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Autore: icered jellyfish    04/04/2014    12 recensioni
[ Modern!verse – AU!Modern | Ambientato in un coffe shop | Hiccup x Astrid ]
Non smise mai di recarsi lì, però, perché per quanto ci avesse pensato, qualche volta, l’idea di saltare anche solo un giorno – di mancare anche solo una timbratura sul suo invisibile carnet – gli sembrava una decisione sconsigliabile ancor più di prendere seriamente in considerazione la possibilità di smettere di frequentare il Binario 11 – di smettere di frequentare astrattamente Astrid – e, trascinandosi così dietro il peso di una scelta che preferiva ignorare, le giornate che fino ad allora lo avevano distanziato dall’incontro con la sua laurea, si ridussero a una. Una soltanto.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astrid, Hiccup Horrendous Haddock III
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Un mese di tè







C A P I T O L O   U n i c o

Un mese di tè







Di sicuro la pioggia non era la sua condizione climatica preferita, ma il tempo iniziava realmente a scarseggiare e lui doveva sfruttarne ogni ritaglio per potersi recare in biblioteca al fine di ottenere un po' di pace durante lo studio della sua tesi di laurea.
Cinque anni di architettura erano stati lunghi ed interminabili, ma ora era contento di essere arrivato finalmente al termine di quella folle e disperata corsa – che sperava con tutto il cuore di concludere nel migliore dei modi.
Spilli d'acqua continuavano a battere sulle sue spalle e sulla sua testa coperta dal solo cappuccio della felpa – probabilmente era il terzo ombrello del mese, quello che aveva appena perduto – e, per quanto stesse correndo con tutte le sue forze verso la fermata della metropolitana, quell'incessante acquazzone iniziava a risultare un po' troppo aggressivo e pressante per poterlo sopportare più a lungo di così.
D'improvviso scorse le porte in vetro di un bar in stile londinese alla sua destra e, senza pensare troppo a lungo a quale altra alternativa potesse avere, ci si fiondò dentro di tutta fretta.
Respiri affannati accompagnarono la graffiante sensazione che sentiva in gola per via dell'estenuante corsa che l'aveva ormai piegato su se stesso – costringendolo a chinarsi appena, appoggiando le mani sulle ginocchia per sorreggere la sua stanchezza.
Sguardi indiscreti si posarono sulla sua figura completamente fradicia, ma Hiccup non se ne curò più di quanto avrebbe fatto qualcuno di più permaloso di lui – dopotutto non poteva negare che la sua entrata in scena, in quelle condizioni per di più, potesse indubbiamente catturare l'attenzione anche del meno curioso.
Ritirandosi in su con la schiena ed emettendo l'ultimo profondo affanno, cercò di ritrovare un po' più di contegno nella sua presenza – anche se gli abiti bagnati non si sarebbero asciugati alla stessa velocità –, abbassandosi successivamente il cappuccio sulle spalle e scuotendo leggermente i suoi castani capelli – tra i quali si potevano intravedere due piccole treccioline.
Si avvicinò allora al banco dei caffè, dove il barista che vi stava dietro tentava di trattenere un innocente sorriso nel mentre che lo guardava.
«E' un problema... Se mi siedo così?» gli domandò con ancora un po' di ingestibile dispnea nel tono di voce.
L'uomo – sulla quarantina, ad occhio e croce – nel mentre che continuava ad asciugare il bicchiere che aveva in mano, gli riservò un ampio sorriso scuotendo la testa – il baffetto scuro che sovrastava le sue labbra gli conferiva un aspetto tipico del sud Italia.
«Scegli pure il posto che vuoi» si limitò poi a rispondergli – con un'aria che Hiccup non sapeva se definire più simile a quella di un confidente di fiducia, o di un uomo di mondo che ha deciso di prenderti sotto la sua ala. Ricambiò tuttavia il sorriso, dirigendosi dunque verso un tavolo vuoto appena affianco alle postazioni con i divanetti attaccate alla vetrata del locale.
Abbandonando con noncuranza il suo zaino di stoffa beige sulla sedia vicina, si accasciò su quella che aveva riservato per lui – sciogliendosi completamente sul piano freddo del tavolino. Ricomponendosi subito dopo, prese in mano il menù in carta riciclata che si era ritrovato sotto le mani, non prestandoci però una reale attenzione, dato che la sua scelta era certo sarebbe ricaduta su un semplice caffè al ginseng.
