“He was really a
gentle guy, very kind.
That’s what I
remember most about him, just his kind and thoughtful nature.”
— Mark Lanegan
Last One in the World –
Mark Lanegan
{Goodbye, my friend, thank you
for the dream}
Poche cose riescono a far sentire Mark Lanegan in pace con se stesso: una di queste è la notte.
Adora sentirla scivolare sinuosamente tra
le pieghe della giornata e strisciare lenta sul pavimento, per poi avvolgerlo
come una di quelle coperte in cui sua madre era solita infagottarlo quand’era
ammalato.
Mark ogni volta si diverte a fingere di
farsi cogliere di sorpresa dal buio, come se questo rito infantile gli
permettesse di godersi ancor di più la quiete e la totale immobilità che questo
riesce sempre ad arrecargli.
Non oggi, però.
Una bottiglia vuota di whiskey giace
abbandonata sul tavolino mentre, sul divano, l’uomo se ne sta raggomitolato
come un riccio nel bel mezzo della statale all’ora di punta: non c’è nessun fantasma sacro a cui offrire una bevuta,
no… ci sono solo Mark, un’emicrania sul punto di esplodere con grande fragore e
una manciata d’immagini che gli scorrono in loop di
fronte agli occhi, quasi fossero un vinile impazzito che continua a saltare.
Sono le polaroid mentali di un amico, una
delle poche cose a cui possa aggrapparsi in questo momento.
L’unica
cosa, probabilmente.
Le lettere che riempivano costantemente la sua
cassetta della posta e che riuscivano sempre a metterlo a disagio… i
complimenti lo imbarazzavano sempre, specie se venivano da quel tipo che diceva
di essere un suo fan sfegatato.
Mark non ha mai creduto a tutte quelle
stronzate paranormali… ad essere sinceri – nulla da ridire sulla Moore, eh! – Ghost gli ha pure fatto cagare.
Quel giorno trascorso in compagnia sua e di Dylan Carlson a travestirsi da checche – inutile dire che lui stesse
benissimo anche vestito da donna… non si poteva però dire lo stesso di Mark,
che avrebbe potuto vantare parentele con svariati viados sudamericani.
Ma allora come spiegarsi il ventisettenne
evanescente che lo sta sbirciando dallo stipite della porta?
I pomeriggi passati ad ascoltare Lead Belly e quelli spesi ad incidere le sue canzoni… chissà che
fine avevano fatto quei cazzo di nastri.
“Sono ubriaco marcio e tu non sei
veramente qui… vattene” Mark biascica stanco, dando le spalle alla figura
trasparente che ora si sta facendo più vicina.
“Andiamo a fare due passi, Mark.” lo
sprona quello, e in men che non si dica i due sono già fuori di casa. Mark non
sa come ci sia arrivato.
Quella volta in cui era andato a trovarlo al The
Sorrento Hotel, si erano messi a guardare la tv insieme ed era partito il video
di Smells Like Teen Spirit; lui
si era incazzato come una bestia e aveva scagliato una delle sue scarpe sul
televisore con tutta la forza che aveva in corpo… poi l’aveva spenta, e giù in
strada l’autoradio di una macchina aveva iniziato a spararla a tutto volume,
mentre lui non aveva potuto far altro
che cacciare un urlo ricolmo di fastidio e rigettarsi sul letto, un cuscino ben
premuto sulle orecchie.
I due camminano fianco a fianco lungo la
strada deserta: nessuno osa alzare lo sguardo o interrompere il silenzio con
qualche futile parola, per cui ciascuno si limita a concentrarsi sul flebile
rumore che le loro suole delle scarpe producono a contatto con l’asfalto, la
gramigna e i sassi.
Almeno, questo è quello che fa Mark.
Telefonargli e non ricevere risposta,
riagganciare e tentare di nuovo, sperando di avere più
fortuna,
ma nulla,
riprovare e capire che ha appena lasciato la cornetta
alzata…
mollare un pugno al muro.
Ci sono tante cose che vorrebbe chiedergli
in questo momento, ma non lo fa; probabilmente ha paura che venga
immediatamente inghiottito dall’oscurità – in fondo questo passeggiare silenzioso
gli piace – ma ha anche la convinzione che porgli queste domande non cambierà
nulla… forse già le conosce.
Smontare al volo dalla macchina di Van,
schivare quella manica di stronzi dei reporter con i
flash già schierati,
entrare e trovare Novoselic
paralizzato con la mano di lui stretta tra le sue,
Courtney che faceva scegliere agli ospiti una delle sue chitarre da
portarsi via,
la sua
testa appoggiata sul cuscino e sistemata
alla bell’e meglio…
la voglia di vomitare anche l’anima nel primo vaso a
portata di mano.
Mark alza la testa e lo sbircia di sottecchi; ormai però è buio pesto e-
“Stai cercando di vedere se ho ancora il
buco in testa, eh?”
L’uomo sussulta e arrossisce violentemente,
bofonchiando velocemente qualche scusa inventata sul momento, mentre l’altro si stringe nelle spalle e
continua a camminare come se niente fosse.
“Pensavo non t’importasse…” continua
quello, e Mark stavolta non prova a discolparsi. È vero, voleva vedere se il
buco era ancora là.
“Vabbè… siamo arrivati.”
Solo ora Mark si accorge di essere
arrivato a casa sua; lo segue dentro
con riluttanza, lo osserva sedersi sul parquet, incrociare le gambe e
sprofondare ancor di più nel maglione verde e marrone – le maniche
rigorosamente bucate per accogliere meglio i pollici – e persino piangere un
po’.
