2. VERITÁ E BUGIE
You believe, but what
you see?
–
Amaranth,
Nightwish –
Ogni
domenica, come ogni vedova
che si rispettasse, Madame Carlyle si recava al cimitero appena fuori
Medilana
per onorare la memoria del defunto marito.
Portava
sempre con sé un mazzo di
fiori freschi e una moneta d’argento da consegnare al figlio
del custode
affinché si premurasse nella settimana successiva di tenere
in ordine le aiuole
che circondavano la cappella. Non possedeva il titolo di lady,
poiché né nelle
sue vene né in quelle del suo povero marito c’era
mai stata una sola goccia di
sangue nobile, ma si compiaceva ogni volta di vedere che non
c’era tomba di
famiglia nobile che reggesse il confronto con quella dei Carlyle.
Il
capo coperto da un velo scuro,
la donna girava la chiave nella serratura che chiudeva il piccolo
cancello di
ferro e si inginocchiava dinnanzi alla lapide del suo Hathol e lo
compiangeva
in silenzio, e tutti coloro che passavano di lì provavano
ammirazione e
compassione quella moglie così devota.
Era
una triste storia, la sua,
perché il suo amato consorte, ormai quarant’anni
addietro, era stato
incarcerato sotto accuse gravissime e, dopo un processo lampo,
giustiziato di
fronte a tutta la città.
Madame
Carlyle aveva presenziato
all’esecuzione e aveva ascoltato il marito professarsi
innocente fino al suo
ultimo istante di vita e mai per un solo istante lo aveva abbandonato.
Mai lo
aveva creduto colpevole.
Agli
occhi di tutti era una donna
forte, nobile, se non nel sangue, almeno nello spirito, e tutte le
matrone di
Medilana concordavano che era stato ammirevole da parte di una vedova
ancora
relativamente giovane, per di più così ricca e
piacente, non cercarsi un nuovo
marito.
Madame
Carlyle, dal canto suo,
sminuiva assiduamente tutte queste lodi e, anzi, cercava di spiegare
che non
era uno sforzo virtuoso, per lei, restare fedele al suo primo e unico
sposo,
bensì qualcosa che le imponeva il cuore.
Con
un sospiro affranto, proprio
mentre due anziane nobildonne passavano di lì, si
portò le dita alle labbra e le
posò sull’ovale di vetro in cui era stato impresso
il volto di Hathol e si
lasciò sfuggire un piccolo singhiozzo.
–
Povera creatura – sentì
sussurrare una delle due vecchiette. – Un amore
così saldo e genuino, niente
figli che la consolino… –
–
Se solo quella megera di mia
nuora mostrasse la metà di questa devozione per il mio
ragazzo… – borbottò
l’altra, e a Madame Carlyle parve quasi di vederle scuotere
tristemente la
testa mentre la compativano.
Stava
per mormorare, come di
consueto, qualche parola di cordoglio, quando avvertì
un’improvvisa sensazione
di calore alla mano sinistra.
Ritrasse
la mano di scatto e se
la nascose al di sotto della cappa scura. Si alzò
rapidamente, tanto da
suscitare un’esclamazione di sorpresa nelle due signore che
la osservavano da
fuori.
–
Ve ne andate presto,
quest’oggi, cara – disse una delle due,
evidentemente incapace di tenere
qualsivoglia pensiero per sé.
Madame
Carlyle le riconobbe
entrambe: facevano parte della vecchia nobiltà terriera di
Corterra e le aveva
incontrate spesso in città. Due pettegole senza ritegno.
Sorrise
cordialmente e chinò il
capo mesta.
–
Purtroppo impegni urgenti mi
chiamano altrove. –
–
Che genere di impegni? –
Il
sorriso sulle labbra di Madame
Carlyle si pietrificò mentre lei si sforzava di tenere a
bada l’impazienza.
–
Mi sono iscritta a un circolo
del cucito – inventò su due piedi. –
Sapete, per ingannare la solitudine… il
mio Hathol mi manca terribilmente. –
Sui
volti delle due apparve
immantinente un’espressione solidale:
–
Come vi capisco! Il mio Meldon
è mancato da quasi mezzo secolo, ormai, e ancora
non… –
–
Vogliate perdonarmi, signore,
ma ho una certa premura – tagliò corto lei e le
due, benché piuttosto stranite,
si affrettarono a congedarsi e allontanarsi parlottando sottovoce.