Un cameriere dall'aspetto straordinariamente simile all'uomo di prima al bancone, si avvicinò a quel punto al tavolo accanto al suo – con un vassoio sul quale erano poggiati una teiera d'acqua calda fumante, una tazza e una decina di bustine di tè.
Si accorse solo allora della ragazza che gli sedeva vicino, ai divanetti adiacenti alle ampie finestre; una giovane dall'aspetto non troppo distante dal suo – avrà avuto probabilmente un paio d'anni in meno e neanche –, con una pelle talmente liscia da risultare irreale, costellata da fini lentiggini solamente sul suo piccolo naso dalla linea morbida. Folte ciglia, lunghe e nere, facevano da contorno ad un paio d'iridi che parevamo zaffiri fusi e iniettati con forza in quegli occhi dal taglio grande e affusolato – espressivi come pochi ne aveva visti fino ad allora –, ma la cosa che più lo colpì di lei, furono i suoi capelli coloro oro, talmente brillanti da sembrare una cascata di preziosità tessuta in fili aurei e incredibilmente surreali. Li teneva legati in un'acconciatura particolare, che si intrecciava lateralmente in una trama complessa e articolata – ed erano straordinariamente ordinati, in quel risultato che teneva la lunga chioma allacciata in se stessa.
Il cameriere le porse teiera e tazza, chiedendole al ché di scegliere la bustina che più preferisse, e le cose a quel punto divennero interessanti. La biondina prese infatti uno di quei piccoli pacchetti senza prestare troppa considerazione a quale sarebbe stata la scelta migliore per gustarsi un caldo momento in una giornata uggiosa come quella, ma non fu certo il suo disinteresse a riguardo, a richiamare l'attenzione di Hiccup.
Dopo aver ringraziato con un dolce sorriso il cameriere, probabilmente la logica avrebbe voluto vederla versare l'acqua nella tazza e inzuppare il filtro di foglie di Assam e Camellia, ma i susseguimenti furono invece altri; dopo aver riempito la tazza, la ragazza aprì infatti la borsa che teneva vicino a lei, per poi inserire dentro la bustina di English breakfast ed estrarne un'altra – aprendola e utilizzando dunque quella.
La lasciò affogare per non più di dieci secondi – immergendola ripetutamente per esattamente sette volte – e, subito dopo, con quasi una certa fretta addirittura, la estrasse per poggiarla nel piattino della teiera.
Hiccup si lasciò sfuggire un nota di divertimento nel suo sorriso, ma fortunatamente lei non se ne accorse, continuando la composizione di quella che sembrava essere la procedura perfetta per ottenere il tè di suo gusto – aggiungendo due bustine di zucchero di canna.
Curiosa. Pensò semplicemente che fosse curiosa sia nel suo aspetto, che in quella che poteva pensare essere una sua piccola abitudine.
Cercò di scorgere il nome della bustina che aveva utilizzato; era viola, ma le scritte erano troppo piccole per poter essere decifrate.
Il giorno prima Hiccup non aveva fatto caso a quale fosse il nome del bar, ma la mattina successiva si ritrovò ad osservare lo zerbino d'accoglienza che riportava la stampa Binario 11 – esattamente come la dicitura bianca impressa in Georgia sul vetro della porta.
Varcò nuovamente quell'entrata, alla stessa ora della prima volta – e non sapeva con precisione perché fosse ritornato lì ancora, ma doveva ammettere che il caffè di quel posto era davvero ottimo.
«Oggi vestiti asciutti, ragazzo?» si sentì interrogare con simpatia sull'istante.
Incurvò la linea delle sue labbra al solito barista – nonché colui che gli aveva appena rivolto la domanda e probabilmente proprietario del posto – e si avvicinò dunque al banco dietro al quale era intento ad asciugare un bicchiere – uguale a quello del giorno precedente, tanto che la scena risultava agli occhi di Hiccup assolutamente identica, come se non si fosse mai interrotta.
«Il Sole oggi ha graziato il mio viaggio in biblioteca» gli rispose una volta davanti a lui e appoggiandosi sul piano in marmo nero.
Una piccola risata scappò dalla bocca dell'uomo – e la sua dentatura era straordinariamente simile anch'essa a quelle tipiche degli uomini dell'Italia meridionale, probabilmente doveva avere ramificazioni parentali collegate a quella terra, o doveva addirittura essere la sua d'origine.
«Cosa studi?» indagò per circostanza – o per reale interesse, Hiccup non seppe dirlo, ma tutto sommato non gli dispiaceva il uso interesse nei suoi confronti e degnarlo di una risposta lo trovava sinceramente opportuno.
