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Autore: udeis    06/04/2014    0 recensioni
John Tokai oggi si occupa di annunciare ai nati babbani di essere maghi: è un uomo felice e appagato. Ma durante la prima guerra magica, come tutti quelli che non erano mangiamorte, non se l'è passata molto bene. Certo, per un Serpeverde, babbanofilo, purosangue, le cose sono sempre un tantino più complicate.
Genere: Generale, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'Ufficio alle relazioni babbane e le sue dis/avventure.'
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Nonostante le mie conoscenze, non fu affatto facile abituarsi ad un mondo senza magia.
Vivere da babbano, infatti, si rivelò più difficile di quanto avessi mai pensato: sui libri che avevo letto molte cose non erano state né spiegate, né tantomeno menzionate; e anche se da ragazzo avevo frequentato quel mondo durante le vacanze estive, questo mi serviva a malapena ad orientarmi.
Che ne poteva sapere un ragazzino dell’affitto? Delle bollette? Delle qualifiche necessarie a trovarsi un lavoro? Di come cavolo funzionano un fornello a gas e una lavatrice? O del modo corretto di usare un ascensore?
E anche l’avessero saputo, non è il genere di cose di cui parlano i sedicenni: l’universo dei ragazzi è, ovviamente, lontano anni luce da quello degli adulti.
Io non avevo idea di come vestirmi, non avevo idea di dove abitare, non avevo idea di come trovare un lavoro e tantomeno di come potessi guadagnarmi da vivere.
I vestiti li trasfigurai copiando quelli di un passante e anche per la casa fu relativamente semplice: risolsi la questione con il classico espediente di entrare in un pub e chiedere dove potessi trovare un posto per dormire a buon mercato che non fosse un albergo.
Non mi piaceva molto l’idea di alloggiare in un albergo: quel genere di posto mi faceva sentire troppo in vista. Un po’ come se sulla mia testa ci fosse un’enorme insegna lampeggiante con su scritto: “ehi questo tizio non è del posto! Hai guardato bene? Sicuramente è un mago!” Inoltre chiunque avesse mai provato a cercarmi nel mondo babbano sarebbe partito dagli alberghi perché esistono anche nel mondo magico e sono molti di meno delle stanze in affitto.
Spiegai che ero appena arrivato in città, che ero in cerca di lavoro e non avevo molti soldi.
Dovetti entrare in parecchi pub, ma, alla fine, quando ormai ero vagamente ubriaco, un barista mi disse che aveva proprio quello che faceva al caso mio. Una sua conoscente, la signora Palm, brava donna, affittava alcune camere e il prezzo era basso, ma le stanze erano grandi e ben arredate. Me lo diceva solo perché gli sembravo un bravo ragazzo onesto, “perché io, non manderei mai un poco di buono da quella santa donna!” Sentenziò. Poi aggiunse, consegnandomi un enorme pasticcio di carne: “dì che ti manda Joe e portale questa da parte mia.”
La stanza era davvero ben arredata ed economica e sarebbe stata davvero spaziosa se non avessi dovuto condividerla con altre cinque persone. Si trovava alla fine di un vicolo sporco, in un palazzo che un tempo doveva essere stato sfarzoso, di un quartiere labirintico che aveva visto tempi migliori. L’impianto di riscaldamento era completamente guasto (e almeno in cinque si evitava di morire di freddo) e il gabinetto si trovava alla fine di un lungo corridoio ed era in condivisione con gli altri dieci inquilini.
La padrona mi disse che l’affitto si pagava ogni settimana e che voleva i soldi in anticipo, ma siccome mi mandava Joe potevo pagare Lunedì. Tra due giorni.
 
Avevo avuto un amico babbano, da ragazzo, che faceva le consegne in bicicletta per un negozio di alimentari, mi sembrava un bel lavoro: lui diceva che guadagnava tantissimo e a me sembrava divertente poter girare tutto il giorno per la città e parlare con la gente. Cercai un negozio e provai a propormi come fattorino, ma mi risero in faccia: “quello”, mi dissero, “è un lavoro che fanno i ragazzini, non certo gli adulti come te.”
“E cosa fanno gli adulti come me?” Ebbi il coraggio di chiedere nonostante l’imbarazzo. “Un intellettuale come te di sicuro lavora in qualche ufficio.”
“E dove lo trovo un ufficio?” chiesi ancora.
Il tizio in risposta, si limitò a mandarmi al diavolo.
Me ne tornai nella mia nuova casa più sconsolato che mai e senza avere nessuna idea di come pagare l’affitto alla signora Palm senza ingannarla con la magia, cosa che non avevo nessuna intenzione di fare.