Dopo una decina di minuti si rialza e lo
raggiunge sullo stipite della porta, e Mark non può far altro che stupirsi
quando la sua mano non rimane a mezz’aria ma riesce ad incastrarsi
perfettamente nell’incavo della sua spalla,
com’era solita fare un tempo.
L’altro accenna un breve sorriso e, con
suo grande piacere, accetta l’invito silenzioso a non sprecare malamente quella
notte tanto strana quanto inaspettatamente complice.
Uscendo, i due evitano di passare accanto
alla serra.
Sono ormai le cinque di mattina e a
Seattle il sole sta per sorgere: i due hanno camminato tutta la notte, ma Mark
non sente alcuna traccia di stanchezza. Un brutto presentimento, però, quello
sì.
In cuor suo sa che il tempo a loro
disposizione sta per volgere al termine, ma non vuole pensarci nemmeno per un
secondo.
Eppure è difficile… come non pensare alla
notte appena trascorsa insieme? Come non chiedersi se sia lecito o meno condividere
questo momento con qualcun altro o tenerselo soltanto per sé? Come non
domandarsi se tutto questo abbia un senso o se sia soltanto un effetto
collaterale che l’alcool e il lutto hanno prodotto in società?
I due si fermano dopo un po’: il
fiumiciattolo vicino a casa di Mark scintilla di scaglie rosee e vermiglio,
riflettendo gli sporadici baluginii delle ultime stelle che stanno per
ritirarsi.
Mark ama la notte, questo è vero, ma sa
apprezzare con altrettanta intensità anche l’alba.
“Beh, allora ci si vede, ok? Stammi bene”
la figura al suo fianco se ne esce fuori tutto d’un tratto, lasciandolo
spiazzato.
Mark si gira di scatto e l’ultima cosa che
vede, prima che Kurt si dissolva tra le pieghe della notte, sono le sue
fossette.
L’uomo distende a sua volta le labbra: in
quelle minuscole curve forse c’è tutto quello che Kurt ha sempre cercato e che
la notte è finalmente riuscita a fargli ritrovare.
Note autrice
Ci sono alcuni lati di
Kurt Cobain che mi lasciano sempre parecchio sconcertata: la sua incomprensibile
avversione verso alcune persone – Jeff Ament dei
Pearl Jam, giusto per citarne uno a caso – o band che non gli avevano fatto un
cazzo, l’atteggiamento talvolta arrogante che riesce puntualmente nell’intento
d’infastidirmi fino all’inverosimile, la continua crociata ipocrita contro il mainstream a cui egli stesso apparteneva… ma oggi ho
cercato di mettere da parte questo mio rapporto ambiguo con lui e di
concentrarmi sul modo in cui uno dei suoi più cari amici lo ha sempre visto.
Io ho ancora in mente la
faccia che Lanegan a novembre ha fatto quando ha
guardato il mio maglione a righe nere e rosse, e posso assicurare che per una
frazione di secondo mi sono sentita letteralmente stringere il cuore e mi sono
mentalmente data della stronza per aver scelto d’indossare quel particolare
capo d’abbigliamento. Poi però m’è passata, perché Grumpy
Mark m’ha rivolto un sorriso meraviglioso ma questa è decisamente un’altra
storia e devo piantarla di rompervi le balle raccontandola in qualunque
occasione, ecco.
Mark è noto per la sua
avversione verso il mondo giornalistico e, in particolar modo, verso le domande
riguardo Kurt e Layne (penso di essermi passata millemila
siti per trovare la citazione a inizio capitolo, UNA FATICACCIA) ma questo non
toglie il fatto che egli sia stato legato ad entrambi da una fortissima
amicizia.
Chiunque parli di Mark
lo descrive come una persona timidissima ma altrettanto dolce, e io sono sicura
che fossero proprio questi i fattori che hanno contribuito a farlo avvicinare
così tanto a Kurt.
D’altronde è stato
proprio Cobain a fare il primo passo: fan sfegatato degli Screaming
Trees, sommerse continuamente Mark di lettere finché
questi non si decise ad incontrarlo… e beh, da lì in poi la storia la sapete.
La collaborazione più
famosa che questi due fecero è Where Did You
Sleep Last Night? (con Cobain alla chitarra e
cori e Novoselic al basso) che finì su The Winding Sheet, il primo album solista di Mark. (friendly reminder per
tutti i fan dei Nirvana che non si cagano di striscio gli altri artisti di
Seattle e dintorni di quell’epoca: Grohl e lo
stesso Cobain hanno dichiarato che, se non fosse esistito quest’album di Mark,
l’Unplugged dei Nirvana non sarebbe
mai venuto alla luce. Peace.)
La canzone che fa da colonna
sonora a questo scritto è Last One in the World, quello che ritengo essere il mio secondo
brano preferito di Mark; Lanegan – in un
atteggiamento tipicamente suo, c’è da dirlo – non ha mai dichiarato di averlo
scritto per Kurt, ma credo che chiunque possa avere quest’impressione dopo
averlo ascoltato.
Concludo dicendo che ‘sta
sottospecie di fanfiction non mi soddisfa poi così
tanto – fatico a scriverne su gente che non adoro particolarmente, questo è un
dato di fatto – ma sentivo una sorta di obbligo nei confronti del ventesimo
anniversario della morte di Kurt… e poi la canzone di Mark ha fatto tutto il
resto.
Spero che non sia
totalmente oltraggioso, e ringrazio anticipatamente chi si prenderà la briga di
leggere e, perché no?, magari di lasciare un commento :’)
Bacioni,
Dazed;