«Architettura, sono alle prese con lo studio della tesi ora. Tra un mese mi lancio in piazza» ironizzò sul vero, e altrettanto ironica e divertente fu la replica di Ben – così doveva chiamarsi il barista, vista la targhetta dorata di riconoscimento che portava a sinistra sul petto – che simpaticamente punzecchiò la realtà più popolare del loro periodo.
«Perfetto, così potrai iniziare la tua carriera di lavapiatti qui da me».
Nel tanto che la sua mente raggiunse tristi lidi lontani – che riguardavano la fastidiosa e preoccupante crisi economica mondiale –, Hiccup abbozzò un satirico e amareggiato sorriso che sottolineava la sua più completa concordia su quella provocazione sarcastica.
«Vado prender posto allo stesso tavolo di ieri» disse poi, scambiandosi un ultimo sguardo complice con Ben e allontanandosi.
Non sapeva come fosse possibile, ma quell'uomo – per quanto fosse solamente la seconda volta che lo incontrava – era in grado di avere una notevole influenza sul suo umore e sul suo sentirsi a suo agio lì dentro – avvertiva chiaramente una sintonia che, anche quella volta, glielo aveva fatto sembrare una specie di titolare, uno di quelli confidenziali, uno di quelli con cui potevi sentirti socio e collaboratore, e non schiavo/dipendente.
Risedendosi dunque allo stesso posto del giorno prima, ripercorse con gli occhi con nullafacenza il pavimento a scacchi neri e bianchi, finché non si ritrovò catturato dalla presenza di qualcuno accanto a lui – in un punto preciso del locale.
Era la ragazza della volta scorsa e, esattamente come l'aveva lasciata, se ne stava ancora silenziosamente in disparte a scorrere il dito sul tablet che aveva poggiato sul tavolo. Ancora, i suoi capelli erano raccolti in una complessa e al tempo stesso morbida treccia che non poteva fare a meno di pensare le donasse particolarmente – come se nessun'altra acconciatura avrebbe saputo renderle più giustizia di così.
Poggiò una guancia sulla mano – sorreggendosi col gomito sulla superficie del suo tavolo – e rimase a guardarla senza preoccuparsi di cosa avrebbe potuto pensare se solo si fosse girata e si fosse riscoperta osservata in quel modo decisamente inappropriato, da parte di uno sconosciuto quale era lui, ma i suoi occhi erano incollati sullo schermo dell'aggeggio elettronico che teneva al suo fianco e, per quanto difficile fosse riuscire a capire cosa stesse leggendo, l'impostazione stilistica e grafica di quella pagina fatta di milioni di piccoli pixels, lasciava intendere si trattasse probabilmente di qualche eBook.
Il cameriere che l'aveva servita anche la volta precedente, a quel punto, si avvicinò al suo tavolo e le porse anche in quell'occasione una teiera riempita di acqua calda, una tazza e le domandò di scegliere una delle bustine di tè che le stava offrendo. Come un dejavù, Hiccup si ritrovò a rivivere la stessa scena, nella quale lei prese uno di quei piccoli pacchetti – continuando a non mostrare interesse per quella scelta – e lo infilò nella sua borsa, la stessa dalla quale estrasse successivamente un altro filtro – ancora una volta, contenuto in un pacchetto viola.
Cercò di assottigliare meglio la vista, sinceramente incuriosito da quale potesse essere per lei il tè delizioso al punto da portarselo dietro in sostituzione di quello del bar – come se nessun altro gusto fosse in grado di equiparare quello, come se al mondo non potessero esistere note più squisite di quelle, da rilasciare in una tazza d'acqua calda.
Una, due, tre, quattro, cinque, sei e sette inzuppate – per un totale di dieci secondi esatti scanditi dall'orologio che Hiccup aveva al polso – e l'intruglio finì così il suo bagno, per poi venir depositato sul piattino della teiera a prosciogliere la sua colorazione rossastra sul bianco della ceramica di questo.
Gli scappò un sorriso nel rendersi conto di aver appena assistito a quella che pareva essere allora una consuetudine per lei, ma prima che potesse continuare a studiare i suoi movimenti che strappavano e versavano un paio di bustine di zucchero di canna a completare il tutto, la figura di un secondo cameriere gli si parò davanti, chiedendogli quale fosse la sua ordinazione e portandogliela pochi minuti dopo.