–
Circolo del cucito? Sul serio?
–
La
donna si voltò nell’udire
quella voce dalla cadenza insopportabilmente flemmatica e sfacciata e
non si
stupì affatto quando, nell’ombra tra la cappella e
i cipressi che la
contornavano, intravide una figura maschile appoggiata al muro a
braccia
conserte e due occhi verdi che scintillavano divertiti.
–
Molto toccante la scenata della
vedova affranta – proseguì lui, imperterrito.
– Davvero, mi sono commosso. – Finse
di asciugarsi una lacrima inesistente e lei, dopo essersi accertata che
non ci
fosse nessuno a guardare, gli sferrò un calcio sugli stinchi.
–
Chiudi quella tua maledetta
bocca e spiegami cosa diavolo ci fai tu qui! –
Lui
sollevò le spalle. Considerò
brevemente la distesa non esattamente ordinata di lapidi e croci
alternata a
strisce di prato verde che costituiva il cimitero
–
Niente di che, mi divertivo a
spiarti. È interessante vedere fino a che punto una donna
riesca a fingere per
un uomo di cui non le è mai importato nulla. –
Lei
digrignò i denti, ma si
costrinse a mantenere la calma. Avevano altro a cui pensare, per il
momento.
–
Dobbiamo sbrigarci. Siamo stati
convocati – sbottò, assicurandosi con
circospezione che nessuno fosse nelle
vicinanze.
–
Oh, sì – annuì lui e sollevò
la
mano sinistra per osservare con vago interesse l’anello
d’oro che portava
all’anulare. Lei ne aveva uno identico. – Me ne
sono accorto. –
Si
incamminarono verso l’uscita
del cimitero, l’uno a una certa distanza
dall’altra, come se non si
conoscessero e non avessero alcunché a che vedere
l’uno con l’altra. Lei aveva
la sua carrozza ad attenderla, lui le passò accanto mentre
saliva, diretto
verso la periferia.
–
A più tardi, Niamh. –
Lei
lo maledisse interiormente,
giurando a sé stessa che avrebbe trovato il modo di fargli
passare quel suo
atteggiamento insolente, poi diede segno al cocchiere che poteva
partire.
E
comunque Arith si sbagliava:
non era vero che a lei non importava nulla del suo defunto marito. Gli
era
profondamente grata per essersi fatto giustiziare per un crimine che
era stata
lei a commettere.
L’infuso
sapeva di erbe amare e
il suo retrogusto acre bruciava giù per la gola in modo
davvero sgradevole. Era
un intruglio da bere a occhi chiusi, perché il solo aspetto
denso ed eterogeneo
del liquame che riempiva la tazza sarebbe bastato a ribaltare lo
stomaco anche
dell’animo più crudo.
Una
smorfia nauseata storse la
bocca coraggiosa che aveva appena bevuto.
–
Assolutamente disgustoso. Vi
ringrazio. –
Labbra
rosse sorrisero di rimando
con modestia.
–
È un piacere, Lucius. –
Geira
sembrava una bambina,
accoccolata sulla poltrona a gambe incrociate, la veste bianca che
sembrava
tutt’uno con lei. I capelli sciolti le gocciolavano acqua
sulle spalle, ma la
temperatura era talmente mite non c’era alcun bisogno di
preoccuparsene.
Per
quanto giovane potesse
essere, la Somma Sacerdotessa sosteneva a pieni meriti il suo ruolo e
talvolta
faceva anche più del dovuto. Come nel caso di Lucius, a cui
di tanto in tanto
preparava un filtro che lei stessa consacrava per aiutare il suo corpo
a recuperare
meglio le energie quando lui faceva ritorno da missioni particolarmente
impegnative. Era un loro piccolo segreto e non era necessario che terzi
ne
venissero a conoscenza.
–
Sei più provato del solito –
osservò la sacerdotessa. – Forse è il
caso che te ne prepari dell’altro –
aggiunse, accennando al boccale vuoto.
Lui
fece un gesto incurante.
–
Non è il caso, mi sento già
meglio. Il Coordinatore Blackthorne ci sta prendendo gusto a
coinvolgere il
sottoscritto per certe operazioni. –
Geira
sembrava scettica.
