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Autore: Clarice Hai    07/04/2014    1 recensioni
"Tutto questo non ha senso" borbottò, con voce ancora più incrinata di prima.
Jana rise, continuando a salire le scale, senza voltarsi. "Se fino ad adesso tutto questo ti è sembrato strano, aspetta ancora cinque minuti" girò un poco il capo, guardando Jonathan con la coda dell'occhio.
Sorrise, e sotto quello strato di rossetto rosso le sue labbra sembrarono al ragazzo ancora più belle del solito.
"Non sembri così stupido sai? Ti avevo giudicato male"
La risata amara di lui spezzò il silenzio, con un gracchiare acuto.
"E tu non sembri così fredda come vuoi dare a vedere" le sussurrò all'orecchio, poggiandole le labbra vicino alla ciocca di capelli rossi che le ricadeva sulla spalla.
La chiave che Jana teneva in mano da prima entrò nella toppa della porta con un rumore secco. La stanza rettangolare che si aprì davanti ai loro occhi risultò a Jonathan così familiare che per un attimo ebbe un giramento di testa.
"La conosco" mormorò.
Jana annuì impercettibilmente.
"La tua mente c'è già stata, molte più volte di quante non credi"
Jonathan rimase in silenzio per un momento, confuso.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il freddo e l’austerità della cella erano cominciate a esserle familiari. Era li dentro da un mese e oramai erano suoi compagni.
Si stese sul fianco della branda dura, rannicchiata con le ginocchia al petto stando attenta a tenere la mano destra sotto la guancia per evitare il contatto con le lenzuola sporche. L’odore del vomito di una settimana prima si sentiva ancora. Era imperniato nel tessuto che naturalmente nessuno si era ancora degnato di lavare.

Il suo corpicino secco e nervoso di muscoli era scosso da brividi di freddo. I suoi pensieri vagavano lenti nella sua mente, rimbalzando da un muro di pietra all’altro. Si girò a pancia in su. La schiena cominciava a dolerle. Quel materasso d’occasione era più duro di un masso.

Aveva rischiato molte volte di finire in quelle prigioni, ma era sempre riuscita a cavarsela in qualche modo. Lei e Archi a furia di frequentare i pub del vecchio quartiere conoscevano a memoria tutte le storie di chi, molti anni prima, era riuscito a fuggire di lì.

