ha una concezione della sua materia che supera quella di tutte le altre.
Quante volte, in quattro anni, l'avevo sentita ripetere sempre la stessa gloriosa frase solenne: "La chimica, ragazzi, è uno scambio di vita. Tutto ciò che è fuori è chimica. Tutto ciò che è dentro, è chimica..- e a quel punto lo spiritoso di turno aveva esordito nel simulare una pernacchia che emulava un altro tipo di chimica, composta più da gas.. mandando la professoressa su tutte le furie, minacciando note e sospensioni a destra e a manca, anche agli uccelli che ebbero la sfortuna di passare dalle finestre in quel momenti.
Nessuno deve sminuire la chimica nella "sua" scuola, potrebbe essere l'ultima cosa che si oserebbe fare.
La Rezijida è famosa in tutto l'istituto per gli scatti di collera pura che riserva ai suoi studenti, e in questo momento rischia di lasciarsi andare proprio ad uno di questi scatti, mentre sfregia con lo sguardo ognuno di noi.
-Cominciate.-
Quasi non mi accorgo della presenza comparsa accanto a me con la sua chioma color zafferano e le lentiggini sulle guance rosate. Gli occhi verdi mi osservano con accesa curiosità.
-Sono Sandra- si presenta.
La guardo e ha qualcosa di familiare. Probabilmente ho scontrato il suo viso nei corridoi, ma mi sfugge altro su di lei. 
Prima della mia caduta libera ero tra le persone più popolari della scuola, invischiato nel gruppo dei "vip", dei "fighi", di quelli "importanti". Adesso che ci penso, e che non è più questa la mia realtà, non riesco a capire come mi sia trovato in mezzo a loro, immerso tra coetanei con cui avevo poco e niente in comune. Forse per il reddito della mia famiglia, forse per illusione o casualità, non era difficile scorgermi tra le giovani promesse del liceo, al fianco dei capobranco o dei leader di turno.
Studente brillante, conoscevo ogni singola faccia dentro e anche fuori quel posto, se erano facce collegate ad esso.
Adesso non so neanche chi sono io, né cosa sto facendo e di quella luce dorata, che sembrava agghindarmi anche se non spiaccicavo parola, non è rimasto niente.
Oddio, sono forse più conosciuto di quanto lo ero prima, ma non più perché vado in giro con Aleksander.
Quel fastidioso nome sguscia fuori dalla stanza blindata a doppia serratura della mia mente targato con tutto ciò che deve essere bandito categoricamente dai miei pensieri e da tutte le altre parti che ne hanno sfiorato, assaggiato anche solo una minima parte.
Mi volto appena e, con la coda dell'occhio, spio come procede la sua di classificazione.
Sta flirtando spudoratamente con la sua compagna di corso.
Tipico.
Quel pallone gonfiato deve ringraziare che è bravo in Judo e fa fare la sua porca figura alla scuola.
La media scolastica del pallone, prendendo in esame una banale minuzia, è accettabile, ma discutibile, c'è ne sono di molto più eccellenti, eppure nessuno si inginocchia se non passa lui. 
In Judo però, glielo riconosco, sa il fatto suo: è bravo, e con bravo intendo proprio il migliore.
-Sono tedesca.-
Mi districo bruscamente dai lacci dei miei pensieri saettando di scatto con gli occhi sul viso solare della mia nuova vicina e disgregando il flusso troppo sibillino dei ricordi che avevano inconsapevolmente indotto le mie iridi ad abbassarsi fino all'altezza delle labbra della promessa del judo.
-Non sembri tedesca.-
-E tu non sembri uno che è così disinteressato a ciò che gli capita intorno.-
Colpito. 
Da quando ho riaperto gli occhi sto cercando in tutti i modi di essere una statua dinnanzi a qualunque evento, parola, azione o fatto possa anche solo solleticare un' impercettibile parte della mia attenzione, e questa nuova-ex sconosciuta, nel giro di quattro secondi, mi ha manifestamente detto che sto fingendo spudoratamente, e che si vede lontano un miglio.
Neanche a farlo apposta, le coincidenze prendono il sopravvento. Detesto le coincidenze, ho imparato a formulare un' opinione inattaccabile su di loro, meschine artificiose bugiarde, e cioè che "esistono, esistono eccome". 
Davvero c'è ancora chi crede che niente accade per caso, che dietro a tutto c'è una ragione precisa che ti ha portato fino a quel punto? Davvero si può pensare anche solo plausibilmente che alcune cose sono già scritte, che alcune cose devono accadere, non importa il dove, il come e il quando, troveranno il modo di fregarti?
E ora devo cercare di non farmi fregare, appunto, da una qualche reazione che il tizio nel corridoio, oltre la porta aperta del laboratorio, cerca di suscitare in me, perché quel tizio sta fingendo di cadere a terra in un'evidente farsa di morire, teatralmente parlando, dopo aver bevuto qualcosa dalla bottiglia che tiene in mano.
Asher. Il "tizio" con cui avevo condiviso mille serate di svago insensato, insieme al resto del gruppo, prima che sviluppasse una sorta di intolleranza nei miei confronti. 