–
Blackthorne che chiede la tua
collaborazione? Per che genere di operazione,
se mi è concesso chiederlo? –
Oh, nulla di che… quel genere di
operazioni in cui ne esci sfinito e
malconcio, ma soddisfatto. Se ne esci. Lo pensò,
ma evitò di esternarlo.
–
Questioni leggere, tipo
sterminare bande di sicari o penetrare in qualche covo di Ladri di
Anime… nulla
di che. – Si gettò un’occhiata alle
braccia piene di contusioni e bruciature e
scrollò allegramente le spalle. – Penso stia
cercando di uccidere me, in realtà.
–
Lo
disse per scherzare, ma il
guizzo che ebbero gli occhi di Geira gli comunicò che per
lei la faccenda era
molto più seria.
–
Lady Soile è a conoscenza di
questo particolare? –
Lucius
si stiracchiò le braccia
sopra la testa, sgranchì il collo e la spina dorsale, infine
prese una sedia e
vi prese posto al contrario, avvolgendo lo schienale con le braccia.
–
Non è necessario. –
Sapeva
che la sacerdotessa non si
sarebbe lasciata ingannare dall’apparente leggerezza del suo
tono. L’ultima
cosa che lui voleva era che Soile scoprisse tutto e gli proibisse
esplicitamente di partecipare alle operazioni organizzate da
Blackthorne o,
peggio ancora, che vietasse direttamente a Blackthorne di coinvolgerlo.
Avrebbe
senz’altro apprezzato che lei si preoccupasse per lui, ma non
avrebbe mai
potuto sopportare l’umiliazione.
–
Come sta Regan? – gli domandò
allora Geira. Si era portata le ginocchia al petto e lo scrutava
attenta con i
suoi occhioni verde scuro.
Lucius
le era molto affezionato:
l’aveva vista il giorno della sua investitura, una ragazzina
sparuta ma dallo
sguardo determinato, e l’aveva guardata crescere mentre lui
stesso stava
crescendo, da ragazzino a giovane uomo, e spesso aveva cercato il suo
consiglio
durante i suoi primi anni nella Lega, quando la sua vita di Ladro di
Anime era
ancora una ferita fresca sulla sua pelle e tutto ciò che lui
voleva era pagare
il suo debito verso colei che lo aveva sottratto alla pena di morte.
Geira era
stata il suo aiuto più prezioso in quei momenti, una
confidente e consigliera
che gli aveva permesso di raggiungere dei compromessi con sé
stesso che lui
temeva non avrebbe mai trovato.
Ricordava
ancora le sue parole,
ora come dieci anni prima, come se gli fossero state incise
direttamente nel
cuore.
– Non devi temere per i tuoi peccati,
poiché senza peccato l’anima non
ha modo di temprarsi e imparare ciò che è giusto
e sbagliato. La vera forza non
appartiene a chi non sbaglia mai, ma a chi, avendo sbagliato, sa
riconoscerlo e
porvi rimedio. –
Prese
dal tavolo un bicchiere di
liquore ai frutti di bosco per scacciare il cattivo sapore del filtro e
se lo
scolò mentre rifletteva su ciò che gli aveva
chiesto Geira: non vedeva Regan da
un po’, ma si era premurato di informarsi regolarmente su di
lei e sapeva che,
nel bene e nel male, stava imparando a costruirsi una sua
quotidianità. Era
molto affezionato a lei, anche se talvolta era lui il primo a
stupirsene, e
quella piccola impertinente gli mancava. Si era ripromesso che, non
appena
avesse avuto un briciolo di tempo, sarebbe passato a trovarla. Solo gli
sarebbe
piaciuto farlo senza troppi lividi addosso.
–
Regan sta bene, suppongo. –
La
giacca di Lucius era
abbandonata su una sedia, le maniche della camicia che indossava
arrotolate
fino ai gomiti.
