Serie TV > Once Upon a Time
Segui la storia  |       
Autore: lulubellula    01/04/2014    3 recensioni
OutlawQueen
Regina si ritrova catapultata in un luogo sconosciuto dopo Neverland, qualcosa non è andato come avrebbe dovuto, è sola, stanca e ferita.
Sola con la sua coscienza, si ritroverà a fare un bilancio della sua vita, delle sue scelte e delle sue azioni, in un luogo in cui, dimenticare chi è stata non può farle che bene.
Un nuovo inizio, una nuova vita e anche un nuovo amore.
Alla ricerca della felicità e del lieto fine che ha sempre rincorso e che ora si merita.
"Robin si fermò un istante ad osservarla, i suoi occhi si soffermarono su di lei, pur non conoscendola, pur non sapendo chi lei fosse in realtà, non poté far a meno di restare stregato da lei, dalla sua figura sottile, da quel lampo di luce e di dolore che aveva colto quando lei si era voltata, qualche istante prima che perdesse i sensi".
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Regina Mills, Robin Hood, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Finding true love (because everyone needs a happy ending)
Lion

 
Alla fine la donna cedette e si addormentò per un paio di ore, il sonno era meno agitato dei precedenti ma non del tutto tranquillo.
Non avere il pieno controllo del suo corpo e della sua magia la rendeva nervosa e non avere nessuno che la chiamasse “Mamma” lì intorno la faceva morire dentro, lentamente ed inesorabilmente.
Era triste, Regina, triste e inconsolabile e se da sveglia cercava di far sì che il suo stato d’animo non si manifestasse, nel sonno, lacrime le scendevano silenziose a macchiare la coperta lisa e stinta su cui si addormentava.
Non aveva con sé suo figlio, l’amore della sua vita, forse l’unico, perché non c’era nessuno al mondo, nessuno, nemmeno Daniel che lei avesse mai amato quanto Henry.
Aveva dovuto aspettare di diventare madre per provare un tale sentimento, così intenso, forte, indescrivibile, di completezza e felicità assoluta.
Le mancava Henry, incredibilmente, non c’era attimo, da desta o in sogno, che lei non pensasse a lui e quando le sembrava di aver accantonato per un attimo soltanto il pensiero, c’era qualcosa o qualcuno che glielo faceva riportare alla mente.
Si svegliò.
Improvvisamente e con il cuore in gola, come le accadeva quando aveva troppi pensieri per la testa.
Quando Henry la svegliava di notte per un brutto sogno e le invadeva il lettone, venendo a dormire accanto a lei e abbracciandola, i suoi piedini freddi vicino ai suoi. Si riaddormentavano entrambi in un battito di ciglia.
Le notti insonni passate a vegliarlo quando era ammalato o a consolarlo quando era triste oppure le spaghettate di mezzanotte d’estate, quando c’era troppo caldo e non si riusciva a dormire.
Tutti questi ricordi erano come tante perle a formare una collana, tanti grani uno vicino all’altro, uno più felice dell’altro e tutti insieme dolorosamente felici perché passati, perché lontani.
Il cuore le martellava nel petto, non riusciva a parlare, a chiamare aiuto, i battiti erano accelerati, scorreva adrenalina pura mista a qualche goccia di sangue nelle sue vene.
Pensava che sarebbe morta, che il cuore le sarebbe scoppiato nel petto.
“Regina!”.
Robin che era a pochi passi da lei e la intravedeva nella tenda, si spaventò.
La donna non riusciva a spiegarsi, a proferire parola, ma i suoi occhi, i suoi occhi, gridavano aiuto a piena voce.
L’uomo si avvicinò a lei e la fece uscire dalla tenda, non riusciva a capire che cosa le stesse accadendo, che cosa le passasse per la testa, visto che non parlava, ma pensò che portarla fuori a prendere qualche boccata d’aria non le avrebbe fatto di certo male.
“Respira, Regina!” le disse, a metà tra l’essere un ordine e una gentile e disperata richiesta.
Lei sembrava non riuscirci, non c’era aria attorno a sé, sembrava che tutto l’ossigeno della Terra fosse stato risucchiato nell’etere.
L’uomo le si sedette accanto e iniziò a massaggiarle la schiena, come si fa con i bambini molto piccoli quando piangono o stanno male; in realtà non sapeva bene cosa fare, ma aveva compreso che le semplici parole non sarebbero bastate, le serviva qualcosa di più concreto, come un abbraccio.
Regina sentiva che la situazione stava leggermente migliorando, ma non del tutto, il cuore era ancora in gola, il panico ancora nella sua mente, Henry ancora lontano, troppo, da lei.