E questa misconosciuta intolleranza si sta rivelando in tutto il suo splendore ora che si sta beffeggiando, davanti a una trentina di persone, della mia quasi..
Allora non presi in considerazione un dettaglio fondamentale, un dettaglio che avrebbe potuto fare la differenza, ovvero che nessuno dei presenti che si stava godendo lo spettacolino sapeva esattamente di chi o cosa quel cretino stesse parlando.
La sferzata era diretta precisamente a me.
Io, dal canto mio, pensai solo a puntare due occhi disperatamente imperscrutabili sulla ragazza accanto a me che stava osservando una provocazione che non capiva fino in fondo, come del resto tutta la classe.
-Lascialo stare, è alla disperata ricerca di un hobby.-
E solo perché la sua ricerca non aveva dato i frutti desiderati doveva passare il tempo con me? Che cosa gli bruciava ancora? La sua preziosa Karolina non mi guarda neanche più, o meglio, mi guarda, ma solo per puntualizzare il suo disgusto. Nel suo branco non ci sono più e non ho nessunissima brama di rientrarci, sono un mezzo-quasi-per poco morto che cammina, cosa vuole dal sottoscritto?
Eppure quel ragazzo, per qualche motivo comprensibile solo al suo cervellino contorto, si diverte a creare baratri su una strada già cosparsa di spine. Fantastico.
Non gli do la soddisfazione di uno scoppio di lava, di un serrare comvulsivamente i pugni, di un tremolio di labbra, niente. Rimango inespressivo nella mia posizione sicura.
-Tu sei Dominik Santorski, vero?-
-Così si dice- rispondo all'unico elemento che in quel momento non sta ridacchiando.
Sento gli effetti speciali della messa in scena continuare alle mie spalle con tanto di versi agonizzanti dal dolore e non so quale santo mi tiene incollato allo sgabello.
Credetemi, non lo so.
Fatto sta che riesco a superare la lezione di chimica senza finire dal preside per aver tentato di incendiare i capelli di un altro studente.
Il mio autocontrollo è più ossessivo che efferato, più necessario che autentico, e viene messo nuovamente alla prova anche qualche ora dopo, mentre cammino per i corridoi diretto a mensa.
Me ne sto placidamente per i fatti miei, in disparte dal resto del mondo, cercando di dare un senso alla giornata, quando due colpi irruenti ad entrambe le spalle mi apportano contemporaneamente un'improvvisa botta di dolore che, sommati alle tutt'altro che delicate spinte, mi fanno crollare a terra.
-Santorski non sembri più tanto minaccioso eh..?- urla uno degli artefici di quella originale trovata.
Non ho bisogno di cercare con lo sguardo gli autori della mia caduta. Li conosco tutti.
Mark Piasecki e Samuel Kowaski, amici rispettivamente dell'energumeno che è Asher Brown e quel semidio che si crede di essere Aleksander Lubomirski. 
Appunto.
Mi alzo con tutta la calma del mondo. Le gambe, l'addome, le spalle, la testa, gli occhi che vanno a cozzare, per la seconda volta, nel tentativo di oltrepassarlo, contro la sua presenza appena comparsa davanti a me. 
E questa seconda volta mi blocco prima che possa finirgli addosso, non volendo affatto replicare la scena di una settimana fa, quando ci siamo accappottati sul pavimento perché lui era troppo distratto e io troppo concentrato. 
Istintivamente faccio accuratamente per aggirarlo, ma Aleksander non sembra avere intenzione di lasciarmi passare, piantando la sua figura dinnanzi alla mia e impedendo il passaggio da qualunque lato cerchi di avanzare.
Così, di punto in bianco, combino i miei occhi con le sue iridi bronzee, che non hanno smesso di fissare la mia faccia da quando il loro posseditore ha deciso che deve crearmi impicci. Le sue labbra (su cui mi soffermo per caso, intendiamoci) sono una linea immobile nel caffè latte della pelle del suo viso.
Non apriamo bocca, non spiattelliamo parola. Non seguiamo alcuna comunicazione scritta, ne verbale, ma solo il filo sul rasoio di due paia di occhi incendiari che se potessero si incenerirebbero all'istante
Il mio sguardo spazientito gli comunica francamente: "spostati.", il suo, sogghignante, indubbiamente: "spostami."
Sto per accontentarlo, spingerlo bruscamente, mandarlo a quel paese perché ne ho abbastanza di questa giornata e di certo non mi sarebbe mancato il
suo sprezzante contributo.
Faccio per crearmelo il passaggio, anche a costo di sgomitare, anche a costo di prenderlo a calci, quando, a dieci centimetri di distanza, mi fermo come paralizzato. Il solo pensiero di doverlo sfiorare mi impedisce di muovere anche solo un muscolo. Ogni singola fibra del mio essere mi scaraventa addosso ricordi, sensazioni, ogni singola goccia fatta di anima e sangue che fece traboccare il vaso che era la mia vita, frantumandosi in mille lame appuntite.
