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Autore: udeis    09/04/2014    0 recensioni
John Tokai oggi si occupa di annunciare ai nati babbani di essere maghi: è un uomo felice e appagato. Ma durante la prima guerra magica, come tutti quelli che non erano mangiamorte, non se l'è passata molto bene. Certo, per un Serpeverde, babbanofilo, purosangue, le cose sono sempre un tantino più complicate.
Genere: Generale, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'L'Ufficio alle relazioni babbane e le sue dis/avventure.'
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Iniziai a lavorare per l’amico di Joè la sera stessa: servivo ai tavoli e prendevo le ordinazioni. Adoravo quel lavoro: quello che dovevo fare era comprensibile, chiaro, semplice, al contrario della fabbrica, e mi piaceva chiacchierare con la gente e ascoltare quello che aveva da dire.
Imparai a trattare con i clienti più difficili senza perdere la calma, ad inventare scuse credibili per gli errori del cuoco, a presentarmi ai tavoli al momento opportuno e trasportare più piatti contemporaneamente senza usare la magia. Gli altri camerieri mi insegnarono un paio di trucchi e diventammo amici: eravamo un nugolo di giovani guidati da un anziano caposala che ci faceva scattare tirannicamente da un capo all’altro del locale.
Il lavoro era bello, ma la paga era da fame, così provai a cercare quel qualcosa di meglio che Joè prognosticava per me.
Scoprii che non avevo alcun titolo di studio valido nel mondo babbano e che, perciò, le mie possibilità di trovare un lavoro d’ufficio si riducevano drasticamente: provai anche ad accennare al mio lavoro precedente, impiegato al Ministero, con il solo risultato di farmi ridere in faccia.
Continuai a lavorare al ristorante: non che avessi rinunciato a trovare qualcosa di meglio, ma il lavoro mi piaceva e me l’aveva trovato Joè così preferii adattarmi.
Poi mi cacciarono e al mio posto assunsero una ragazza molto carina e molto giovane, la nipote del proprietario, credo, che faceva più felici i clienti e non perdeva tempo in chiacchiere. Fu molto dispiaciuta quando le dissero di me e voleva quasi rinunciare al posto, ma io le portai dei fiori e riuscii a dissuaderla. Quel lavoro era suo, a me spettava, ormai, qualcosa di meglio.
 
Le voci di un mio licenziamento giravano da settimane e la colpa era dei miei presunti furti, su cui il proprietario aveva chiuso un occhio fino ad allora perché ero amico di Joè ed un bravo cameriere, ma che non poteva più ignorare. Soprattutto perché quando lui mi aveva invitato a darci un taglio io, non solo, non lo avevo ascoltato affatto, ma mi ero pure inventato una storia idiota di nobili e samurai. I giapponesi lui li conosceva bene ed io non ero uno di loro: si capiva dall’accento. Il mio, era sicuramente inglese.
La realtà era che erano i clienti a fregare me, approfittandosi della mia scarsa conoscenza monetaria ed io non me ne accorgevo affatto, cullato dalla speranza che i babbani fossero persone migliori dei maghi.
Non era così.
Comunque sia, prima che succedesse l’inevitabile ero riuscito a trovarmi un lavoro migliore e per una volta senza l’aiuto di nessuno.
Ovviamente, ero grato a Scott e a Joè per l’aiuto che mi avevano dato in quei mesi, ma ormai conoscevo abbastanza bene il mondo babbano da sapermela cavare senza il loro aiuto.
E intendevo dimostrarlo.
 
Attaccai bottone con un abituè del locale che sapevo gestire una ditta di costruzioni: gli serviva qualcuno che si occupasse dei conti e mi proposi io. Non avevo idea di cosa significasse, ma questa volta non mi feci fermare dai dettagli. Gli raccontai una storia commovente, gli assicurai che avrei lavorato sodo, gli spiegai che ero inglese, ma che avevo studiato in Giappone con mio zio per molti anni, gli ricordai che il senso del dovere è sacro da quelle parti e gli raccontai un altro paio d’ idiozie, continuando a sorridere e sperando che fossero credibili. Alla fine grazie all’aiuto di uno sconto cospicuo sul suo pranzo decise di assumermi. In prova.
 
Mi alzavo ogni mattina alle sei, resistevo alla tentazione di smaterializzarmi e mi avviavo a piedi verso il mio posto di lavoro. Avevo provato ad usare il trasporto pubblico, ma oltre a gravare sulle mie scarse finanze in maniera considerevole, era davvero qualcosa di troppo complicato per me. Ci misi mesi per capirne il funzionamento e quando finalmente lo capii, mi rimase sempre una diffidenza piuttosto marcata: nei confronti degli autobus perché i passeggeri continuavano ad insultarmi per motivi incomprensibili, nei confronti della metro perché mi incastravo nei tornelli e nei confronti dei taxi perchè tendevano ad investirmi. E poi non riuscivo a capire i soldi babbani: erano troppo piccoli e li perdevo, alcune monete mi affascinavano e non volevo darle via… Insomma ci mettevo una vita solo a comprare il biglietto e la gente tende ad essere piuttosto scortese, di mattina, con qualcuno che perde tempo maniera idiota e li fa arrivare tardi al lavoro.
 