Sarebbe
stato divertente spiegare
la situazione, se qualcuno fosse per caso entrato proprio in quel
momento: non
c’era niente di più sconveniente di un uomo dalla
reputazione ambigua
infiltrato di nascosto nelle stanze di una sacerdotessa vergine. A una
qualsiasi delle consorelle di Geira sarebbe venuto un colpo, a vederli
così,
lei un veste da camera, lui decisamente a suo agio, e avrebbe
sicuramente
gridato alla scandalo, facendosi sentire fino al villaggio
più vicino. Gli
alloggi delle sacerdotesse ordinarie e delle novizie, per fortuna, si
trovavano
in un edificio separato da quello della Somma Sacerdotessa e sebbene
alcune di
esse dimorassero nel piccolo palazzo di Geira, nessuna si sarebbe
sognata di
salire fino ai piani superiori a disturbare il sacro riposo della loro
superiora.
Non
era stata Geira a scegliersi
quella vita e Lucius aveva spesso l’impressione che
adempiesse ai propri doveri
con una sorta di pesantezza nel cuore, perché
c’era una vita, al di fuori del
Tempio della Luna, che non le era concesso vivere. Se nei reami degli
umani le
forme di potere politico avevano indotto la gente a crearsi
divinità su misura
per le proprie necessità – déi che si
potessero pregare, che dessero conforto e
guidassero, che si potessero comprare
con sacrifici e voti di qualsivoglia tipo – il Mondo Occulto
restava un
territorio di isolata consapevolezza che non c’era preghiera
che potesse mutare
il corso degli eventi se non la forza di volontà personale.
Il libero arbitrio
era un dono e una condanna e non lasciava capri espiatori a cui
addossare le
colpe dei mali del mondo, se non i singoli individui.
Talvolta,
tuttavia, la Madre
stessa sceglieva di intervenire per aiutare il suo creato a non
soccombere nei
suoi stessi errori. C’erano segni e avvertimenti che inviava
nei più svariati
modi, moniti che bisognava saper leggere e accogliere, come i marchi
naturali
con cui venivano elette le guide spirituali, segni impressi nella loro
pelle
che comparivano inaspettatamente quando la Madre stessa riteneva giunto
il
momento e che li designavano come legittimi eredi dei Sommi Sacredoti
che li
avevano preceduti.
Il
marchio di Geira – una voglia
simile a una luna crescente dietro all’orecchio sinistro
– era apparso quando
lei era ancora giovanissima. Poco più che bambina, era stata
portata alle
Vergini della Luna affinché venisse istruita e preparata a
diventare quel che
la Madre aveva scelto per lei.
Ora
e era vincolata al suo voto,
e lo sarebbe stata fino a che una nuova prescelta non avesse ricevuto
il
marchio ed era pressoché impossibile prevedere quando
ciò sarebbe successo.
C’erano state Somme Sacerdotesse la cui carica era durata per
tutta la vita,
altre, invece, che avevano ricoperto il ruolo solo per pochi anni.
Geira
aveva dato gran parte dei
suoi anni migliori alla Madre e Lucius iniziava a domandarsi se mai la
Madre le
avrebbe dato qualcosa in cambio.
–
Desidererei parlare con lei –
disse Geira, d’un tratto pensosa, lo sguardo perso fuori
dalla finestra, dove
la notte era chiara e la luna alta nel cielo. – Indagare nel
suo profondo,
capire se c’è qualcosa che possiamo fare.
–
La
prima volta che Geira e Regan
si erano incontrate era stato pochi mesi prima, in circostanze
tutt’altro che
liete. Era stato quando, dopo un attacco che li aveva messi tutti in
pericolo,
avevano scoperto qual era il segreto legato a Regan e alla gente
mascherata che
le dava la caccia, il motivo per cui Lord Desmond la aveva tenuta
segregata in
segreto nella sua dimora per tanti anni.
Il
nucleo di Male che lei
custodiva.
L’aria
che entrava dalla finestra
era mite e piacevole da sentirsi sulla pelle, ma un brivido
formicolò lungo la
schiena di Lucius.
–
Il testo parla chiaramente –
disse, accennando al tomo che troneggiava al centro del tavolo, e
trovò le sue
stesse parole insopportabili. – L’Incarnazione deve
morire affinché il male che
custodisce possa essere estirpato. È rinchiuso
all’interno della sua anima, non
c’è altro modo. –
Era
una magia antica di secoli e
fino ad ora, nonostante gli sforzi, non erano riusciti a venire a capo
di una
soluzione che non prevedesse la morte dello scrigno vivente che
custodiva la
pericolosa essenza di male puro, ossia Regan, nel caso del secolo
corrente.