Faccio un passo indietro, quasi salto per la scossa di elettricità che mi è dardeggiata nelle vene all'immagine di due corpi vestiti di bianco, avvinghiati in una lotta efferata sul pavimento di una palestra, gli occhi di uno dei due che scrutano ghignanti l'altro, il sorriso beffardamente mordace che compare sulle sue labbra, quel culmine di assoluta libertà, quell'errore imperdonabile.. Sbatto le palpebre sottraendomi al passato e scopro che sto indietreggiando. Mi sto allontanando da lui, dalle sue impenetrabili iridi di rame scuro, dal suo corpo dove ogni muscolo ha un posto ben definito, dai distinti e sicuri tratti del suo viso che adesso sono appena contratti in una ben celata sospensione tra la perplessità e l'inaspettato dubbio sul mio repentino cambio di decisione. Non gli do il tempo di reagire, di replicare, di fare qualunque cosa avesse in mente, perché l'attimo prima ero lì lì, a specchiarmi nel riflesso scuro delle profondità dei suoi occhi, l'attimo dopo sono uscito velocemente dal suo campo visivo, quasi mi metto a correre per proteggere forse la mente, forse qualche altra cosa, dall'ondata di memorie che lui si porta dietro. Appena sono a distanza di sicurezza, nascosto in un corridoio momentaneamente privo di vita, mi lascio andare contro la fredda superficie del muro, respirando più volte in attesa di aria che ho già, ma che non mi basta.
Non dovrei concedermi di apparire debole, non dovrei apparire fragile, non avrei dovuto neanche pensare a muovere un dito per passare, avrei dovuto semplicemente voltarmi e andare da un'altra entrata ma no, munito di malferma caparbietà, lo avevo guardato negli occhi un secondo, un fottutissimo, maledetto, secondo in più, e avevo permesso a tutte le ombre del trascorso di fare festa sulle miei resti.
Devo superare questi momenti in cui passato e presente creano un malsano gioco di scambio, passare oltre e guardare avanti come se non fossero mai accaduti, come se non fossero mai esistiti, ricompormi nel giro di minuti come se il mio cuore non avesse preso la rincorsa, o potrei rischiare di precipitare in quell'abisso che, concedendomi la vacillante salvezza, mi ha anche assicurato che, se ricadrò di nuovo tra le sue fauci, non ci sarà una seconda via di fuga.
Dall'Inferno si può uscire una volta, dopo sarai condannato per sempre.
No so quale irrequieta voglia la spinga, ma la sua vivace presenza mi segue anche a mensa, mi intercetta, si siede al mio tavolo e inizia anche a prendere la piega dei discorso.
-Perchè te ne stai solo?- 
La sincerità e il colore caldo della voce di Sandra sono quasi opprimenti, almeno per me nello stato "L'umanità se né stia alla larga."
-Okay metà scuola ti crede un folle ma..potresti venire da noi.-
Seguo i cenni della sua testa per capire che "noi" sono una decina di persone con la tendenza a diventare logorroiche.
-No grazie.-
-Perfetto. Gente tutti qui!-
In meno di un nanosecondo il tavolo brulica voci e visi, risate e schiamazzi. Mi trovo con persone di cui non so un bel niente con le cosce a un centimetro di distanza dalle mie e un turbinio confuso di parole nei miei condotti uditivi. 
Guardo Sandra con un cipiglio per niente entusiasta.
-Non vorrai sembrare carne al fuoco- fa per tutta risposta lei, riservandosi un certo tono ammiccante.
Sto giusto per credere seriamente che non abbia tutti gli ingranaggi mentali funzionanti a dovere, quando le sue parole improvvisamente acquisiscono senso e concretezza.
Tutto il tavolo dei "VIP" si è voltato da questa parte, osservando con occhi che lanciano saette il gruppo sorridente venutosi a formare attorno a me.
Io non volevo sembrare proprio niente, non volevo lanciare sfide, non volevo caricare pistole, ero disincantato, fuori fase, confuso e forse l'azzardata morte mi aveva reso anche un po' troppo distante, perché non capì quello scambio di sguardi accesi come fiammiferi sulla benzina.
La comitiva che si è appena improvvisata la mia parla animatamente di qualcosa, ma il mio cervello rifugia ogni sorta di concentrazione. 
Se solo li avessi ascoltati più attentamente, se solo avessi letto tra le righe dei gesti che mi avevano perseguitato per l'intera mattina, se solo avessi letto tra le scintille di quegli sguardi, forse avrei capito prima che ero nel bel mezzo di un campo di battaglia di antiche tensioni.

 

***

La chiave entra nella serratura, gira al suo interno facendola scattare, la porta si spalanca con un colpo deciso che non proviene da me.
-Entra.-
La voce di mio padre è pervasa dal gelido tono di chi non ammette repliche.
Avanzo superando la soglia senza fare obiezioni. Mi raggiunge la voce di mia madre prima della sua presenza.
-Dominik gliel'ho detto che non era il caso, ma ovviamente lui..-
-Siediti- la interrompe lui continuando il freddo contatto visivo con i miei occhi. 
Colgo l'apprensione sul viso di mia madre e la miope severità su quello di mio padre. 
So che non posso sottrarmi a qualunque cosa si sia messo in testa, anche perché, mi ricorda una giudiziosa vocina, ho accetato di comportarmi bene e di non agitarmi.
Non sei in gioco, non metterti in gioco.