In primo luogo perché mi stavo nascondendo e qualsiasi attività magica nel mondo babbano avrebbe attirato l’attenzione del ministero, in secondo luogo per una questione di correttezza: c’erano già i miei vecchi compagni di casa a disprezzare i babbani e a prendersi gioco di loro e io non volevo essere della partita. Essere un mago razzista e arrogante mi avrebbe facilitato la vita, non posso negarlo, ma non si passa l’adolescenza a difendere un principio e ad evitare gli attentati di alcuni dei propri compagni di casa per poi cambiare idea di colpo, una volta fuori pericolo.
Quando seppero che ero senza lavoro, i miei coinquilini si dimostrarono molto comprensivi e mi offrirono una pinta al bar. Quando mi dimostrai preoccupato per la rata, uno di loro, Scott, mi battè una pacca sulla spalla e mi disse di non preoccuparmi: in fabbrica da lui cercavano nuovi operai e se non ero troppo schizzinoso, lì, un posto lui me lo poteva trovare.
Ero piuttosto nervoso ed eccitato all’idea di cominciare un nuovo lavoro in una fabbrica babbana ed ero preoccupato perché non sapevo cosa avrei dovuto fare e nemmeno cos’era una fabbrica, se non a grandi linee.
Scott mi sorrise: ”Amico,” disse con un sorriso ferino, ”l’unica cosa che devi sapere di una fabbrica è che è un posto in cui i poveracci come noi possono fare un sacco di soldi se lavorano sodo. Quelli del sindacato potrebbero spiegarti alla perfezione cos’è e poi dirti che tu devi combattere per i tuoi diritti o stronzate simili, ma non farti infinocchiare e stagli lontano. Se fai quello che dicono ti ritrovi con la paga ridotta o in mezzo alla strada e con la testa piena di idee inutili.”
Non avevo idea di cosa fosse un sindacato e glielo dissi. Lui rise, annegandosi quasi con la sua birra, e rispose: ”meglio così, amico. Meglio così!”
In quanto a quello che dovevo saper fare, mi disse, prendendo lunghi sorsi dalla sua pinta, l’avrei imparato facendolo. Non era difficile, lui, che tanto intelligente non era, l’aveva imparato in una settimana e ora era tra i migliori. Avrebbe risparmiato ancora per un paio d’anni e poi si sarebbe sposato con Laura un’italiana rossa di capelli, il massimo del massimo per certe cose.
Nonostante le sue rassicurazioni cercai comunque di prepararmi un discorso di presentazione per cercare di fare buona impressione sul padrone della fabbrica, ma, grazie a Dio, il giorno dopo Scott mi fece aspettare fuori, parlò per un po’ con un tizio e tornò a prendermi.
Ero assunto, mi disse, aveva parlato con il caposquadra, potevo iniziare subito.
Così iniziai, ma fu un disastro. Non riuscivo proprio a capire dove dovevo mettere le mani: il rumore mi assordava, le macchine mi impaurivano e incuriosivano allo stesso tempo ed ero così concentrato ad osservarle che non mi concentravo su quello che dovevo fare.
Combinai parecchi disastri prima che mi licenziassero, una settimana dopo, e mi avrebbero decurtato la paga con vero piacere, se Scott non li avesse convinti a consegnarmela il mio primo giorno.
Alla fine di quell' eterna settimana di tribolazioni, in cui avevo rischiato più volte di perdere un arto e mi erano quasi scappati degli incantesimi involontari, tutti i miei coinquilini erano convinti che fossi il rampollo un po’ scemo di una ricca famiglia giapponese caduta in rovina. Era quello il motivo per cui non sapevo niente delle fabbriche, non ero in grado di fare un qualsiasi lavoro manuale e non sapevo quanti pence stavano in una sterlina.
Erano riusciti a far quadrare tutto e avevano inventato una storia niente male.
Secondo loro, la mia famiglia gestiva una società commerciale e quando era fallita mio padre si era si era suicidato per la vergogna e mia madre era morta di dolore subito dopo, io non avevo avuto il coraggio di uccidermi, ma ero scappato in Gran Bretagna perché non potevo sopportare di vivere nel disonore.
Per questo non raccontavo nulla della mia famiglia, avevo gli incubi e spesso uno sguardo cupo e pensieroso.
Ero così colto, pur non avendo un titolo di studio perché i miei genitori, quand’ero piccolo, mi avevano affidato a un tutore.
Ero destinato a trattare con gli stranieri, per questo conoscevo  bene l’inglese.
I riferimenti strani che a volte mi scappavano? Il Giappone è una terra lontana era normale che ci fosse qualcosa di strano.