Sentì al tocco della mano che i suoi lunghi capelli corvini erano sporchi e l’odore di sudore cominciava a farsi ancora più penetrante. L’unico bagno che le avevano permesso di farsi era stato una secchiata d’acqua gelida qualche giorno prima.
I jeans e la canottiera nera non la proteggevano dall’umido che premeva in quella stanza. Sentiva la pelle d’oca sulle braccia nude e i piedi come due blocchi di ghiaccio.
Lo stomaco le brontolò e il suo sguardo cadde sul vassoio poggiato vicino alla porta. Una ciotola di zuppa verde con un tozzo di pane, una mela ammaccata e una bottiglietta di acqua naturale.
Odiava l'acqua non frizzante, era allergica al glutine e sopra la zuppa volavano alcune mosche.
Trattenne un conato di vomito e non mangiò:
Presto sarebbero venuta a prenderla: L’avrebbero trascinata fuori, spintonandola di malo modo, facendo battutine dispregiative o insultandola.
Incassava tutto, cercando di reprimere la voglia frequente di sbatterli al muro con le proprie mani alla gola e stringere fino a quando le loro labbra non fossero diventate viola per la mancanza d’aria.
Si tratteneva ogni volta.
Non voleva aggravare la situazione anche se sapeva che oramai c’era poco da fare. Per quello si ostinava a un silenzio forzato: non voleva che le sue parole venissero storpiate e usate poi contro di lei.
Quando la trascinavano fuori dal freddo della sua cella si chiudeva ancora di più in se stessa, alzando un muro che nessuno riusciva ad abbattere, nemmeno volendo. Sentì un fastidioso formicolio solleticarle le gambe ma non si alzò lo stesso dalla sua posizione. Aveva i muscoli intorpiditi e le membra stanche. Era da tanto che non faceva più esercizio e meditazione. Sentiva che più stava li dentro, più le sue capacità scemavano.
Ogni tanto aveva voglia che la uccidessero subito, per porre fine a quel supplizio.
Quella cella le torturava le membra, non la faceva ragionare.
A volte sentiva di soffrire di claustrofobia. Una morsa la prendeva alla gola, non facendola respirare. Vedeva le pareti comprimersi come una lattina schiacciata verso di lei, inarrestabili. Sapeva che nel cibo i Vacui mettevano della droga.
Non c’era voluto tanto a capirlo, abituata com’era a lavorare con veleni e stupefacenti. Perdeva conoscenza e si svegliava stordita, con la gola infiammata e un nodo allo stomaco che la faceva vomitare per tutto il pomeriggio. Era  quello il motivo per cui aveva smesso di mangiare, sforzandosi di bere solo acqua.
Il silenzio opprimente venne interrotto dal rumore della porta che si apriva. Sulla soglia, un uomo basso e grassottello. La prigioniera si tirò su a sedere sul bordo della branda, poggiando i piedi a terra. Delle scariche elettriche le percorsero il corpo: Era arrivato il momento dell’interrogatorio, come ogni giorno.
La stanza era piccola quasi quanto come la cella. Pareti in pietra, spoglie.
L’arredamento spartano consisteva solo in un tavolo mangiato dalle termiti, due sedie e una lampada per far luce. Le fiamme danzavano sui muri e Noomi si perse in quei colori caldi che producevano figure snelle e fluenti tra i massi.
Non aveva intenzione di rispondere, come sempre,  richiudendosi nel suo guscio.
“Tutti sappiamo perché sei qui, Noomi. Il tuo tradimento e la tua fuga dalla nostra Confraternita è stato un duro colpo per tutti. Eri la migliore, ed è per questo che la tua infedeltà è così schifosamente grave. New York è grande, ma nessuno può sfuggire per sempre alle grinfie dai Vacui, dovresti saperlo. Ti pensavo .. ti pensavamo più intelligente. Ci sbagliavamo.”
Noomi incassò l’ennesimo colpo, puntando gli occhi stanchi con sguardo neutro sull’uomo, inclinando leggermente la testa. Lo chiamava “il commissario” ma in realtà, il suo vero nome, le era ignoto. Aveva lavorato affianco a lui per anni, ma il loro rapporto era sempre stato strettamente professionale. Se lei non si fosse così contraddistinta all’interno della Confraternita, il commissario non l’avrebbe nemmeno saputo, il suo nome.
L’uomo srotolò un lungo foglio di carta. Sopra di esso, almeno una quarantina di nomi, ognuno con due date affianco. 
“Sei soddisfatta? Io ne conto quarantatré. Quarantatré Vacui uccisi in meno di un anno. Erano tuoi compagni, hanno combattuto al tuo fianco, ti hanno salvata e tu? Come li ripaghi? Con la morte? Dovrebbe essere Dio a punirti, non io”
Segno della croce.
Silenzio.
Cominciava a essere stanco di tutta quella silenziosità. In tutti i suoi anni di servizio gli era capitato già molte volte di dover dare la caccia a dei reietti, ma mai nessuno, mai, aveva coltivato un così profondo odio nei confronti della Confraternita, arrivando a uccidere quarantatré dei più influenti membri in dieci mesi.
Ora lei stava di fronte a lui, impassibile, quasi come se fosse sotto l’effetto di alcool. Il viso era scavato, segno che non mangiava e la sua carnagione tendeva verso il bianco porcellana, con qualche sfumatura più scura vicino agli zigomi. La cosa che lo inquietava di più di quella ragazza erano i suoi occhi. Di un nero penetrante, quasi liquido, dal taglio a mandorla, pupilla e iride erano fusi assieme. Ogni volta che lei lo guardava si sentiva a disagio, con il sangue ghiacciato nelle vene.
Gli era sempre parso surreale che in quel corpo minuto da bambina si nascondesse una delle più agguerrite assassine della Confraternita. Nei suoi anni di collaborazione aveva stilato una lunga lista di omicidi, si era contraddistinta dal gruppo degli Iniziati dopo aver ucciso, durante la sua prima prova, un famoso avvocato di Manhattan, il quale nome era famoso all’interno della Confraternita a  causa della sua attiva partecipazione nella Gilda dei Tarègrìn, da sempre ostacolatori del movimento  della loro congregazione.
Era stata una delle poche ad essere stata capace di sviluppare l’abilità di teletrasporto e invisibilità, senza il minimo sforzo dopo solo pochi mesi di allenamento; era intelligente, divorava libri, aveva una splendida dialettica, sapeva imporsi sugli altri con una capacità spaventosa. La odiava, dio quanto la odiava. Il commissario aveva tirato quasi un respiro di sollievo quando la notizia della sua fuga era arrivata alle sue orecchie: Noomi minacciava il suo piano per diventare successore di Monhor, il supremo capo: quello stolto se l’era presa a cuore, concedendole cose che non aveva mai concesso a nessuno.
 