Lavoravo l’intera giornata sbrogliando pratiche astruse e parlando con fornitori. Resistevo alla tentazione di incantare quei fogli in modo che mostrassero quello che tutti si aspettavano e mi arrabattavo sui calcoli e conti con carta, matita e penna. Niente di difficile, direte. È un lavoro ripetitivo, lo si impara in poco tempo, basta avere delle conoscenze matematiche di base. Ma provateci voi, dopo sette anni ad anni ad Hogwarts e una vita nel mondo magico, a capire come va usata una penna: continuavo a cercare l’inchiostro per intingerla e dopo un ora di inutili ricerche lo feci apparire. Vi lascio immaginare i commenti dei colleghi quando mi videro tutto soddisfatto intingere una penna in una boccetta d’inchiostro che non era mai stata lì e tracciare segni incerti su una carta troppo sottile.
Le macchine da scrivere mi insospettivano, quelle del caffè continuavano a rubarmi i soldi, il trillo del telefono mi faceva prendere ogni volta un colpo e quando gli chiesi come potevo farlo smettere e mi dissero “rispondi!” provai per dieci minuti a trillare anch’io. Furono dieci minuti veramente imbarazzanti che si conclusero con qualcuno che mi urlò di alzare la cornetta, io l’alzai e il suono cessò, poi però non sapevo che fare e così la riappoggiai al suo posto e soddisfatto continuai a lavorare. I colleghi risero così tanto che il capo dovette intervenire e spiegarmi con tono pericolosamente minaccioso come si usasse un telefono e aggiunse qualcosa come: ”ora la pianti di fare il cazzone e fai il tuo lavoro come si deve che qui non siamo in un parco divertimenti.” Dovevo ringraziare il buon cuore del padrone di avere un lavoro d’ufficio, lui a un idiota come me non avrebbe permesso neanche di pulire le scale.
 
Passavo lunghissime pause caffè a fare finta di sapere di cosa parlassero tutti, pranzavo facendo più o meno la stessa cosa e alle cinque tornavo nel mio appartamento sovraffollato e leggevo libri che potessero essermi d’aiuto in quel mondo estraneo.
O almeno lo feci fino a quando un mio coinquilino mi strappò dalle mani il mio saggio sulla società contemporanea e mi mise in mano una rivista. “Pensa un po’ a divertirti Tokai, che ‘sti mattoni non fan bene alla salute.” Aveva ragione: la rivista fu molto più utile.
Ripensandoci adesso, lasciare a casa il mio vecchio libro di babbanologia fu un errore gravissimo: poterlo leggere mi avrebbe reso la vita un po’ più facile.
 
 
 
Mc Duff, il mio datore di lavoro, aveva sicuramente buon cuore e sopportava le mie stranezze senza problemi: in parte perché era lui stesso strambo a modo suo, in parte perché quando riuscivo a usare la strumentazione babbana in modo corretto senza smontarla, romperla o fraintenderla ero il migliore con conti, calcoli e tabelle. Non mi avrebbe licenziato per nulla al mondo: un talento come il mio era raro da trovare, mi disse, e lui non ci avrebbe rinunciato solo perché alcuni dei miei colleghi mi definivano un idiota senza cervello. “La gente è strana Tokai, molti pensano che se i pesci mi fanno schifo devi smettere di pescare, ma a me piace farlo ragazzo, mi capisci?”
Non lo capivo affatto, ma annui e mi tenni il posto.
 
Anche se ero grato della fiducia che il mio datore di lavoro riponeva in me, purtroppo per lui, io non ce la facevo più e me ne sarei andato volentieri, se solo avessi saputo dove. Le figuracce che feci quando provai a usare gli oggetti dell’ufficio o a parlare del più del meno erano state epocali: tutti ormai mi avevano preso come lo scemo del villaggio e come tale mi trattavano.
Era insopportabile.
E la vecchia storia del nobile nipponico era servita solo ad aumentare le risa.
E più il disprezzo e la derisione salivano più io diventavo teso e più io parlavo in maniera forbita e dormivo di meno. Meno dormivo più facevo idiozie e così via in un circolo vizioso senza fine.
Portavo sempre la bacchetta con me, ma non l’usai mai, a volte, soprattutto i primi tempi, pensavo che sarebbe stato più semplice morire per mano di Tu Sai Chi o dei suoi pari piuttosto che sopportare tutto quello.
Anche Azkaban mi sembrava preferibile.
Non erano solo le incombenze quotidiane a pesarmi, ma anche l’inquietudine costante di non sapere cosa fosse successo a tutti i miei cari. L’assurdità di vivere in un mondo in pace, mentre il proprio bruciava, cullandosi nella falsa sicurezza di una tranquillità apparente dove nessun mago poteva raggiungermi. L’ipocrisia di nascondersi e sentirsi al sicuro e felice, mentre i miei amici e miei fratelli morivano.
Ancora qualche giorno e avrei dato di matto.
 
Fu in quel periodo che incontrai Agata.
Aveva avuto la mia stessa idea.
  
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