Inoltre Scott ripeteva a tutti che dovevo essere sicuramente un samurai, o un ninja, perché una volta, in fabbrica, ero riuscito a togliere la mano da sotto una pressa un secondo prima che me la tranciasse ed ero rimasto calmo in una maniera inumana. “Cazzo chiunque avrebbe perso la mano là sotto o si si sarebbe cagato nei pantaloni per la paura, ma lui invece sta lì, fermo immobile, e ha pure il coraggio di chiedermi se IO sto bene!” Ripeteva questa frase ogni sera e, arrivato a questo punto, beveva un lungo sorso per riprendersi. Anche se la mia calma era dovuta ad ignoranza (che avevo rischiato di perdere una mano l’avevo scoperto dopo) e i miei riflessi agli anni passati a duellare per i corridoi di Hogwarts, lasciai che Scott continuasse a raccontare la sua storia e a mimare i miei disastrosi tentativi di lavorare in fabbrica: gli altri clienti del pub parevano apprezzarli parecchio e ci offrivano sempre qualcosa da bere.
Tutto ciò, comunque, non faceva affatto bene alla mia autostima, ma rafforzava quella assurda storia di samurai e suicidi che mi forniva un ottima copertura. Meglio che si spargesse la voce che in città c’era un nobile nipponico decaduto che un mezzo giapponese strambo.
 
Il barista che mi aveva trovato la casa, mi trovò anche il mio secondo lavoro.
Era un Martedì della seconda settimana dopo il mio licenziamento ed ero andato a bere al suo pub, per disperazione. Avevo già speso il poco denaro che avevo guadagnato e quello che mi ero portato dal mondo magico pensando di tenerlo per le emergenze.
Avevo pagato l’affitto e stavo morendo di fame.
Nessuno mi assumeva più in fabbrica perché si era sparsa la voce della mia inettitudine. I miei coinquilini mi credevano un samurai e continuavano a darmi consigli assurdi e a offrirmi da bere. Mi mancavano i miei fratelli e i miei amici, mi mancava la magia e avevo una gran voglia di lanciare uno schiantesimo contro Scott, il barista (non Joe, quello del posto dove mi portava Scott) e la signora Palm. Il primo non chiudeva mai il becco e non perdeva occasione di fare battute volgari, il secondo mi guardava storto e mi parlava lentamente come se fossi uno scemo, la terza mi adorava perché le pagavo l’affitto e non perdeva occasione per parlar male con me di tutti gli altri inquilini e la cosa era davvero insopportabile.
Il terrore per i Mangiamorte che non mi aveva mai abbandonato era aumentato e non mi faceva più dormire e, quando riuscivo assopirmi, facevo sogni assurdi in cui babbani in Frac mi inseguivano con frullini elettrici, parlando del sindacato degli elfi domestici.
Joe, il barista, mi riconobbe: avevo gli stessi vestiti, ma più sporchi, e l’aria distrutta, mi disse che gli dispiaceva vedermi così e mi chiese se avevo problemi con la signora Palm. Gli risposi che la padrona di casa era gentilissima e che non mi dava problemi perché le avevo pagato il dovuto. Disse che lo sapeva perché lei era una brava donna e io un ragazzo d’oro e che sicuramente era colpa di quei poco di buono che vivevano con me. Non si perdonava la situazione in cui mi aveva cacciato, ma meglio così che pensarmi sotto i ponti. Tra una birra e l’altra, -“offro io ragazzo, non ti preoccupare”- finii per spiegargli tutta la faccenda, omettendo la parte sulla magia, sui frullini elettrici e sui mangiamorte. Insomma gli dissi che avevo perso il lavoro, che ero bandito dalle fabbriche della città e che mi perseguitavano strane creature verdi che puliscono le case.
Era un uomo gentile e non fece assolutamente caso all’ultima parte del discorso.
 
Mi disse che forse poteva aiutarmi ancora: un suo amico aveva bisogno di un cameriere nel suo ristorante ed io sicuramente sarei stato molto meglio di tutti gli altri zotici che venivano nel suo bar.
Aggiunse che gli dispiaceva propormi un lavoro come quello perché si vedeva che io ero uno che a scuola ci era andato, non come quegli ubriaconi che a stento sapevano scrivere il prorpio nome, ma che poteva essere un inizio, -“giusto per pagare l’affitto eh!? Chè mi dispiace che la signora non riceva il giusto..”- e che poi potevo cercare qualcosa di più adatto a me.
Il suo amico avrebbe sicuramente capito la situazione e mi avrebbe anche aiutato. Perché? Perché si vedeva che ero un bravo ragazzo, uno colto, mica uno scemo, e che mi meritavo qualcosa di meglio.
E poi baristi e ristoratori le persone le capiscono al volo: fa parte del mestiere. Se non capisci in fretta chi è un attaccabrighe, ti ritrovi il bancone spaccato e una rissa nel locale, bottiglie rotte e cocci dappertutto.
Gli dovevo solo promettere di non dimenticarmi del vecchio Joe e di venire a farmi una birra da lui ogni tanto, una cosa tra amici, -“perché ora siamo amici, vero?”- anche quando sarei diventato ricco e famoso.
Intanto quella sera di birre ne avevo finite tre e, amici o non amici, me le fece pagare fino all’ultimo centesimo.
  
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