Solitamente lasciavano i reietti alla loro povera vita fuori dalla Confraternita: non duravano molto e non commettevano danni, ma lei no, lei doveva contraddistinguersi sempre. Il supremo capo aveva espressamente chiesto di riportarla da lui, viva. Voleva fargliela pagare, e ci sarebbe riuscito.


“Abbiamo trovato il tuo amico, il tuo assistente” disse cambiando posizione sulla sedia. Notò che finalmente era riuscito a catturare la sua attenzione. I muscoli di Noomi si erano tesi tutto d’un tratto e lei aveva rizzato, cercando di non darlo a vedere le orecchie.
Il commissario sorrise, soddisfatto.
“E’ in queste prigioni anche lui, sai? Ha sofferto molto all’inizio, non voleva confessare di essere stato il tuo assistente, ma poi ce l’abbiamo fatta. Lo sai anche tu no? Con le maniere forti si riesce sempre a ottenere tutto”
Noomi strinse i pugni, le nocche le diventarono bianche e si infilò le unghie smaltate nella carne. Se il suo intento era provocarla, ci stava riuscendo. Aveva il corpo scosso da veloci scariche di rabbia e stringeva convulsamente i pugni, cercando di controllarsi.
“Sei anche una puttana quindi? Te la facevi perfino con lui eh? Ammettilo dai, siamo solo io e te” L’uomo aveva avvicinato il viso paurosamente al suo. Noomi riusciva a sentire il suo alito pesante nelle narici. Veloce come un lampo la ragazza balzò in piedi tremante dallo sfogo di rabbia che cercava di trattenere. Il commissario era compiaciuto. Aveva fatto leva sul tasto
 “Rispondi, se non vuoi che il tuo ragazzo venga ancora torturato”
La ragazza chiuse gli occhi e balzò oltre il tavolo, prendendo l’uomo alla gola e sbattendolo al muro. Non aveva bisogno di un pugnale o di coltelli da lancio per uccidere una persona. Era capace di farlo anche a mani nude.
“Attento a provocarmi. Non prendere il mio silenzio come una forma di sottomissione. Posso ucciderti quando voglio.” La voce fresca e chiara che scaturì dalle labbra della ragazza non si addiceva per nulla all’espressione di fuoco che aveva dipinta in quel momento sul volto.
Il commissario cercò invano di staccare la mano di Noomi dalla sua gola, ma la presa sembrava d’acciaio. Il viso gli si fece sempre più rosso, mentre aveva la sensazione che gli occhi gli scoppiassero fuori dalle orbite. Dopo quello che gli parve un’eternità Noomi mollò la presa, facendolo crollare a terra, con la schiena al muro.
Lei tornò a sedersi, richiudendosi nel suo silenzio, come se nulla fosse successo, mentre lui, con la schiena alla parete cercava di ricomporsi e riprendere il fiato che fino a pochi secondi fa gli era mancato.