–
Permettetemi comunque di avere
qualche colloquio con lei, se lo consentirà. Forse
c’è altro che potrei capire.
–
Se suo zio lo consentirà,
corresse mentalmente lui.
–
Gliene parlerò, ma non adesso.
Non voglio turbarla più di quanto già non lo sia.
La sua vita è fin troppo
frenetica, al momento. –
Un
mondo da conoscere,
comportamenti da imparare, una storia da ricostruire…
decisamente non aveva
bisogno di altri grilli per la testa. Una volto sciolto qualche nodo,
si
sarebbero occupati del resto.
Un
grosso gatto rosso balzò in
grembo a Geira, spuntando da chissà dove. La ragazza lo
accolse con un piccolo
sobbalzo di stupore. Le sue dita si immersero nella morbidezza della
pelliccia
e subito il felino iniziò a fare le fusa, offrendo il muso
alle sue carezze.
Quando lei tornò a guardare Lucius, sorrideva.
–
È molto nobile da parte tua preoccuparti
tanto per lei. –
Lui,
che non riusciva a ricordare
una sola cosa che in vita sua avesse fatto per puro spirito di
nobiltà, non
riuscì a trattenere una piccola risata.
–
La gente è troppo abituata ad
attribuirmi virtù che non mi appartengono, Venerabile Geira.
–
–
O forse, Lucius, sei tu a non
volerne portare il peso. –
Le
vide un’insinuazione nello
sguardo, qualcosa di simile a una beffa amichevole, ma non priva di una
nota di
rimprovero.
–
Mi biasimereste, per questo? –
La tranquillità in cui lui costrinse quella risposta era
venata da un rivolo di
angoscia. – Conoscete la mia storia, e siete una dei pochi.
Sapete quanto siano
ricurve le spalle della mia anima. –
Un
alito di vento passò ad
accarezzare le molte candele che ardevano ovunque nella stanza. Le loro
fiamme
oscillarono dolcemente, spingendo le ombre a fare lo stesso.
L’aria sapeva di
erba umida e incenso.
–
Abbiamo tutti le nostre colpe.
Solo chi non ha coscienza non risente del loro peso. –
Lucius
tacque. Non sapeva come
spiegarle che non erano le colpe in sé ad angustiarlo,
bensì l’immagine che esse
potessero dare di lui. Infinite volte si era chiesto se Soile si fosse
mai
pentita di aver risparmiato la vita a un assassino come lui –
perché, anche se
non aveva ucciso che anime corrotte, sempre un assassino restava
– e che cosa
potesse mai vedere, lei, quando lo guardava.
Forse
lo stesso assassino di un
tempo, passato da un lato all’altro degli schieramenti, forse
un pentito che si
dedicava anima e corpo a scontare le sue pene.
Il
fatto era che non c’era alcuna
azione di cui Lucius si fosse mai pentito. Se adesso era lì,
a dare la caccia a
quelli che una volta erano stati i suoi compagni, era solo
perché qualcuno,
senza un apparente motivo se non la personale pietà, aveva
voluto concedergli
una possibilità.
Gettò
uno sguardo al libro sul
tavolo – Ontologia del Male
– e
sospirò.
–
Che cosa ne devo fare di
questo? –
–
Serbalo – rispose Geira senza
alcuna esitazione. – Nel luogo più sicuro che
conosci. Distruggerlo non
servirebbe a niente. Solo uno sciocco distruggerebbe un simbolo privo
di
essenza nel tentativo di eliminare l’essenza stessa. Forse
c’è ancora qualcosa
che possiamo imparare da queste pagine. –
Le
sue dita magre si allungarono
verso le pagine gialle del tomo come se avessero voluto sfiorarle, ma
non lo
fecero.
–
Lo posso affidare a voi? Le
terre del Tempio sono consacrate. Non c’è mano
empia che possa violare questo
luogo. –
Lei
soppesò la proposta e Lucius
si chiese se non fosse stato inopportuno da parte suggerire qualcosa
del
genere. Il Tempio della Luna, dopotutto, era un luogo sacro, che
onorava e
celebrava la Madre e i suoi prodigi, e quel manoscritto immondo era
quanto di
più dissacrante si potesse immaginare. La decisione della
sacerdotessa,
tuttavia, lo stupì:
–
Lo conserverò nelle mie stanze
personali. Lascerò a te la chiave del suo scrigno.