(Butto) lascio cadere la borsa e mi siedo sul divano in pelle difronte a loro.
-Primo- esordisce mio padre. -Perchè lo hai fatto.-
Loro sono quelli in piedi che mi scrutano dall'alto in basso, ma sono io a tenere le redini del discorso e dell'andamento della situazione.
-Che c'è, lo psichiatra non te lo ha detto?-
La vocina accenna un breve attacco di tosse.
-Noi vorremmo saperlo da te tesoro- risponde immediatamente mia madre nel vano tentativo di farmi arrivare le parole di mio padre in una versione più "soft."
Andrej Santorski non è dello stesso parere.
-Lo psichiatra riesce a spiegarsi alcune cose, riguardo ad altre anche lui non trova l'interpretazione di certi tuoi gesti per andare fino in fondo.-
Pendono dalle mie labbra, come se fossero disposti ad ascoltare davvero le parole che né usciranno fuori.
-Se hai di nuovo toccato quella roba..-
Mio padre adora gli avvertimenti, i ricatti, le minacce "a fin di bene", il tutto ovviamente condito da una buona dose di austerità, ma ciò che lo riempie di una gioia vera è trovare un colpevole. Sempre.
Un colpevole che non sia lui. Sempre.
-Non ho più toccato pillole o roba di questo tipo.-
E non ho toccato più neanche il computer. 
I miei hanno tolto la connessione, disabilitato la rete sul mio cellulare e mio padre ha fatto richiesta alla scuola di controllarmi (categoricamente) a vista se dovrò utilizzare un pc, un tablet o qualunque cosa si connetta col mondo per scopi didattici.
Come se togliermi la possibilità di collegarmi mi salvasse.
Come se togliermi la possibilità di collegarmi mi avesse salvato.
Per loro finisce tutto lì. E' questo il problema, e ora che lo hanno debellato possono ritornare nella loro dimensione felice dove tutto è immancabilmente al suo posto e tutto funziona alla perfezione. Io sono un accessorio rotto che deve essere aggiustato il prima possibile per tornare nella fittizia realtà dove non esistono problemi, contraddizioni, incertezze, sbagli o paure.
-Lo spero per te, perché lo psichiatra ha detto..-
La loro è una patetica imitazione di controllare la vita, quasi quanto la mia. 
Ma questa mia patetica imitazione mi sta aiutando a non perdere l'equilibrio dal filo a cui sono necessariamente appeso.
-E tuo figlio? Tuo figlio cosa ha detto?-
Neanche un mese fa avrei pagato qualunque cifra e ucciso anche mille uomini pur di avere l'occasione di vedere l'espressione sulla faccia che in questo preciso momento è quella di mio padre.
L'ho preso in contropiede. L'ho spiazzato.
Ma non molla la presa nonostante le insistenze di mia madre a lasciar perdere, non si fermerà fino a che non sarà arrivato esattamente dove vuole lui.
-Mio figlio dovrebbe capire che deve impegnarsi nello studio e nel comportarsi come converrebbe ad un Santorski, non dare retta a degli strambi squilibrati mentali.-
-Quegli strambi squilibrati mentali hanno fatto ciò che tu non sei mai stato capace di fare- e nel frattempo mi sono alzato, nell'illusione che il nervosismo che inizia a dilagare nelle mie viscere possa disperdersi sollevando semplicemente il sedere dal divano.
-E cosa avrebbero fatto di tanto importante da portarti a..-
-Mi hanno ascoltato- lo interrompo duramente. Le mie parole sanno di aspro nella gola.
Non ho voglia di ascoltare altro, di sorbirmi le sue pungenti allusioni e le sue rigide fino allo stremo congetture mentali.
Miro alla mia stanza, che alla fine si rivela essere sempre un valido rifugio, l'unico rifugio.
Le mie gambe mi guidano parentorie, il mio corpo si allontana da loro.
-Dominik non ho ancora finito.-
Sono testardo e avrei continuato imperterrito la strada per il nascondiglio,ma con un' asciutta brusca strattonata mi ritrovo la faccia di mio padre a un palmo dalla mia, e adesso è in collera. Posso contare le rughe sulla sua fronte che si formano quando si rende conto di non essere il padrone della situazione.
-Ti abbiamo dato tutto ciò che si può desiderare e tu ci ringrazi così?!-
Ho la risposta pronta. E a quanto pare c'è l'ho da sempre, sulla punta della lingua, tagliente, amara, incredibilmente vera, rinvigorita da tutto il tempo che me la sono cacciata dentro senza mai avere la forza di sputarla fuori.
Adesso però, non ho più niente da perdere, e questa risposta nascosta e mascherata gliela quasi ringhio in faccia.
-Io non lo volevo tutto questo!- 
Emettono un piccolo sussulto, mi accorgo di aver alzato pericolosamente la voce e mi affretto a tornare su un porto sicuro. Abbasso il tono, ma non riesco a renderlo meno amaro.
-Volevo essere qualcosa in più che il figlio perfetto che vi portavate dietro nel vostro puntare sempre più in alto dimenticando ciò che c'è in basso sotto i vostri occhi, ma ci è voluto un tentato suicidio per farmi guardare da voi.-
E questa volta nessuno cerca di fermarmi, questa volta ho mandato un messaggio che è stato abbastanza disarmante da essere recepito al volo. 