Finito il suo caffè, Hiccup lanciò un'ultima occhiata alla ragazza – ancora completamente assorta nella sua lettura sul tablet – per poi recarsi al banco e pagare la sua consumazione.
Probabilmente la cosa sarebbe dovuta finire con lo scambio di denaro, resto e scontrino, ma qualcosa dentro di lui continuava a suggerirgli indistintamente che la sua curiosità doveva trovare una risposta, anche vaga, alla domanda che si era posto appena accortosi che quella testolina bionda era lì anche oggi, alla stessa esatta ora del giorno prima.
«Chi è lei?» si azzardò dunque a chiedere con riservatezza a Ben.
Col suo solito bicchiere passato e ripassato nello straccetto tra le mani, Ben rivolse una fugace occhiata alla diretta interessata, per poi abbozzare un ampio sorriso – bianchissimo, illuminante, e ancora una volta Hiccup si ritrovò a pensare a quanto quel dettaglio contribuisse ad accostare l'uomo all'aspetto fisico di quelli del sud Italia. Aveva visto diversi film ambientati nella calda Sicilia, e Ben pareva assurdamente essere uno di quegli attori appena uscito dalla pellicola.
«So solo che si chiama Astrid e che viene qui tutti i giorni alla stessa ora, niente di più» gli rispose dunque.
Hic strinse le labbra tra loro, fino a risucchiarle e farle sparire tra i denti. Improvvisamente non fu più così sicuro di quella sua uscita verbale, tanto che dell'imbarazzo iniziò a colorare le sue guance senza che lui potesse fare nulla per impedirlo – e, insensatamente, sperava che la massiccia presenza delle sue lentiggini potesse mascherare quella tonalità lievemente rossiccia.
«Prende sempre del tè caldo» osservò Ben, come se se ne fosse reso conto solo in quel momento, «e non l'ho vista usare mai una volta i nostri filtri. Ne porta sempre dietro uno suo».
«Ed è un problema?».
«No, affatto. E' molto silenziosa e ordinata, solitaria. E ha un bellissimo sorriso».
Non sapeva spiegarsene il motivo, ma quella puntualizzazione Hiccup la ricevette più come una raffinata provocazione nei suoi riguardi per vedere che reazione potesse suscitare in lui – e per quanto fosse stata fatta con simpatia e gialla investigazione, la maledisse per averlo costretto a scuotersi nervosamente i capelli con una mano.
«Che tè è quello che porta sempre con sé? E' sempre la solita bustina viola di ieri e oggi?» deviò dunque la piega del discorso, rifocalizzandola sull'argomento antecedente.
Percependo chiaramente il tentativo, Ben sorrise ancora senza indagare ulteriormente sulle sue motivazioni di interesse per quella ragazza, limitandosi dunque a rispondere semplicemente a quella banale domanda.
«Sì, è sempre la stessa bustina, ma non ho idea di come si chiami o a quale gusto sia».
Probabilmente Hiccup non avrebbe voluto fare così tante domande a una persona che non sapeva assolutamente chi fosse e su una ragazza che non conosceva nemmeno minimamente, ma ogni loro frase sembrava nascere in maniera così automatica e confidenziale che dentro di sé continuava a domandarsi per quale motivo si trovasse così tanto a suo agio con il responsabile di un bar che aveva iniziato a frequentare da appena due soli giorni – ma non gli dispiaceva affatto, però, quel feeling ricucito sul quel loro bislacco rapporto, tanto che, nonostante tutto, probabilmente sarebbe ritornato anche il giorno dopo.
Il pavimento del Binario 11 aveva esattamente duecento ottantaquattro mattonelle nere e duecento ottantatré bianche – le aveva contate, in quelle due settimane di attiva frequentazione nelle quali, più che prendere un caffè seduto al suo solito tavolo, non sapeva cos'altro fare – e, una nota di curiosità lo aveva spinto a domandarsi se i suoi calcoli, secondo i quali aveva dedotto il numero esatto di mattonelle nascoste dal bancone, fossero esatti come supponeva.
Lasciò scivolare la sua postura lungo la sedia, fino a farsi sorreggere completamente le spalle dallo schienale della stessa – emettendo un profondo respiro ad occhi chiusi rivolti al soffitto.
Era ancora lì intanto, lei; lei che lo aveva incatenato in quel posto senza che nemmeno lo sapesse – o così gli piaceva credere, per quanto fosse molto più probabile ipotizzare che si fosse accorta, in realtà, della sua costante presenza pochi tavoli più in là, ma sembrava così intensamente rapita da quella lettura di cui ancora non conosceva il nome, che Hiccup aveva deciso di cullarsi della presunzione di non aver dato nell'occhio.
