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Autore: arya_stranger    11/04/2014    2 recensioni
Quando ti svegli in un luogo assurdo e non ti ricordi più niente la paura ti attanaglia lo stomaco e le viscere. Però un piccolo ricordo affiora lentamente, un viso, quello di un ragazzo. E se poi scoprissi che sei morto e che l’unica soluzione per tornare in vita è superare una missione? E se la missione fosse quella di aiutare delle persone confuse a ritrovare il loro cammino? Accetteresti?
E se poi ti innamorassi? Cosa faresti?
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(dal testo)
«Non sarei riuscito a descrivere a parole lo spettacolo delle stelle in una notte d’inizio agosto come quella. Forse perché non ce ne sono. Se non l’hai visto non potrai mai capire come è realmente. Sarebbe come spiegarlo ad un cieco. [...]
Da dove stavo, le stelle mi sembravano solo minuscoli puntini brillanti che luccicavano accanto alla luna; ma il realtà sono enormi masse di gas e nemmeno concentrandomi riuscivo ad immaginare la loro grandezza. Ci sono concetti, come l’infinito, che l’uomo non potrà mai capire per quanto si possa sforzare. [...]
Non siamo concepiti per comprendere queste cose. L’uomo è piccolo e non è altro che un acaro di polvere paragonato all'universo.»
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[FANFICTION REVISIONATA IL 19/08/15]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio, Un po' tutti | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Second Chance'
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5

La soluzione è guardare il cielo






 
La mattina dopo mi svegliai presto, nonostante l’ora che avevo fatto la notte prima. Andai in bagno e mi feci una doccia veloce, poi scesi in cucina dove Ed stava preparando la colazione.
«’Giorno» lo salutai.
«Hai dormito bene?» chiese lui.
Alzai di rimando le spalle: tutto sommato avevo dormito bene.
Per colazione non mangiai praticamente nulla, nello stomaco avevo come un peso che non lasciava passare il cibo normalmente. Non sapevo quale fosse la causa. Forse la consapevolezza sempre più presente del fatto che se non avessi aiutato le due persone che mi erano state affidate sarei morto, o forse, semplicemente il fatto di non avere certezze.
Ed mi riscosse bruscamente dai miei pensieri. «Come mai così pensieroso?» Domanda idiota.
Non risposi, e all’improvviso mi venne in mente il dubbio che mi ero appuntato mentalmente la sera precedente prima di addormentarmi.
«Senti Ed» cominciai, «ma se dovessi superare la prova avendo così la possibilità di tornare a vivere veramente, i miei familiari, gli amici, come la potrebbero prendere? Insomma, per loro sono morto.»
Ed mi squadrò e si lasciò andare su una sedia. «Helena non ti ha detto nulla?»
Scossi la testa. «Perché non avrebbe dovuto?»
«Non lo so Gerard, comunque non è un problema, te lo posso spiegare io, anche se è un po’ complicato.»
Prese un biscotto da una scatola di metallo che era sul tavolo e dopo averlo mangiato cominciò a parlare. «Queste seconde opportunità non vengono concesse molto spesso. In realtà chi le concede non spiega il motivo per cui lo fa, semplicemente avvisa le Guide e Helena. Comunque, nel caso in cui non dovessi superare questa prova sarai giudicato.»
Annuii. «Questo lo sapevo.»
«Bene, se invece dovessi superare la missione, non sarà semplice come pensi tornare in vita davvero.»
Rimasi un attimo spiazzato. Io avevo capito che, nel caso in cui avessi superato la prova, sarei tornato a vivere e basta, senza troppi problemi. Insomma, che altro ci sarebbe potuto essere?
«Nel momento in cui supererai la prova verrai mandato indietro nel tempo, esattamente qualche ora prima che avvenga la tua morte. Ovviamente conserverai tutti i tuoi ricordi di questo periodo, diciamo di “passaggio”.»
Ero confuso, assolutamente confuso, nulla aveva senso. Se per uno strano caso della sorte fossi riuscito ad aiutare chi dovevo, non era affatto tutto okay. Sarei tornato indietro fino al giorno della mia morte e alla fine avrei praticamente dovuto evitarla. Era assurdo! Se non ero riuscito a scampare una volta alla morte, era molto probabile che anche la seconda volta ripetessi lo stesso errore.
Esposi i miei pensieri a Ed.
«Gerard, io non ci posso fare nulla, le regole sono queste. Se riuscirai tornerai indietro nel tempo e proverai ad evitare la morte. Devi credere in te stesso. Alcuni ci sono riusciti! Devi solo far tesoro di quello che imparerai in questi quattro mesi» concluse.
«A me non sembra per nulla semplice» esclamai. «Perché non me l’avete detto prima?»
«Calmati, ora devi solo concentrarti sulla tua missione e cercare di aiutare Ray e la persona che verrà dopo di lui.»