Mi rifugio nella mia camera esattamente come quando non volevo uscirne più e il buio minacciava di afferrarmi tra le sue grinfie affilate e io pensavo di volerlo.
Adesso non gli permetto di prendere possesso dello spazio intorno a me ma dentro lo sento, lo sento che si fa barbaramente strada nella mia anima sul punto di allarmarsi, e sento anche lei, e cerco con tutte le resistenze rimaste di allontanare questo buio più vero che mi promette, mi illude, mi sorride invitante nel suo fascino distruttivo.
Deglutisco cenere, isolo la mente dalla polvere, cerco disperatamente di fingere che i colpi sordi alla porta del mio essere non siano tanto insistenti da farmi vacillare.

 

***
 

Dominik -pomeriggio del 7 aprile-

I corridoi si fanno di tre toni più silenziosi al mio passaggio, percepisco gli occhi ammantati dallo splendere dell' interesse e del menefreghismo e provo, irradiato da quei riflessi, lo stesso tenebroso disagio che ha fatto insorgere l'esigenza di alzare quel calice di birra la fatidica notte. Nel bene o nel male mi ritrovo sempre al centro dell'attenzione, sia che porti avanti un'audace scommessa al centro di un cerchio di adolescenti ubriachi, sia che porti avanti l'instabile scommessa sulla mia vita al centro di un irreparabile cerchio nefasto.
Mentre cammino verso l'ufficio del preside in cui sono stato convocato, sono esasperato da come venga pesato, dagli occhi ambrati, smeraldati e turchesi che mi seguono, ogni minimo movimento, di come questo opprimente occhio di bue mi illumini in una luce malsana dovunque vada, rendendomi come uno spettacolo guardato fino allo sfinimento, un pesce rosso in una boccia di vetro e per giunta senz'acqua, perché mi sento soffocare. Peró so, per fortuna o sfortuna, mantenere le maschere, e riesco a resistere nella mia facciata imperscrutabile fino a quando non spingo la porta che precede quella che si apre nello studio del dirigente. Me la richiudo alle spalle e l'aria fuoriesce, anzi più che altro scappa dai polmoni con la sveltezza di una gazzella in fuga.
Alcune voci provengono dall'interno della stanza. Cerco di definirle, di concretizzarle, di assegnare loro un'identità, ma i neuroni non hanno voglia di concentrarsi in un'attività che non suscita loro il minimo interesse e desisto dal riprovarci. 
La risposta al tentativo fallito giunge nell'attimo seguente con una botta e risposta inquietante, come se l'universo si fosse messo d'accordo con chi sa quale divinità pagana per prendersi gioco di me. 
Perchè quelle voci hanno una presenza.
E che presenza.
Avete "presente" la sensazione che si prova quando sembra che tutto ció che non vuoi che accada finisce puntualmente per verificarsi?
Credo che il mondo, il destino, il caso e la natura siano impelagati in un complotto contro di me.
Non sono così egocentrico da credere che l'esistenza stessa giri intorno al sottoscritto, ma tra tutti i viventi di questa scuola, tra tutte le facce che potevo trovarmi davanti, tra tutti gli occhi che potevano incrociarsi con i miei, perchè proprio quelli di Aleksander? 
Il quasi campione di Judo è uscito dall'ufficio del preside e il suo sguardo, inizialmente animato da qualcosa che sfugge alla mi comprensione, si tramuta poi, con la velocità di un lampo, nella pozza di illeggibilità profonda che li distingue.
I secondi rimangono sospesi come stele di ghiaccio nella stretta anticamera finchè i suoi occhi non si allontanano con un movimento secco dai miei e spalanca la porta, uscendo seguito dalla sua aria di popolare figaggine (stronzaggine).
-Dominik, entra- mi esorta il preside con la sua voce pacata e gentile.
Mi volto verso di lui mentre il rumore sordo della porta che si chiude alle mie spalle mi rimbomba nelle orecchie. Nell'udire quella voce lo stomaco mi si contorce a causa della familiarità di cui è vestita che, per un crudele folle attimo, mi fa vagheggiare nella misera finzione che niente sia cambiato.
Ma la realtà mi crolla addosso con una forza d'impatto tale che mi conduce all'inquietudine più acuta nel momento in cui noto gli occhi turbati del preside che mi scrutano da cima a fondo.
-Come stai Dominik?- 
Ancora una volta le sue parole sono traboccanti di premura e reale apprensione, il suo viso affabile e le sue mani giunte sulla scrivania di mogano lucido in un chiaro segno di ispirare tranquillità. 
Ma non mi apro, non mi rivelo, non mi spoglio dinnanzi alla prima amabile voce che mi porge la stessa dannata domanda che sento dannatamente rivolgermi praticamente da ogni dannata persona che ha avuto il piacere di vedermi dopo che i miei dannatissimi occhi hanno avuto il brillante lume di riaprirsi.
La risposta sorge spontanea, sguscia fuori dalle labbra come una registrazione pre-impostata nelle mie corde vocali.