- Noomi?
Silenzio.
- Noomi sei qui?
-Sono dietro di te.
-Dietro di me dov..
Non fece in tempo a finire la frase che un lungo pugnale affilato venne posato sulla sua gola. Riusciva a sentire il freddo penetrargli dentro; cercava di reprimere i brividi che gli scendevano giù per la colonna vertebrale, invano. Sapeva che la giovane non avrebbe esitato un istante a tagliargli la gola. Un passo falso e sarebbe andato a far visita a suo padre nell’altro mondo.
-Ti avevo detto che non saresti dovuto venire a cercarmi Archi, ti trapasserei senza esitazione se non ti conoscessi cosi bene.
Il ragazzo sentì la lama staccarsi dalla sua trachea e tornò a respirare normalmente.
- Ti ho portato le informazioni che ti servivano, quelle che mi hai chiesto, ma a quanto pare non ti interessa.
Girò sui tacchi e si allontanò, lentamente, massaggiandosi ancora la gola.

Fece dieci passi prima di sentire qualcosa sfiorargli la guancia. Guardò a terra e vide un coltello da lancio conficcato tra i ciottoli della strada.
- Ora, Archi, ti giri e riporti il tuo bel didietro da me, se non vuoi che la prossima volta miri al tuo collo.
Era così da circa sette mesi ma Archi non poteva dire di essersi abituato. Ogni volta era come la prima. Sentiva sempre i brividi di paura, l’adrenalina, il terrore, la voglia di fuggire quando andava da Noomi a portarle il lavoro.

Da quando erano fuggiti, i Vacui si erano messi alla solo ricerca di Noomi, per questo motivo Archi aveva girato la situazione a favore di entrambi, indagando per la ragazza riguardo ai membri più influenti della Confraternita residenti all’esterno della base principale. Noomi nutriva una sete spietata di furia vendicativa nei confronti di coloro che attivamente o passivamente avevano contribuito a rovinarle anni della sua esistenza.
Per le prime settimane se l’erano cavata da soli, dormendo ogni notte in differenti hotel della periferia newyorchese. Poi Archi era riuscito a trovare contatti con altri reietti.
L’ordine delle Ombre, così si erano chiamati. Erano una quindicina, tutti fuggitivi della Confraternita.
Avevano cercato rifugio tra di loro e l’influenza di Noomi non tardò a farsi sentire: riuscì a trasformare in poco tempo, un gruppo di emarginati in una cerchia di assassini professionisti e vendicatori.

 
- Jace Brown, lavora alla CBS da ventidue anni, è nella Confraternita da dieci. Stregone, sposato, una figlia … senza sangue magico-  aggiunse subito, per anticipare la prossima domanda di Noomi. Le passò una foto di Jace. Un bell’uomo, capelli scuri, poca barba a contornargli le labbra sottili e le guance, occhi verdi.
-Voglio l’indirizzo di casa
- Broadway, cinquantatreesima

-Mi pigli per il culo? Non voglio quello della sede- sibilò Noomi, il quale tono di voce iniziava a scaldarsi improvvisamente.
- Non ho trovato altro, il suo ufficio si trova al sesantesimo piano, starà lì dentro fino a notte fonda. E’ la tua occasione.
 
E la notte calò lentamente.
La luna brillava alta nel cielo, coperta da spessi nuvoloni grigi.
Una leggera pioggia cadde bagnando la strada e alzando un pesante odore di umido.
Le luci di Broadway l’accecarono, quando finalmente entrò nel quartiere. I taxi gialli sfilavano sulla strada bagnata alzando una scia di pioggerellina dietro di loro. Si fece strada tra i centinaia di turisti, che, a quell’ora della notte, erano gli unici a popolare le grandi avenue, tutti quanti prontamente muniti di macchine fotografiche, bicchieri extra large di coca cola e ombrelli.
L’edificio della CBS si stagliò imponente  nei suoi centinaia di piani di vetro nero, davanti agli occhi scuri di Noomi. 