Il tocco leggero e rassicurante del ladro pareva giovarle e se, in circostanze diverse l’avrebbe fatta infuriare a morte, in quel frangente le era d’aiuto, era tutto per lei.
“Vi sentite meglio?” le chiese Robin dopo una manciata di minuti, la preoccupazione gli si leggeva in volto.
“S-sto meglio, sto meglio” disse lei quasi in un sussurro, allontanandosi di qualche centimetro da lui.
Non poteva lasciarsi prendere dalla situazione, era fragile, emotiva, scossa, le sue azioni potevano rivelarsi pericolose, dopotutto erano una donna e un uomo, a zonzo nella foresta, soli, senza terzi incomodi tra i piedi.
“Bene” le disse lui, lievemente sollevato.
Regina lo guardò, uno sguardo leggero, dolce, ma tuttavia colmo di paura, di angoscia.
“Come vi turba, Milady? A me potete dirlo, non vi giudicherei, non sono il tipo di uomo che giudica le persone dai loro trascorsi” iniziò accondiscendente.
Regina sentì una sorta di elettricità nell’aria, voleva aprirsi con lui, lo voleva proprio, ma forse non era il caso di raccontare il suo passato, anche quello remoto, ad una persona appena conosciuta.
Anche se sapeva che si sarebbe potuta fidare di lui.
Lui che l’aveva soccorsa e curata, le aveva praticamente salvato la vita.
Regnò il silenzio per qualche istante nella foresta, il sole stava ormai per calare, forse Regina aveva dormito più a lungo di quanto credesse in principio.
“Accendo di nuovo il fuoco, per riscaldarci più che altro, purtroppo stasera non è rimasto molto da mangiare, un altro po’ di tacchino, se proprio vi va”.
Regina sorrise all’idea di mangiare di nuovo tacchino, tacchino freddo, come a pranzo.
“Vi fa ridere la mia cena?” domandò lui fingendosi offeso.
“Affatto” rispose lei, nascondendo a malapena una risata.
“Siete così bella quando sorridete, Regina”.
Poi si rabbuiò.
Era la seconda volta che quella affermazione gli sfuggiva e si diede dello stupido per questo motivo, per il fatto che la reazione del giorno precedente l’aveva spaventato.
Non voleva che lei si richiudesse in se stessa, non ora che il tepore del fuoco era tanto perfetto e che il cielo cominciava a tingersi di una coperta di stelle, non era che i suoi occhi brillavano a tal punto da scandirgli i battiti del cuore, un battito di ciglia, un battito del cuore, un ritmo tanto lento e perfetto da togliergli il fiato.
Non gli succedeva da secoli, da quando aveva perso Marian, ormai quattro anni prima, anche se talvolta parevano sembrargli quattrocento, non gli succedeva di provare un tale sentimento, una sensazione di completezza e beatitudine assoluta.
La donna sembrava sentirsi un po’ meglio, ma lui si ripromise  che non l’avrebbe persa di vista nemmeno un istante durante la serata.
Era forte o almeno faceva tutto per sembrarlo davanti ai suoi occhi, ma nascondeva un lato fragile ed emotivo, un lato che la rendeva completamente diversa dall’essere la “Regina Cattiva”.
In fondo e nemmeno troppo, anche la Regina Cattiva era pur sempre una donna prima di tutto il resto.
Si alzò in piedi e andò a prendere la cena, il fuoco era quasi spento, ma riuscì a farlo tornare animato e scoppiettante aggiungendovi dei rametti secchi, dopotutto non avrebbero mangiato tacchino freddo quella sera.
Mangiarono in silenzio, seduti vicino al fuoco, si scambiavano di tanto in tanto delle occhiate che volevano dire tutto e niente, si comportavano come due ragazzini vestiti da adulti, le stesse paure, gli stessi sospiri, ma in più molti, troppi rimpianti e ancor più rimorsi.
La vita non era stata clemente con quei due, aveva strappato loro le persone che avevano amato e continuavano ad amare, ancor prima che potessero portare a compimento le vite meravigliose che aveva pianificato insieme.
Avevano due figli, due figli che erano le loro uniche ragioni di vita e per i quali si erano immaginati un presente ben diverso da quello che erano costretti a far loro vivere: l’uno senza madre, rimasto orfano sin da subito, l’altro che aveva un passato e un oggi confuso, cresciuto in una famiglia ora sin troppo allargata e che non era nemmeno certa di riabbracciare.
Regina lasciò a metà la cena e si alzò in piedi, gli occhi le prudevano incredibilmente, come le accadeva ogniqualvolta le lacrime fossero prossime a scenderle copiose lungo il volto.
“Regina?” domandò Robin, senza aspettarsi da lei alcuna risposta.
Lei continuò ad allontanarsi, camminando piano, ma senza smettere.