-Bene.-
Lui continua a osservarmi. Forse si aspetta una correzione, un'aggiunta, una parola che tradisca i miei occhi sbarrati ermeticamente o la riposta data senza neanche pensare se il significato che racchiude sia vero.
Ma non mi conosce.
E infatti poco dopo fa segno di sedermi e la sua mano destra si posa sul mouse che fa ticchettare.
Un click.
Gira lo schermo verso di me in religioso silenzio. Va subito al sodo, a quanto pare ha capito che non riuscirà a cavare nient'altro o a instaurare una conversazione lunga e ricca di dettagli con me.
-Questo mi è arrivato oggi, dopo l'inizio degli allenamenti pomeridiani.-
Un secondo click.
Una sala di medie dimensioni compare sullo schermo come se fosse stata fotografata da uno spiraglio appartato. Riconosco subito che non è una foto, è un video e una figura appare nella luce discretamente soffusa dell'inquadratura in movimento.
Sono io.
Io qualche ora fa, solo in un posto in cui nessuno sapeva che fossi. O quasi nessuno, a giudicare dal filmato del quale sono il protagonista.
Erano appena iniziate le attività del pomeriggio, a cui tutto il corpo maschile dell'istituto era invitato come sempre a partecipare, tra cui la lezione di Judo. Non che fosse obbligatorio, ma dava crediti extra e il Dominik perfetto di cinque settimane fa ci andava senza neanche sapere il perché.
Non era portato per il Judo, non gli interessava prendere la lode agli esami di stato, ma interessava ai suoi, interessava all'immagine impeccabile con cui doveva folgorare il mondo e quindi, automaticamente, interessava anche a lui.
Il Dominik di adesso invece, quelle poche ore prima, era uscito dagli spogliatoi con l'intendo di andare davvero alla lezione di Judo, tanto uno valeva l'altro.
Si, stavo effettivamente recandomi nel lanciarmi in quell'attività il cui esito era sempre me con il sedere per terra, dopo aver scansato due dei "VIP".
I tizi mi avevano attorniato e fatto fracassare la spalla sinistra contro un armadietto dietro di me, e se è possibile non porre un limite all'evidenza, i due armadi se ne tornarono come docili cagnolini dai loro proprietari tra cui, dio indiscusso del gruppo, Aleksander, affiancato da quell'ameba di Samuel.
Il sorriso che comparve sul viso divertito del "re" mi fece serrare la gola da una morsa irritante.
Se era tanto felice perché non sentivo più la sensibilità alla spalla sinistra grazie ai suoi leccaculo perché non veniva personalmente a lussarmi anche l'altra?
Uscì dagli spogliatoi rifiutandomi tassativamente di guardarlo un secondo di più con le loro risate echeggianti nel corridoio.
Prima che raggiungessi la sala di Judo però, qualcosa attirò la mia attenzione come una potente calamita con un danneggiato pezzo di ferro: un sacco da boxe nero, attaccato a una catena in una sala silenziosa e deserta, che troneggiava isolato al centro.
Ricordo il dolore alla spalla, le immagini degli occhi sprezzanti che mi avevano perforato la pelle nell'ultima settimana, la derisoria apparizione di Asher mentre si divertiva a imitare la mia morte, la voce imperiosa di mio padre e dei suoi occhi accusatori, le cicatrici che invece di accennare a rimarginarsi sembravano bruciare come ferite aperte e gli occhi che, qualche minuto prima, avevano seguito sghignazzanti la mia uscita affrettata dallo spogliatoio, e tra quelli, due occhi, in particolare, arroganti e sfrontati, che avevano avuto il potere di colpirmi come uno schiaffo in pieno viso. 
Nella velocità di un secondo venni catapultato nella realtà di un mese prima, quando quello stesso sguardo sprezzante aveva affondato le sue iridi pungenti nelle mie, nel corrosivo attimo in cui il mio corpo mi aveva tradito. 
Avvertivo il dolore che avevo provato nel sentirmi solo, incompreso, distante da tutto ciò che non sentivo più come mio, lontano da tutto ciò che avevo perdutamente desiderato come mio. Una fitta acuta mi suggerì che la spalla sinistra non era del tutto libera nei movimenti quando buttai con foga la borsa a terra in un impeto di furore e mi avvicinai a quel sacco, mentre passato e presente vorticavano in una burrasca turbolenta nella quasi penombra della sala, invadendo la bolla di protezione che avevo tentato, forse ingenuamente, di crearmi.
Ricordi, palpiti, squarci, voci, lacrime silenziose, risate, sorrisi, aiuti urlati all'oscurità, baci. Baci veri, baci falsi, baci fittizi, baci licenziosi con erotici intrecci di lingue, eccitazione, odio, passione,  tenebra, speranza, paura, brama, disperazione, oblio, desiderio, pillole, accettazione, bianco, nero, innocenza, colpa, alcolici, menzogna, forse amore, aiuto, uno sparo nel buio, ho colpito il sacco.
Ho colpito il sacco con la forza della frustrazione che mi aveva assalito come un parassita.
Eppure, quando quel pugno dato a mani nude cozzò contro la ruvida superficie, qualcosa si mosse. L'aria cambiò, il corpo sciolse per un attimo tutte le corde e ogni muscolo si è rilassato e nella mente si è sprigionata l'immagine di un fiammifero che combatte l'oscurità.