E così continuava a recarsi lì, alle undici in punto della mattina, a bere un piccolo sorso di caffè al ginseng seduto su quella sedia – a farsi prendere visivamente in giro da Ben, che non mancava di scambiargli occhiate allusive capacissime di farlo sentire simpaticamente uno stupido che rincorreva l'impossibilità di riuscire a diventare più aperto e sicuro di sé, di avvicinarsi a quella ragazza che ora sapeva chiamarsi Astrid.
In fondo, però, doveva ammettere di non sapere come si fosse ritrovato così tanto coinvolto da quel principio di curiosità innestatosi nella sua testa giorni e giorni prima, da quella briciola di interesse che lo aveva spinto a trovare bizzarra e al tempo stesso interessante l'abitudine di Astrid di fare sempre la stessa ordinazione – per poi caratterizzarla con il suo tocco personale quale era la sua bustina di tè che ogni volta tirava fuori dalla borsa, quella bustina di tè viola il cui filtro lo stava sinceramente facendo impazzire con la colorazione forte e intensa che rilasciava nell'acqua bollente, ma che non era capace di suggerirgli né odore né sapore.
Una serie di eventi che lo aveva portato, infine, a trovare tutto così tanto curioso e stimolante da essere arrivato a considerare se stesso un completo incapace e un perfetto idiota, per essersi innamorato di qualcuno di cui non conosceva né voce né personalità – e non riusciva a fare a meno di rimproverarsi, per essere caduto nella ragnatela che da solo aveva tessuto, un po' per gioco un po' inerzia. Ma lo sentiva, l'amava, l'amava per quel suo piccolo naso lievemente rivolto all'insù, l'amava per la profondità di quei laghi artici che erano i suoi occhi – acqua gelida con infinite sfumature del cielo a riflettercisi dentro, a creare contrasti di freddo blu e tenue celeste in costante conflitto di prevalenza l'uno sull'altro. Amava quel piccolo vizio di portare l'indice e il medio dietro all'orecchio, come se ci stesse trascinando fastidiose ciocche di capelli che, in realtà, erano ottimamente in ordine in quell'acconciatura laterale – perfetta ogni giorno più di quello precedente, come se fosse la natura stessa a intrecciare ogni volta i suoi fili lucenti e dorati.
Gli piacevano le trecce; gli piacevano così tanto che erano anni, ormai, che portava costantemente quelle piccole due nella sua chioma – e la banalità che le aveva fatte nascere, la noia che lo aveva spinto in quel pomeriggio di un'afosa estate a sdraiarsi sul letto ad articolarle nel mentre che guardava il nulla, piuttosto che studiare, ancora lo ricordava.
Iniziò a giocherellarci, nel mentre che osservava, ancora una volta, l'ordinazione di Astrid giungerle al tavolo; teiera e tazza poggiati sul tavolo, una bustina scelta a caso, un sorriso di cortesia ed eccola estrarre, come al solito, il consueto pacchettino viola dalla borsa – con annesse abituali sette inzuppate.
Ci provava ogni volta, ad assottigliare la vista per cercare di scorgere – e soprattutto capire – la scritta bianca impressa sulla carta viola, ma per quanto vicini fossero, a quanto pareva non lo erano abbastanza affinché il nome di quel tè – che ormai era diventato per lui un peccato di gola irraggiungibile – gli risultasse chiaro e leggibile.
Giorno dopo giorno, Hic continuava a presentarsi al Binario 11 puntuale come mai lo era stato nemmeno per gli esami e per le lezioni universitarie – e il rendersene conto lo ricopriva di una certa ansia, considerati i pochi giorni che ormai mancavano alla data della sua tanto sudata laurea. Non riusciva però a fare a meno, di quel suo appuntamento che si era dato da solo con Astrid – senza che lei ne fosse a conoscenza, anche se ci partecipava inconsciamente ogni volta – e la mancanza di risultati in quel suo rincorrerla in maniera tanto improduttiva e sterile, non aiutava affatto quel suo sovreccitato periodo che aveva deciso di caricare anche di quell'impegno – di quell'imprevisto che in fin dei conti aveva strategicamente calcolato. Eppure poteva continuare a pensare quel che più preferiva a riguardo; che fosse un'assurdità, che fosse capitato nel momento sbagliato, che fosse tutto a suo sfavore – perché dubitava che tutta quella impacciata costruzione giovasse alla sua figura e reputazione –, ma, a forzata scongiura di tutti i lati negativi del suo comportamento, Hiccup non riusciva a fare a meno di smettere di recarsi lì ad aspettare che il destino iniziasse a gonfiare le sue vele – senza muovere un muscolo, senza sforzarsi più di così.