Jace era abituato a fare le ore piccole in ufficio, per lui era esaltante stare al lavoro oltre i suoi colleghi. Riusciva ad organizzare al meglio le pratiche arretrate, causate dalle troppe ore perse nel bagno con la nuova segretaria del capo. Mara, ah, quanto era bella. L’aveva notata subito, con quella sua criniera di capelli biondi e quei fianchi morbidi. Avevano legato fin da subito. Non aveva dovuto nemmeno impegnarsi, Mara mostrava nei confronti di Jace il doppio dell'interesse che lui aveva per lui: Aveva colto la palla al balzo. Aveva imparato a dividere l'amore di casa da quello lavorativo. Il giorno con una, la sera con l'altra.
Sorrise, non provava sensi di colpa, si sentiva in pace con sè stesso e con il mondo. Forse il merito era anche dello yoga che aveva iniziato a fare durante i weekend. 
Si era finalmente convinto a seguire un regime salutistico e fisico più salutare. L'ultimo pacchetto di Marlboro risaliva a circa due settimane fa, non beveva più vino, nemmeno a cena, e il fast food a cui era abituato si era estinto. 
Il caffè nel bicchierino di plastica (la caffeina, uno dei pochi privilegi che ancora si concedeva) era oramai freddo, si alzò, con attenzione metodica e si diresse verso il cestino posizionato vicino alle grandi librerie dell’ufficio. Guardò l’orario: l’una e mezza.
Un altro sorriso gli apparve all’angolo della bocca.
Nell’altra stanza sentì i due Vacui della Confraternita confabulare tra di loro, avvolti nel buio del locale. Diede un colpo di tosse per farsi sentire, spense la luce principale ma lasciò accesa quella della sua scrivania. Non perse tempo a riordinare le scartoffie, cacciò nella borsa solamente un vecchio raccoglitore blu e la custodia dei suoi occhiali da vista.
L’ascensore di aprì con uno sbuffo davanti ai suoi occhi. Prima che le porte laccate di rosso si richiusero alle sue spalle, notò che l'altro stava salendo.
Sentì improvvisamente  una punta di paura iniziare a gelargli le gambe. Diede un profondo respiro, per recuperare ossigeno.
La discesa gli parse infinita. Sarebbe andato tutto bene, poteva fidarsi dei suoi fratelli.
Jace percorse l’atrio vuoto a grandi falcate, trattenendo il fiato. Ricominciò a respirare normalmente solamente quando la porta gialla del taxi non si richiuse affianco a lui.

La canzoncina snervante nell’ascensore diede sui nervi a Noomi. Era perfino peggiore di quella presente nelle pubblicità dei cereali. Mentre la salita verso i piani alti proseguiva, si ravvivò i capelli bagnati con una mano. La frangia che le ricadeva sulla fronte lasciava scoperte le due sottili sopracciglia che contornavano i suoi occhi neri ripassati con un leggero strato di eyeliner. Prese all’interno del suo giubbino di pelle il lungo pugnale bianco e si preparò al combattimento.


- .. Com..
 
Le parole le morirono in gola: l’ufficio era deserto. La luce accesa sulla scrivania di Jace era l’unico segno che qualcuno era stato lì poco prima. Si avvicinò al mobile, guardinga e con l’arma alzata, in posizione di difesa.
Sopra dei moduli della CBS c’era un foglio bianco, di una stampante. Una semplice parola scritta sopra, in indelebile nero.
“FOTTUTA”
Non fece in tempo a collegare il tutto che i due assassini della Confraternita uscirono dal locale affianco, le armi in pugno.
Imboscata.
Salvarsi la pelle.
Reagire.

 
Era la prima volta che abbassava la guardia e questa le era bastata. Si spostò fulminea di lato e, mentre la spada di un Vacuo si abbassava sul suo ginocchio, prese un coltello da lancio e puntò al suo nemico. La piccola arma sfregiò l’orecchio dell’uomo, tagliando anche alcuni suoi capelli corti.
“Cattura quella puttana” sbraitò mentre si portava la mano all’orecchio sanguinante.
Noomi colpì con un calcio l’altro uomo e si lanciò contro la porta dell’ascensore cercando una via di fuga. Le porte non si aprirono abbastanza velocemente e quell’attimo di esitazione le fu fatale. L’uomo che aveva colpito con un calcio aveva raccolto il coltello da lancio puntando al ginocchio destro di Noomi. Il dolore era arrivato secco e improvviso. Era crollata a terra, con la vista annebbiata. Si pulì gli occhi offuscati con il dorso della mano.