–
–
A me? – fece lui, spiazzato.
–
Le mie consorelle non devono
nemmeno immaginare cosa c’è custodito in questo
libro. La virtù non è che un
mero ideale: forte nelle parole e debole nella carne. Non voglio
esporre
nessuno a inutili tentazioni. Nemmeno me stessa. –
Lucius
la ammirò per l’umiltà che
ancora una volta dimostrava. Conosceva dozzine di persone meno
influenti di lei
che non avrebbero avuto la stessa disinvoltura nel confessarsi timorosi
di
qualche debolezza.
–
Certo, lo comprendo. Vi ringrazio.
–
Un’ombra
comparve sul davanzale
della finestra, così nera che sembrava essersi generata
direttamente
dall’oscurità del cielo. Rok, il corvo di Lucius,
piegò la testa di lato, un
topo esanime stretto tra gli artigli. Il gatto tra le braccia di Geira
lo
considerò con scarso interesse.
–
Il tuo Guardiano è tornato
dalla caccia, vedo. –
–
Il che mi ricorda che si è
fatto veramente tardi ed è ora che io vi lasci riposare
– Lucius si alzò e
iniziò a srotolarsi le maniche lungo le braccia. –
Avrete ancora molto da
organizzare per le celebrazioni dell’Equinozio. –
C’erano
quattro festività
maggiori osservate nelle Sette Terre e corrispondevano alle quattro
stagioni di
cui la Madre si vestiva durante l’anno. Per tradizione,
l’Equinozio di
Primavera veniva festeggiato di giorno, con grandi banchetti, giochi e
danze
all’aperto, e nelle campagne sacerdoti e sacerdotesse
consacravano i campi e i
corsi d’acqua che li avrebbero irrigati.
Per
il Solstizio d’Estate, le
feste duravano tutta la notte e le famiglie usavano recarsi al tempio
con due
monete: una da far benedire simbolicamente affinché la
prosperità dei mesi più
caldi si prolungasse anche in quelli più freddi,
l’altra da offrire in elemosina
per chi di monete non ne aveva affatto.
L’Equinozio
d’Autunno era
dedicato alla vendemmia e alla raccolta delle provviste per il periodo
invernale e veniva festeggiato in modo più rilassato
rispetto alle altre
ricorrenze: la gente si incontrava nelle piazze e nelle taverne e
brindava alla
salute dei propri cari con fiumi di vino e sidro e da tutti i focolari
le
castagne arrostite spargevano il loro profumo per le città.
Infine,
il Solstizio d’Inverno
era forse la data più importante e più attesa
dell’anno: durante la Vigilia le
famiglie si riunivano per tradizione sotto al tetto del capostipite
più anziano
e dopo la cena tutti si scambiavano doni in segno di buon augurio per
il nuovo
anno che presto sarebbe giunto; il mattino seguente era di rito la
visita al
tempio per onorare la Madre e affidarle i propri desideri per il nuovo
anno.
C’era
un desiderio, in
particolare, che Lucius aveva covato negli ultimi anni, ma non aveva
mai osato
portarlo fino ai piedi dell’altare di un tempio,
poiché sapeva bene che c’erano
desideri che, semplicemente, non avrebbero mai potuto incontrare la
realtà.
–
Porterai da me la piccola
Regan? – gli disse Geira quando, infilata la giacca, fu
pronto ad andarsene.
Rok gli volò sulla spalla e lui si avvicinò alla
porta.
–
Appena mi sarà possibile, lo
prometto – aggiunse poi.
Fuori
i corridoi erano bui,
perché nessuno si aspettava che qualcuno potesse aggirarvisi
nella notte
inoltrata in cui avevano finora chiacchierato. Le lampade spente, le
porte
chiuse, il silenzio disteso come una morbida coperta ovunque
l’orecchio
riuscisse a tendersi: per fortuna lì le pareti non erano
d’acqua come quelle
del Tempio.
Fece
per uscire e i suoi passi
non produssero alcun rumore. All’occorrenza, se qualcuno per
sbaglio fosse
uscito da qualche stanza, sarebbe anche stato in grado di celarsi nelle
ombre e
fondersi con esse fino all’invisibilità, ma sapeva
che non sarebbe stato
necessario.