Ben non mancava di dedicargli frecciatine visive che Hiccup si ritrovava costretto a subire ogni volta, e si sentiva così vittima di quel sistema che aveva tirato su lui stesso, da vergognarsi di essere semplicemente un singhiozzo in una situazione che sapeva di non essere in grado di gestire fin dall’inizio.
Non smise mai di recarsi lì, però, perché per quanto ci avesse pensato, qualche volta, l’idea di saltare anche solo un giorno – di mancare anche solo una timbratura sul suo invisibile carnet – gli sembrava una decisione sconsigliabile ancor più di prendere seriamente in considerazione la possibilità di smettere di frequentare il Binario 11 – di smettere di frequentare astrattamente Astrid – e, trascinandosi così dietro il peso di una scelta che preferiva ignorare, le giornate che fino ad allora lo avevano distanziato dall’incontro con la sua laurea, si ridussero a una. Una soltanto.
L'ordinazione finalmente arrivò e il suo caffè tornò, come ogni giorno, a rilasciargli la sua fumante aroma sotto al naso – e solo in quel momento, Hiccup, si rese conto di un qualcosa che scattò nella sua mente come una razionale ma elettrizzante scintilla.
Rimase immobile con gli occhi puntati sul liquido scuro e cremoso all'interno della tazzina in ceramica bianca che aveva davanti; erano passati esattamente trentuno giorni da quanto aveva iniziato a fare il conto alla rovescia per l'arrivo della data in cui si sarebbe tenuto il suo esame finale – dal giorno che aveva messo per la prima volta piede dentro al Binario 11 – ed erano esattamente trentuno i giorni che aveva dedicato allo stare accanto a quella ragazza dal nome tanto inusuale almeno quanto il suo.
Un mese di lei, un mese di tè. Un mese del suo incognito tè di cui non era riuscito a scoprire null'altro oltre al colore della sua busta e alle sfumature che acquisiva l'acqua calda nella quale veniva intinto il suo filtro. Solo questo, niente di più – ma quel pretesto lo aveva portato a scoprire molto più di un semplice nome elaborato e stampato da una qualche azienda produttrice di tè e miscele. Astrid era solita usare sulle unghie delle mani uno smalto della stessa tonalità porpora della sua bevanda. Astrid sembrava non amare particolarmente i capelli sciolti – ne era probabilmente insofferente, addirittura, a giudicare dalla sua abitudine a cadenza regolare di riavvolgere dietro l'orecchio ciocche che in realtà non avevano mai osato sfiorarle il volto. Astrid aveva le sopracciglia esattamente di due gradazioni più scure rispetto all'oro predominante della sua chioma. Astrid aveva un incisivo centrale appena più sporgente dell'altro – ma questo, a suo avviso, non penalizzava in alcun modo il suo sorriso, a contrario, lo caratterizzava. Astrid era quanto di più umanamente comparabile alle acque degli oceani più incontaminati – degli oceani più puri e limpidi, più sani e vivi, perché i suoi occhi erano un'immensità di riflessi indistinguibili, abbaglianti e splendidi, esattamente come la superficie dei mari, esattamente come tutta l'incommensurabilità che il cielo ci rovesciava sopra.
Sorrise nel rendersi conto di quanti suoi dettagli avesse studiato e assimilato, e di sicuro il suo preferito era il delizioso rossore del quale le goti di Astrid si intingevano sempre, dopo aver bevuto il suo tè – e adorava come questo riuscisse ad addolcire ancor più i suoi già fini e delicati lineamenti.
Erano esattamente trentuno giorni che si sedeva lì, in quel punto preciso del bar, in quella sedia in particolare e a quel tavolo specifico. Con gli occhi ancora incollati sul suo caffè, trovò ridicolo come si fosse concentrato e immerso tanto nell'impresa di scoprire quale fosse il tè che Astrid era solita portarsi dietro per berlo lì al Binario 11 – e per quale motivo ne fosse così incantevolmente assuefatta da non rinunciarci mai – perché, in fondo, ripercorrendo rapidamente tutti quei paio d'ore che aveva passato ogni giorno lì dentro, non ricordava di aver mai chiesto nulla di diverso dal suo caffè al ginseng – e questo lo reputava assolutamente buffo, a conti fatti.