Si sentiva più in forze fisicamente, ma era soprattutto il timore di piangere di fronte a Robin per un motivo tanto intimo e personale come la mancanza di suo figlio Henry che la faceva continuare ad inoltrarsi nel bosco.
Lui la raggiunse e le mise delicatamente un braccio sulla spalla.
Lei si voltò, il viso madreperlaceo e lacrime calde che lo attraversavano, spezzando il cuore di entrambi.
“Sfogati con me, Regina, non ho intenzione di ferirti, di giudicarti, di farti alcun male. Non potrei mai farti soffrire” le disse lui, guardandola dritta negli occhi.
“Non posso” disse Regina, le lacrime a rigarle il volto, sfiorandole lentamente le guance.
Robin si voltò nella direzione della donna, cercando di capire che cosa non andasse in lei.
“Cos’è che non puoi fare?” gli domandò turbato.
“Lasciarmi prendere da tutto questo, non posso” ammise la donna, cercando di sfuggire dallo sguardo indagatore dell’uomo.
Iniziò a camminare, prima lentamente, poi sempre più veloce, inoltrandosi nel folto della foresta di Sherwood, cercando di non farsi raggiungere, sperando che Robin non la seguisse, che non seguisse l’ombra di una donna che aveva trascorso l’intera vita a mostrarsi forte, fin troppo, e che in quel momento non era altri che una donna fragile, spezzata.
L’uomo non la lasciò andare da sola, le camminava un paio di passi indietro, per rispettare il suo stato d’animo ma senza staccare lo sguardo da lei, dalla direzione che stava prendendo.
Ad un tratto, arrivata alla fine di un sentiero impervio che portava solo e solamente ad un precipizio, Regina fu costretta a fermarsi e a sedersi mesta su una grossa pietra poco più distante.
Si sedette e si portò le mani fredde e bianche sul suo volto, non sapeva davvero come affrontare quel momento, Henry le mancava ogni giorno di più e il dolore in certi frangenti era così insopportabile da mozzarle il respiro, fermarle la circolazione sanguigna nelle vene, o almeno a lei sembrava che andasse così.
Le mancava abbracciare il suo bambino, anche se tanto bambino non lo era più da un po’, stringerlo a sé e baciarlo amorevolmente sulla testa in un modo lento, dolce, come solo una madre sa fare.
Aveva passato notti lunghe, interminabili, a macchiare il giaciglio che aveva per letto, una branda scomoda in conforto a ciò a cui era avvezza, con le sue stesse, calde e inesauribili lacrime.
Ma ora, in quel dato istante, sembrava che le cataratte oculari si fossero seccate, che non ci fosse più nemmeno una sola goccia d’acqua calda e salata a bagnarle le guance, a scenderle lungo le labbra, a morire sul suo mento.
Non poteva lasciarsi andare, non ora, non c’era nessuno che avrebbe potuto consolarla, non c’era nessuno in grado di risollevarle l’animo; era in un angolo sperduto della foresta e molto probabilmente Robin l’aveva seguita.
E lei non aveva alcuna intenzione di mostrarsi debole dinnanzi a lui.
No, non se ne parlava nemmeno.
Non di fronte a lui che era pronto a soccorrerla con la stessa velocità con cui aveva tentato di derubarla.
Non di fronte a lui che si illuminava quando le sorrideva, che era pronto a cederle, con cavalleria, il giaciglio migliore, la tenda meno rattoppata, il boccone più tenero, il posto più vicino al fuoco e a lui.
No, non di fronte a lui.
Lui che, nonostante tutti i buoni propositi che aveva ripetuto almeno un milione di volte nella sua testa, non riusciva a restarsene a guardare indifferente quella donna soffrire, lui che nascosto dietro a quella quercia si sentiva morire nel vederla così, fragile, sola, rotta.
Lui che si stava avvicinando così piano da essere quasi invisibile e che, prima che uno dei due si accorgesse, si era già seduto accanto a lei, senza darle alcun segno dapprima, senza farle pesare la sua presenza a pochi centimetri l’uno dall’altra.
Lei che stava annullandosi a poco a poco, che aveva il cuore così infranto da non sentirlo più nemmeno pulsare nel petto, la testa così piena di pensieri ed emozioni, di illusioni incompiute e dolorose a dipingerle la mente confusa, la mente che stava pian piano sbiadendo, i pensieri a sfuggirle come la sabbia tra le dita.
Le accarezzò i capelli corvini, per una volta sciolti, semplici, senza pettinature complicate, come piacevano a lui, erano lucidi e morbidi, profumavano di fiori, un profumo leggero, avvolgente, per nulla fastidioso, di campanule, quei fiorellini piccoli che coloravano i prati delle brughiere tutte le primavere, dopo il disgelo invernale.