«Smettetela di chiamarla missione, è un nome insensato» protestai innervosito.
«E come la vorresti chiamare? Vuoi un nome in codice?» mi provocò.
«Non è divertente» sbottai. «Comunque un nome adatto sarebbe “operazione suicidio”.»
«Ora sei tu quello che non è divertente.»
Gli lanciai un’occhiata infuriata, ma lui rimase completamente indifferente. Sapeva il fatto suo, e rispondere alle provocazioni non era la cosa migliore. Lui lo sapeva.
Ormai era troppo tardi per tornare indietro, non avrei potuto fare nulla per evitare tutto questo casino. Se avessi fallito la “missione”, poco male, sarei stato giudicato e fine. Se invece avessi avuto successo, avrei provato ad evitare la mia morte, altrimenti sarebbe andata a finire come nel primo caso. La morte mi aspettava comunque nel giro di pochi mesi, questo era poco ma sicuro.
Il fatto che però mi avessero taciuto tutto, mi faceva davvero arrabbiare; non c’era nessun motivo per farlo. Pensavano forse che se mi avessero detto tutta la verità non avrei accettato? Forse, era una possibilità, non ero così sicuro che avrei accettato ugualmente, ma  coloro che avevano giocato sporco erano loro, di certo non io.
Ed mi riscosse di nuovo dai miei pensieri. Ero un tipo che pensava molto e mi dava fastidio quando interrompeva il flusso di parole nella mia testa.
«Ehi Gerard, ti ricordi che io sono via tutta la notte e che stasera viene Ray, vero?»
Sospirai frustato. «Certo che me lo ricordo, mica sono scemo.»
«Bene.»
Cominciò a sparecchiare lentamente la tavola, mentre io ero ancora seduto su una di quelle sedie che, a dirla tutta, erano anche piuttosto scomode. Decisi di spostarmi sul divano e accesi la televisione.
Rimasi quasi tutta la mattina disteso lì, senza fare in realtà nulla, se non cambiare canale ogni due secondi, fino a quando non mi decisi a spengere quell’apparecchio inutile.
Andai nella mia camera al piano di sopra e cominciai a girare in tondo, per quanto la grandezza della stanza mi consentiva.
Era nervoso, terribilmente nervoso. Niente e nessuno in quel momento avrebbe potuto calmarmi. La mia testa era un accozzamento confuso di informazioni che non avevo ancora avuto il tempo di assimilare e sistemare ordinatamente. Mi sentivo come un tavolo incasinata e pieno zeppa di roba. Non è un granché come paragone, ma rende l’idea.
Alla fine decisi di sedermi davanti alla scrivania e rimasi un po’ a fissare l’album e le matite che non avevo ancora toccato da quando Helena le aveva fatte comparire. In realtà da quando mi ero svegliato nel “luogo” tutto bianco non avevo ancora mai disegnato. Ero riuscito a ricordare che mi piaceva farlo, ma non ci avevo ancora provato.
Poggiai entrambe le mani sulla superficie davanti a me, poi vi poggiai la testa sopra. Volevo disegnare, ma cosa? C’erano un milione di possibilità, peccato che non me ne venisse in mente nemmeno una. Un paesaggio? No, non mi andava, e poi non avevo nessun modello che avrei potuto prendere come esempio. Pensai a cosa nella mia mente era più chiaro. In realtà di chiaro avevo poco e nulla. Poi riaffiorò come da un sogno quel viso. Mi veniva in mente spesso a dire la verità, ma ogni tanto si seppelliva in mezzo alle nuove informazioni e lì vi rimaneva, finché quel ricordo non era in qualche modo sollecitato e tornava fuori.
Il suo viso regolare, le labbra sottili e morbide, gli occhi nocciola-verde grandi e dolci, i capelli scuri scomposti e spettinati che ricadevano sulla fronte e ai lati del viso. Mi era tutto perfettamente nitido se pensavo a quel ragazzo. La sua immagine era impressa nella mia testa come un francobollo su una lettera. Era incredibile come, in quel momento di assoluto spaesamento in cui mi ritrovavo, lui fosse così assolutamente unico. Pensavo che col tempo il suo ricordo si sarebbe sbiadito, come succede a tutti quando non vedono da molto una persona, ma con me era il contrario. Tutte le volte si aggiungeva qualche dettaglio: l’aria innocente eppure inquieta, oppure un ciuffo di capelli che gli ricadeva esattamente sopra l’occhio destro.
Aprii l’album alla prima pagina e me lo sistemai bene davanti, poi cominciai a spulciare fra le tante matite, per vedere quali colori vi si trovassero. Prima tracciai il contorno degli occhi, leggero, dell’iride e della pupilla; la linea delle sopracciglia per poi tornare all’occhio, e disegnare le ciglia scure.
Feci lo stesso con l’altro occhio e mi fermai un attimo per vedere il risultato. Be’, non era male.