Non sapeva per quale motivo se lo sentisse, ma era certo di avere gli occhi di Ben incollati su di lui in quel momento – e alzando lo sguardo, si rese conto di non aver sbagliato con la sua presunzione.
Per un qualche strano motivo, Hiccup si sentì come se quell’uomo avesse guardato nella sua mente per tutto quel tempo, come se fosse a conoscenza di tutto quel che aveva pensato fino a quel momento, come se avesse letto ogni sua emozione, ogni suo dubbio, ogni sua curiosità – e non sapeva come classificare questa bislacca sensazione.
Ed ecco che gli rivolse un sorriso – uno di quei suoi soliti sorrisi mediterranei – e Hiccup ricambiò imbarazzato il gesto, perché quella gli risuonò precisamente come una conferma alle sue supposizioni che Ben era come se avesse sempre avuto e sfruttato la possibilità di insidiarsi nella sua testa per osservare tutto – come uno spettatore al cinema, con tanto di popcorn in mano. L'aveva avvertita fin da subito quella strana connessione con lui e, per quanto piacevole fosse sentire che qualcuno era in grado di capirti senza conoscerti davvero – con solo uno sguardo, con solo un gesto di solidarietà e qualche parola –, percepì una nota d'imbarazzo accarezzargli il volto, costringendolo a sorridere più ampiamente e nascondere il tutto tra le mani.
Era tutto così folle e insensato che non sapeva assolutamente come reagire nemmeno con se stesso – e Ben andava oltre l'umana concezione, perché era sicuro non potesse essere terreno.
Rise ancora più, silenziosamente, divertito dai suoi stessi e insensati vaneggiamenti, finché non si decise a rivolgere finalmente uno sguardo alla protagonista di tutto quello – al soggetto di quella frase disarticolata che erano quei trentuno giorni – e lei era ancora lì, Astrid era ancora lì, incurante di tutto ciò che le stava accadendo attorno, apparentemente disinteressata ad ogni cosa che non riguardasse il suo tè e il contenuto sul suo tablet.
Il solito cameriere le si avvicinò a quel punto, con il consueto vassoio con tazza, teiera e bustine di tè sopra. La classica routine incominciò a prender piede, e dopo averle dato la possibilità di scegliere il pacchetto che più preferisse, il ragazzo si allontanò per tornare nelle cucine.
Non sapeva per quale motivo avesse deciso di farlo – e chi fosse stato a spingerlo a compiere finalmente quel gesto di coraggio –, ma Hiccup si ritrovò improvvisamente in piedi sulle sue gambe, lontano dalla sua sedia, lontano dal suo tavolo, ad attraversare la trentacinquesima mattonella bianca del pavimento, la trentaseiesima nera e poi ancora la trentasettesima, per ritrovarsi, infine, davanti a lei, ad una distanza che non si aspettava di ridurre fino a quel minimo, tra di loro.
Per un secondo Astrid continuò a fare quel che aveva in previsione di fare, riponendo dunque la bustina di tè del bar nella sua borsa ed estraendone di conseguenza fuori la sua, ma, accorgendosi finalmente di lui, alzò dunque lo sguardo in sua direzione – bagnando le foreste delle iridi di Hiccup con l'acqua cristallina delle sue.
Continuando a guardarlo, movimenti istintivi la indussero a poggiare il pacchetto viola del suo tè sul tavolo – e Hiccup non poté credere a quanto chiaramente gli apparissero ora quelle scritte bianche in Times New Roman. Contrariamente a quanto aveva sempre supposto in tutti quei trentuno giorni di agognante curiosità, quello che Astrid era solita imbevere nell'acqua calda non era un tè, bensì un infuso. Un infuso all'uva nera e fragola.
Nel trovare divertente quella piccolezza che a lui appariva però molto più di questo –, cercò di trattenere quanto più ordinatamente possibile un mezzo sorriso, per poi ritornare a guardarla negli occhi, per continuare a guardarla ancora lì ad aspettare di capire cosa lui potesse volere da lei – e non gli importava più, a quel punto, di vedere quella stranezza nel suo sguardo e nella sua espressione, perché ormai era lì e finalmente le avrebbe parlato.
«Ciao».