Piccola, fatua fiammella, troppo fievole per scalfire la tenebra ma troppo orgogliosa da far tacere.
Gli occhi si abbassano sulla pelle sulle dita della mano destra, rossa, graffiata dal materiale che senza capacitarmene sono andato tanto impulsivamente a colpire.
Ero solo in quella sala, solo nei miei pensieri, solo nell'aria nuovamente immobile, ma per un millesimo di secondo qualcosa mutò, qualcosa si era spregiudicatamente incrinato.
Usai le maniche della felpa per coprirmi le mani e continuai a colpire il sacco con un colpo dietro l'altro, sempre più agguerrito, sempre più affranto, fino a che l'aria non riuscì più a raggiungere i polmoni e dovetti fermarmi, lasciando cadere la felpa a terra. 
Le braccia scoperte dalla t-shirt appaiono nel filmato con tutto il loro eccessivo candore e ringrazio mentalmente chiunque si sia preso la briga di riprendermi di non averlo fatto da abbastanza vicino da permettere al preside di vedere i segni sulla mia pelle, testimone di terribili verità.
Guardo con una sorta di curiosità il ragazzo che adesso si guarda intorno disorientato e ansante prima che il video si interrompa. Non afferro il motivo per il quale io sia stato chiamato qui e non capisco il movente del filmato tranne che a nessuno piace farsi i cazzi propri. 
L'idea di vivere cent'anni non alletta più?
Il signor Bckowoz gira il monitor verso di lui, rendendo lo schermo metallico del pc alla mia vista.
Okay in quel momento sarei dovuto essere a Judo a farmi massacrare, ma ci andrò la prossima volta, prima o poi il coccige me lo rompo lo stesso, ma ora non facciamone un affare di stato se per un solo incontrollato momento ho preso a pugni un sacco da boxe perché il mare che ho dentro era in tempesta e rischiavo più del solito di esplodere e frantumarmi in tante erosive schegge di..
-Quello che vedo è talento.-
..vetro. Che?
Vago con lo sguardo nell'ufficio alla ricerca di qualche spinello o qualunque cosa possa aver fatto andare il preside fuori di testa.
-Scusi?-
-Quello che vedo è talento- ripete lui imperturbabile.
E' convinto. 
Si sbaglia, quello è amarezza, rabbia, inquietudine e qualcos'altro che non sono riuscito a definire.
-Quello non è talento.-
-Beh..- congiunge nuovamente le mani -qualunque cosa sia, funziona.-
E' ostinato.
-Perchè non partecipi alle lezioni di boxe?-
Perché non mi lascia semplicemente andare?
-Non..-
-Permette crediti extra- rimbecca immediatamente lui, -e visibilità, e constatando che siamo a meno di due mesi dagli esami finali ti potrebbe fare comodo qualche credito in più se magari tu non riuscissi a recuperare tutti gli argomenti.-
Troppo ostinato.
Apro la bocca per rispondere.
-Inoltre la boxe è un'ottima attività fisica.-
La richiudo la bocca.
E lo faccio perché non c'è bisogno di un fulmine che metta in agitazione i miei drogati neuroni per ricordarmi come si fa 2+2, perché io ricordo quanto fa 2+2 e ricordo come si persuade la gente. 
Il gioco lo conosco, anche se fingo di non saper giocare.
-Se frequenterò le lezioni pomeridiane di boxe, considerando anche che vorrei avvantaggiarmi nello studio arretrato, non avrò tempo per impegnarmi a fondo in altre attività..-
-Si- mi interrompe il mio ignaro preside, forse più inconsapevole di quanto creda o più bravo a recitare di quanto abbia mai creduto. 
-Sommando la boxe tre volte a settimana, lo studio, la corsa settimanale obbligatoria per tutta la scuola e i vari impegni personali.. Direi che dovresti rinunciare al corso di Judo.-
Bingo.
Nei miei occhi appaiono tante stelle invisibili mentre mostro il mio miglior sguardo affranto al signor Buckowoz.
-Dia il mio nominativo per la boxe e..- rallento notevolmente la voce in un'eccellente nota dispiaciuta -credo che dovrei proprio rinunciare a Judo..- "dovrei", io l'ho già fatto.
Mentre le sue mani sfogliano alcune carte il mio testardo testardo cervello si pone una domanda a cui, credetemi, non ho la benché minima voglia di rispondere. Ma ogni volta che la scaccio dalle corsie deviate dei miei pensieri essa continua cocciutamente a picchiettare sulla mia corteccia celebrale.
"Perché non hai sentito la voce del preside e dell'allenatore di Judo quando aspettavi fuori dall'ufficio?"
"E perché? Perché molto probabilmente ero distratto" rispondo prontamente alla mia mente irrequieta che non vuole affatto starsene zitta e pensare a come arrivare a stasera.
Non lo ammetto a me stesso, non lo confesserei neanche sotto tortura, ma è vero, ora che la mia attenzione si è focalizzata su questo dettaglio, le voci dei presenti nella stanza, per quanto distinte e limpide oltre il legno della porta, non avevano sortito il minimo effetto sul mio stato di disinteresse, tranne una.