La donna non oppose resistenza, lo sguardo perso nel vuoto a fissare il nulla davanti a sé, il precipizio davanti ai suoi occhi che sembrava chiamarla, pronto ad abbracciarla, solo pochi passi e un salto, pochi passi e un salto e il suo dolore avrebbe avuto fine.
Sapeva che non avrebbe nemmeno dovuto pensarlo, che quell’idea era sbagliata, ma le sembrava una prospettiva allettante, quasi felice, soffocare i suoi dispiaceri e la sua vita in un colpo solo.
Dopotutto aveva già provato quella sensazione in passato, la ringhiera aveva ceduto alle sue spinte e il buio l’aveva inghiottita, quasi inghiottita, se solo quella fata ficcanaso non si fosse frapposta tra lei e l’abbraccio della sorella morte.
Fece per alzarsi da terra, ma qualcosa o meglio qualcuno la trattenne, si voltò bruscamente e realizzò improvvisamente di non essere sola, che Robin le stava accanto, seduto vicino, troppo vicino.
I volti, i respiri, le spalle, i cuori, tutto era troppo prossimo a lei, ma non la soffocava, non le faceva male questa vicinanza, ma solo paura, tanta.
“Perché sei qui?” gli chiese come ridestata da un profondo sonno.
Robin strinse le spalle, non sapendo cosa dirle.
“Avevo solo bisogno di sapere che fossi al sicuro, nient’altro. Non volevo darti fastidio o farti soffrire di più, avevo … solo la necessità di starti accanto senza urtarti” disse semplicemente.
Regina rimase come bloccata, stupita, senza parole da pronunciare.
Respirò profondamente, chiuse gli occhi e quando li riaprì, indossava nuovamente la maschera che una volta era appartenuta alla Regina Cattiva.
“Non c’era alcun bisogno che mi seguissi, non ce n’era affatto” mormorò lei a denti stretti, mettendo le distanze.
Robin si rabbuiò: ormai aveva imparato a conoscerla, a volerle bene, persino ad amarla o forse non ancora, a volte non ne era del tutto certo nemmeno lui.
Aveva capito però che c’erano delle volte in cui sembrava essere capace di leggerle dentro, in ogni singolo e sperduto angolino dell’anima e altre in cui gli sembrava di non conoscerla affatto, che fossero in tutto e per tutto degli estranei che vivevano nello stesso luogo e nello stesso tempo, ma null’altro di più.
E anche se faceva finta di nulla, se fingeva che non gli pesasse, che non fosse così importante, lui soffriva, soffriva nel vederla fare un passo avanti e due indietro in quegli istanti e mentre il momento prima sembrava che fossero prossimi ad avvicinarsi, quello seguente lei appariva più lontana e fredda che mai.
Amarla era semplice, capirla invece no, era estenuante, difficile, una vera e propria faticaccia, ma mai tempo perso, mai, nemmeno per un solo istante aveva pensato che starle vicino fosse uno sbaglio.
“Lascia almeno che ti aiuti a rialzarti, Regina” le porse la mano destra nel tentativo di mostrarsi galante e comprensivo.
Scoprì leggermente il braccio, tendendole la mano e Regina rabbrividì di fronte alla vista del tatuaggio.
Il tuo vero amore è lì dentro, in quella taverna, devi cercare l’uomo con il tatuaggio del leone”.
Le parole di Trilli le riecheggiavano nelle orecchie ad un ritmo martellante e disperato.
“Il tatuaggio del leone, non è possibile” pensò Regina, ritraendo la mano.
Si rialzò in piedi, rifiutando l’aiuto di Robin e si incamminò verso la tenda.
“Domani mi porterete all’accampamento e poi da lì, ciascuno di noi due seguirà strade diverse” disse a voce alta la donna.
Robin rimase come sbigottito.
“Che vi è successo? Perché non mi guardate negli occhi?”.
Le sue domande restarono senza risposta, la donna era ormai lontana, a pochi passi dalla tenda.
Vi entrò, voltò le spalle al fuoco e a Robin e finse di dormire, ben conscia del fatto che quella notte non avrebbe chiuso occhio.

NdA:
Ora Regina sa chi si trova davanti, ma è spaventata e pronta a sfuggire per la seconda volta ... Robin la lascerà andare?
Lo scoprirete la prossima settimana!
Intanto vi invito a scrivermi qualche parere, a parlarmi di come vi sembrino loro due insieme in Ouat (io ovviamente li adoro) e di quello che vi passa per la testa.
Alla prossima
lulubellula

 
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Once Upon a Time / Vai alla pagina dell'autore: lulubellula