F I N E




    » N O T E    A U T R I C E ;

Gh. Gh gh. Non so cosa dire, NON SO COSA DIRE! Amo questa fanfiction, e a costo di risultare superba e arrogante, non mi priverò il diritto di dire che è la mia fanfiction preferita in assoluto – e non solo tra quelle che ho scritto io. x°
Mi piace da morire, mi piace l'idea, mi piace la scelta del titolo a doppio significato, mi piace come l'ho strutturata, mi piace la cadenza tempistica che le ho voluto dare... Mi piace! Mi piace e basta, e ci ho dedicato così tanto amore, interesse e cura, che spero proprio si sia percepito – ogni singola riga, giuro, è intrisa della più concentrata attenzione al dettaglio, della più intensa valutazione sulla scelta dei termini e di ciò che volevo trasmettere.
Io spero, spero con tutto il cuore che vi possa essere piaciuta almeno quanto piace a me – e quanto mi è piaciuto elaborarla e scriverla.
Il Binario 11 è in realtà un bar che esiste realmente qui a Milano, dove abito io, e trovavo il nome fin troppo carino per non riutilizzarlo – così come trovavo fin troppo carino lo stile londinese/Harrypotteriano del locale, per non ispirarmici.
Confidenzialmente – ma nemmeno troppo, visto che lo sto scrivendo pubblicamente. x° – devo confessare che l'idea è nata proprio durante un mio pomeriggio assieme a Mania trascorso al Binario 11; avevamo difatti ordinato entrambe un tè caldo ma, avendo appena comprato un paio di scatole di tè, abbiamo preferito usare i filtri una di queste piuttosto che quelli scelti per l'ordinazione – e così ho iniziato a vaneggiare col mio cervellino fino a sviluppare l'idea che ha fatto sì che questa storia prendesse vita.
Tutte le bustine che Astrid sceglie in accompagnamento col tè – e che puntualmente infila in borsa –, avrei voluto avessero più significato di così, e per un attimo ho seriamente pensato di allungare il brodo inventandomi qualcosa a riguardo, ma alla fine ho pensato anche che tutto avrebbe preso pieghe sbagliate, distogliendo l'attenzione dal centro della storia – dal punto focale –, così, ho lasciato che rimanessero anonimamente di passaggio. x°
L'infuso che invece si porta da casa, quello all'uva nera e fragola, così come il bar, esiste realmente anch'esso – ed è tipo la bevanda di cui mi sono drogata quest'inverno e di cui continuo a drogarmi, di tanto in tanto, nelle giornatine più fredde hahaha. Provatelo, è davvero buonissimo e si reperisce facilmente in qualunque supermercato.
Ben. Parliamo di Ben, ora. Questo personaggio in realtà non ha così importanza come ho lasciato intendere, ma ho pensato che dare parecchio spessore anche ad un personaggio secondario, avrebbe reso tutto molto più verosimile – oltre che più carino, o almeno credo. In realtà ha avuto quasi più consistenza lui di Astrid, in un certo senso haha, ma anche qui è stata una cosa premeditata – dato che Astrid l'ho volutamente raffigurata come una perfetta estranea per tutto il racconto, essendo che è lei l'obiettivo da raggiungere e doveva dunque rimanere, nei limiti, distante.
Per quanto io abbia sottolinato diverse volte che Ben appare fisicamente come un uomo presumibilmente siciliano – o con comunque discendenze di quella terra –, non c'è un vero motivo per il quale io abbia voluto riproporlo così; semplicemente – figurandolo istintivamente nella mia mente – l'ho subito immaginato con tale aspetto, e così ho dunque voluto presentarlo.
Il fatto che il giorno successivo, alla fine di tutto, Hiccup dovesse sostenere l'esame di laurea, è una cosa assolutissimamente soppesata, e non solo perché ho voluto scandire bene lo scorrere del tempo, ma anche perché ho voluto accostare due importanti risvolti per la vita di Hic; riuscire a parlare ad Astrid e ottenere appunto la laurea – e il primo ha avuto modo di esistere soprattutto per via del secondo, dato che Hic, anche se non l'ho specificato, spero si sia percepito abbia pensato una cosa tipo 'o la va o la spacca', come se fossero scesi tutti i granelli della clessidra non solo per l'attesa all'esame finale, ma anche con lei.

Bbbene, penso che sia tutto. Come ho già detto, mi stra auguro che la storia vi sia piaciuta – e se voleste lasciarmi un commento, anche piccino, io potrei schizzare in aria fino a toccare il cielo con un dito, davvero. x°
Nessun obbligo comunque, a vostra discrezione e buon cuore! Grazie infinite, intanto, per le letture e alla prossima. ♡


© a u t u m n
   
 
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