“Non mi avrete”
La ragazza strinse i denti, e con un gesto che aveva qualcosa di disperato si tolse il coltello dal ginocchio e mirò al guerriero davanti a lei. Il tiro andò a segno nella gola con una precisione impeccabile.
Noomi cercò di alzarsi malferma sulle ginocchia chiedendo uno sforzo supplementare alle gambe, senza risultato. Fu stordita da un colpo che arrivò inaspettato alla nuca. Sentì il sangue che cominciò a uscire copiosamente. Delle scosse elettriche le percorsero il corpo, arrivando perfino ai polpastrelli delle dita. Vide il buio totale prima di accasciarsi come un sacco di patate pavimento in moquette dell’ufficio, non cosciente. "

 

 Il commissario tornò a sedersi davanti a Noomi.
“Non farlo più, se non vuoi essere giustiziata subito. Sono io che controllo la tua vita o la tua morte”
Vide gli occhi dell’assassina posarsi su di lui, calmi e senza un’ombra di paura.
“No, tu sei solo una pedina di Monhor. L’unica cosa che puoi permetterti di controllare è la quantità di droga che mi metti nel cibo, che a dirla tutta, si sente a chilometri di distanza.”
L’uomo odiava quando i membri della Confraternita gli facevano notare che sarebbe rimasto sempre un gradino sotto il supremo capo, Noomi lo sapeva. Le parole inviperiate non erano state detto a caso, non diceva mai nulla a caso.

Il commissario la guardò da testa a piedi. L’aveva sempre scrutata quando collaborava ancora con loro. Nonostante fosse asciutta e cerea aveva un fascino particolare, misterioso. La prima cosa che lo colpì quando la vide fu il suo tatuaggio, enorme, impressionante: Un serpente a sonagli. La sua testa, dalle sfumature violacee era disegnata sulla parte sinistra del collo; il corpo si attorcigliava per tutto il suo braccio sinistro e terminava con la coda a sonagli disegnata sopra l’indice. Non dava l’idea di essere finito. Le sfumature terminavano nette all’altezza della spalla. Il tatuatore aveva dovuto impiegarci molto a disegnarlo e sicuramente non era costato poco. Il braccio destro invece era sfregiato da una lunga cicatrice. Partiva dal gomito e arrivava poco sopra il polso. Lucida e bianca. Fredda.
I jeans le aderivano completamente alle gambe, come una seconda pelle. Aveva un fisico nervoso, snello e agile. I suoi uomini gli avevano riferito che durante il suo primo giorno nelle prigioni aveva tentato di fuggire, usando la tecnica di teletrasporto. Aveva chiuso i suoi giustizieri nella loro stessa gabbia, ma era stata placcata poco più in là.
Non aveva intenzione di arrendersi, sarebbe stata un eterno osso duro e tutti ne erano a conoscenza.


“Allora? Quando mi fai incontrare con Monhor?”


 Ooook, avevo pubblicato molto tempo fa alcuni capitoli di una mia storia "Superstiti" ma essendo arrivata a un punto morto, ho deciso di fare dei cambiamenti radicali ma non troppo. In questi anni/mesi/settimane avevo iniziato diversi racconti, tutti di carattere fantasy/surreale/urban fantasy, ho deciso quindi di cercare di fonderli tutti assieme, per creare un qualcosa di originale. Della storia "Superstiti", di personaggio vero e proprio rimarrà solamente Noomi, gli altri verranno un po' incorporati con dei loro 'alter ego'.
Detto questo, spero che questo racconto vi piaccia, se avete domande, critiche, se vi ha fatto schifo, se vi è piaciuto, fatemelo sapere.
Un bacio, Clarice
  
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