–
Stai ancora cercando la terza
copia e le parti mancanti di quel manoscritto? –
Lucius
si bloccò con la mano
sulla maniglia. La prima copia, incompleta, la aveva ottenuta
attraverso canali
non esattamente leciti e non aveva mai avuto modo di scoprire da dove
fosse
stata recuperata; la seconda, invece, era arrivata da nientemeno che il
covo
della sua amica Angina, un tempo rifugio dei Veglianti, la setta che
aveva reso
Regan ciò che era. Chiunque possedesse il resto era un
potenziale nemico.
–
Sono più che convinto che Lord
Desmond sia in possesso dell’una o dell’altra cosa.
Resta da capire dove si
trovi il resto. –
–
Possibilità che sia in possesso
della Lega? –
–
Nessuna. In un modo o
nell’altro sarei riuscito a scoprirlo. –
–
E sono sicura che hai già avuto
modo di fare le tue ricerche negli Archivi di Restrizione di Medilana,
dico
bene? –
Lui
si limitò ad arricciare
furbamente le labbra.
–
Hai pensato di cercare al
Tempio del Sole? –
–
Il Tempio del Sole? –
–
È lì che all’epoca della
Monarchia venivano raccolti i testi proibiti requisiti alle sette.
–
Lucius
aggrottò le sopracciglia,
arretrò di un passo e accostò la porta.
–
Credevo venissero bruciati. –
–
Ufficialmente. Ma non penserai
davvero che la Corona possa aver fatto incenerire le armi
più potenti che
avesse contro i suoi nemici, vero? È un’arrogante
ingenuità che ci si potrebbe
aspettare dal Coordinatore Generale Reis, ma non certo dai Leljen.
Negli
archivi sono conservati ancora tutti i registri delle confische e delle
persone
indagate. –
C’erano
scarse probabilità che
riuscisse a trovare qualcosa: le radici dell’Ordine dei
Veglianti risalivano a più
di un millennio prima ed erano state così ben insabbiate che
nemmeno i più
autorevoli storici della Lega e della Domus Aurea ne avevano mai
sentito
parlare, ma poteva esserci qualche indizio, da qualche parte, che a un
occhio
ignaro sarebbero facilmente sfuggiti.
–
Come posso avere accesso a quei
volumi? –
–
Non puoi – replicò ovviamente
Geira nel più neutrale dei toni. – Nessuno
può: il Sommo Sacerdote custodisce
la sola chiave che apre le segrete e ha la severa consegna di non
consentire a
nessuno di accedervi. – Il suo sguardo, però, si
accese di una luce misteriosamente
sorniona. – Ma forse sarà disposto a scendere a
compromessi… –
Sprofondato
nella poltrona più
comoda e lussuosa su cui avesse mai avuto il piacere di sedere, Arith
si
rigirava il suo pugnale tra le dita, annoiato, e ascoltava i passi
nervosi che
il Priore Genesis disseminava lungo tutta la discreta lunghezza della
sala.
Pensò
che non c’era da
sorprendersi se Niamh fosse una tale spina nel fianco: abituata a
quella casa
principesca e alla sua bella vita comoda, doveva essere una bella
seccatura,
per lei, scontrarsi con gente che non era disposta ad assecondarla in
qualunque
cosa.
Si
riunivano quasi sempre lì,
ormai, dato che la loro base nelle catacombe di Medilana era stata
ormai
scoperta. Bisognava ammetterlo: Luciferus – o Lucius,
come preferiva farsi chiamare adesso – poteva sembrare uno
sprovveduto, ma lui e soci erano più in gamba di quel che i
Veglianti avessero
stimato. Arith, naturalmente, si chiamava fuori da quel giudizio
affrettato.
Era un Ladro di Anime da metà della sua vita e su di lui ne
aveva sentite tante,
di storie, e una cosa in comune la avevano tutte: lo dipingevano come
il più
scaltro dei furfanti, abilissimo su molti piani, ma in particolare a
fare il
proprio interesse.
No,
decisamente Arith non aveva
mai commesso l’errore di sottovalutare Luciferus.