E considero detestabilmente casuale che, tra tutte, avessi captato all'istante proprio la sua, e trovai non detestabile, non insopportabile, ma odiosa la presunzione di quella giudiziosa vocina che, adagio adagio, gentilmente e amorevolmente, mi notifica che quella voce l'avrei riconosciuta anche in una festa con duecento persone che schiamazzano sotto gli effetti di alcol a fiumi mentre scuotono i loro copri a ritmo di musica tecno sparata a tutto volume da non sentire neanche le urla dei propri pensieri.
E io odio la tecno.


***

Il signor Buckowoz mi congeda dopo avermi comunicato il nominativo dell'allenatore e di poter ritirare gli orari in segreteria. 
A casa, nel silenzio assordante dei miei pensieri, esamino le condizioni della spalla sinistra. Un livido nero-violaceo troneggia come un errore di colore sul pallido marmo che è la mia pelle. 
Metto in dubbio che qualsiasi attività fisica mi faccia bene vista la quasi inesistente concentrazione della mia mante e il corpo magro, direi smunto, che emerge dal riflesso nello specchio. La maglietta è appollaiata sul letto, lanciata malamente sul materasso appena varcata la soglia della stanza ed essermi appostato davanti lo specchio, ma sarei tentato di riprenderla in fretta e spalmarmela addosso perché sembra che stia sgretolandomi da un momento all'altro. In futuro, spunto mentalmente, ricordarsi che una dieta a base di disperazione e pillole non va bene.
La figura che mi sta davanti mi risponde con lo sguardo spento, blindato da possibili fughe di emozioni, la perenne espressione impassibile segnata nei tratti del viso, come una maschera di cera troppo realistica e le labbra, ombre di quel rosa fulgido che le animava una volta, non credo sappiano più sorridere.
Stai davvero provando a vivere?
No, questa via che mi sono intestardito a percorrere, questi giorni che mi intestardisco a superare credendo che tutto mi scivoli realmente addosso senza
intaccare, ogni tragica volta, un pezzo di me, non può essere definita "Vita". Mentire a me stesso che la notte sia finita velocemente com'è iniziata, che le fiamme non brucino scarlatte in attesa di consumare i resti arrendevoli delle rovine su cui sto costruendo un castello di sabbia, negare che il lungo segno nell'interno del braccio destro, che adesso sorveglio attentamente come temessi possa aprirsi da un momento all'altro, non sia evidente come una rosa rossa in meno a un oceano di tulipani bianchi.
Gli altri sono più coraggiosi, gli altri non fingono, non mentono, non lasciano credere che sia tutto perfettamente come cinque dannate settimane fa, no, loro me lo sputano in faccia che ora sono un instabile squilibrato con attacchi di disagio acuti che ha tentato due volte di uccidersi e che con la seconda c'è la quasi fatta.
Vorrei pentirmi di quello che ho fatto, la prassi sarebbe "capisci dove hai sbagliato e non farlo mai più", ma la mia coscienza si rifiuta praticamente farlo. Forse perché adesso sa che, nonostante i segni, la miriade di punti oscuri che costellano la mia anima, la fragilità del mio equilibrio, la violenta sensazione di inadeguatezza che viene a trovarmi ogni giorno, sono libero. Libero di non essere quella creatura perfetta che tutti si accanivano tanto a vedere, libero di stare male e di urlare al mondo di farsene una ragione, libero dalle catene delle ambizioni che gravavano sulle mie spalle.
E la strada lastricata di inaffidabilità che i miei pensieri si decidono a percorrere abbandonando la carrozzeria sicura su cui erano custoditi, mi porta inevitabilmente a lei.
Faccio un secondo errore.
Una di quelle porte blindate da doppia serratura in acciaio rinforzato si apre, poco poco, lascio che uno spiraglio della sua luce accattivante fuoriesca e illumini una piccolissima, davvero nulla parte delle camere oscure che prudentemente riservo dentro di me, lascio che carezzi quelle pareti, e lusinghi quegli angoli, e, prima che possa impedirlo, si è già vendicata.
Uno scintillio rosa appare nella stanza. 
Lo vedo, per un frangente troppo breve, nel riflesso dietro di me.
La sento, come se il suo respiro, a metà strada tra il caldo più seducente e il freddo più tagliente, mi sfiorasse la pelle sensibile del collo.
Vorrei voltarmi e non vedere quel riverbero di luce malsana nei suoi occhi dove il passato ha tracciato solchi troppo profondi, vorrei le sue labbra, per una volta, una sola, premere con grazia letale sulle mie, sentire, per un'ultima volta, quel serafico tocco venereo, a quel punto potrei anche lasciare che il torbido insano di quelle due pillole alabastri torni a cullarmi per sempre, datemi questo e dopo potrei anche..
Non so se ho urlato, non so se l'ho fatto. 
Vagamente mi rendo conto di avere la testa stretta tra le mani, di stare ansimando, di essere seduto o scivolato sul pavimento freddo con un terribile dolore palpitante alle tempie e la drammatica certezza di stare cadendo a pezzi, come se non avessi mai smesso.

  
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