La
proprietà di Niamh era immersa
in una macchia di vegetazione a due passi dalla capitale di Corterra,
isolata
quando bastava per accogliere una manciata di ospiti di eterogenea
estrazione
che in una zona densamente abitata avrebbero sicuramente dato
nell’occhio.
La
casa, al momento, sembrava
deserta. La servitù era stata congedata per
l’intera giornata e la strada era
troppo lontana perché qualche rumore potesse giungere fin
lì. C’era solo il
silenzio, e il ticchettio metallico di una pendola nella stanza attigua.
–
Alla luce delle peculiari
condizioni in cui ci troviamo a dover operare – stava dicendo
Genesis, e dalla
tensione delle sue parole si riusciva a intuire quella dei suoi nervi.
– È
necessario elaborare una strategia diversa da quelle adottate dai
nostri
confratelli nei secoli che ci hanno preceduto. –
Frustrazione
e rabbia.
Comprensibilmente, pensò Arith, dato che non era mai
accaduto prima di allora
che qualcuno interferisse con l’operato del loro Ordine.
Avevano ormai la
certezza che Lord Ganus Desmond avesse messo le mani su informazioni
abbastanza
rilevanti da aver compreso che cosa fosse la ragazzina dai capelli
rossi. Ne
sapeva abbastanza, anzi, da essere riuscito ad appropriarsi di lei
appena prima
che potessero farlo loro stessi.
I
quattro compagni di Arith
davano la colpa a Sharlit e al suo tradimento se avevano fallito nel
loro
compito di eliminare la bambina, e forse era anche così, ma
Arith aveva la
netta sensazione che Desmond sarebbe comunque riuscito ad appropriarsi
di lei,
in un modo o nell’altro.
Già
il fatto che non l’avesse
semplicemente uccisa per impossessarsi del potere che lei serbava la
diceva
lunga su quanto lui effettivamente sapesse.
–
Perché ci stiamo dando tanta
pena per una ragazzina? –
–
Perché, Arith, in caso non te
ne fossi ancora reso conto è un pericolo per il mondo intero
– berciò Niamh con
il suo solito fare superiore.
Arith
non ne fu affatto
impressionato.
–
Che male ha fatto? Ha distrutto
la Corte, d’accordo. Anziché ucciderla, dovremmo
darle una medaglia. –
–
Deve essere distrutta, prima
che sia lei a distruggere noi! –
–
Mi chiedo se valga veramente la
pena… –
Alioth
sollevò lo sguardo dal suo
calice di vino e l’occhio destro, l’unico che gli
restava, saettò verso il
ragazzo.
–
Se non lo facessimo, il Male
dominerebbe il mondo e sarebbe il caos. –
–
E come lo sappiamo, se da mille
anni nessuno ha mai provato a fare diversamente? –
Il
pugno di Genesis si abbatté
con violenza sul tavolo, facendo sobbalzare tutto ciò che vi
era posato sopra.
–
Stai esagerando, ragazzo! –
sibilò in faccia ad Arith. – Non dimenticare che
cosa hai giurato quando ti
abbiamo scelto! –
Dimenticare…
Arith
avrebbe riso, se solo la
situazione non fosse stata così tesa. Aveva barattato la sua
vita per pura
arroganza: per un’occasione di approfondire le sue
conoscenze, per poter aver
accesso a fonti di cultura che la sua povertà non gli aveva
mai concesso, e non
c’era stato un singolo momento in cui se ne fosse pentito.
–
Perdonate l’interruzione,
sapete che sono un polemico. –
–
Non c’è alcunché da
polemizzare: il destino di tutti è nelle nostre mani e non
c’è prezzo che non
valga la pena di essere pagato. –
Arith
non ne era del tutto
sicuro, ma decise che la cosa non lo riguardava. Era curioso per natura
e fin
da piccolo aveva sempre messo in discussione qualsiasi cosa. Non era
uno di
quelli che si accontentavano di una spiegazione nero su bianco: lui
voleva
vedere le sfumature di grigio, tutte
le sfumature di grigio, ed era abbastanza testardo da non mollare
finché non le
aveva scovate tutte.
Per
stavolta, però, accantonò la
questione e non ne fece più parola, in nome della pace
comune e del suo stesso
benestare.
Non
aveva importanza, comunque:
uccideva persone da tutta la vita e una in più o una in meno
non avrebbe fatto
alcuna differenza.