Ripresi il lavoro delineando la curva del naso, scurii poi i fori delle narici. Decisi di proseguire con la bocca e la incurvai in quel sorriso triste che aveva. Avrei voluto farlo felice come volevo che fosse, ma se nel mio ricordo non lo era, un motivo c’era sicuramente e non volli cambiare le cose. Dopo la bocca tracciai finalmente il contorno del viso: le tempie, gli zigomi, le guance, per finire con il mento. Mi fermai una seconda volta: stava venendo piuttosto bene. Continuai disegnando la curva del collo, poi non andai oltre, perché nella mia mente l’immagine del ragazzo si fermava lì, e non avrebbe avuto senso inventarmi il resto. Poteva essere magrolino e basso oppure un gigante robusto, anche se optai per la prima.
Tornai in alto dove tracciai con una matita nera delle linee per creare i capelli disordinati.
Dopo aver finito di delineare i tratti principali del suo viso cominciai ad aggiungere dettagli. Le rughe di espressione sulla fronte e intorno alla bocca causate dal mezzo sorriso le feci appena accennate per non caricare troppo il ritratto. Ombreggiai gli occhi sia sulla palpebra che al di sotto della rima inferiore delle ciglia, cercando di non accentuare troppo le occhiaie, che non aveva. Definii la linea delle sopracciglia con una matita più scura di quella che avevo usato in precedenza e feci un piccolo puntino sotto lo zigomo destro, deve stava un piccolo neo che all’inizio non avevo notato.
Tracciai altre ombreggiature, sotto il collo, sotto gli zigomi e sotto l’arcata sopraccigliare. Infine completai i capelli che avevo lasciato a metà.
Rimasi a guardarlo a bocca aperta, non tanto per il disegno in sé, ma per il fatto che io non avevo mai visto il soggetto che avevo ritratto eppure era talmente pieno di dettagli che se ce l’avessi avuto davanti non avrei neppure notato. E poi quel ragazzo era bello, incredibilmente bello. Non capivo come, in tanta bellezza, potesse esserci spazio per un sorriso così malinconico, era inconcepibile.
Quando finii di fissare (perché era quello che stavo facendo)  il disegno, cercai nei cassetti della scrivania una puntina o qualcosa per poterlo attaccare al muro. Guardai per tutta la camera, ma non trovai nulla, allora capii che forse era meglio tenere quel disegno solo per me. Era meglio se nessuno lo vedeva, in particolare Ed. Sapevo che avrebbe fatto troppe domande a cui io non avrei saputo rispondere e alle quali comunque non avevo la minima intenzione di rispondere.
Strinsi il disegno al petto, nel tentativo di far affiorare un altro ricordo relativo al ragazzo. Forse era un mio amico che ora soffriva per la mia morte. Ma non ricordavo niente se non il suo viso.
Riposi il foglio, che ormai non era più un semplice pezzo di carta, ma un pezzo di me, nell’armadio sotto ad una pila di felpe; lì non l’avrebbe trovato nessuno.


Avete presente quando la noia rischia di uccidervi e pur di non passare un solo attimo in più senza fare nulla vi mettereste a fare conversazione con il primo barbone che trovate per la strada? Bene, era quello che stava succedendo a me. Avevo passato tutto il pomeriggio cercando di fare l’incazzato con Ed, cosa che comunque non mi era riuscita molto bene, e a passare da una stanza all’altra, senza meta.
Quando Ed se ne era andato, ero poi uscito in giardino per prendere un po’ d’aria. Avevo sentito Ray quel pomeriggio, e mi aveva detto che sarebbe arrivato poco dopo le otto, appena avesse finito il suo turno di lavoro; io avevo ordinato la pizza.
Alle otto e dieci sentii suonare il campanello, e andai ad aprire.
«Ciao Ray» dissi sorridente.
«Ciao Gerard, ho portato la birra» fece lui entrando.
«Fantastico, io ho ordinato la pizza. Dovrebbe arrivare fra poco.»
Gli feci fare un breve giro della casa e quando arrivò la pizza ci mettemmo a mangiare.
«Senti» fece lui ad un certo punto, «Ho chiamato due o tre amici, gli ho detto di venire qui verso le nove, spero non ti dispiaccia.»
Mi strozzai quasi con il boccone di pizza che avevo appena ingoiato. «No, no. Va benissimo!»
In realtà non sapevo se andasse benissimo o no, ma ormai lo consideravo un amico, e i suoi amici erano i miei, quindi pensai che tutto sommato non era una cattiva idea.
Per ingannare il tempo ci mettemmo a guardare la televisione me dopo poco arrivarono gli amici di Ray. Erano quattro, due ragazzi e due ragazze. Mi dissero i loro nomi, ma ovviamente dopo dieci secondi me li scordai. Poco male, nel giro di due mesi non li avrei mai più rivisti.
Una delle due ragazze si appropriò di metà del divano e praticamente mi ordinò di mettere il dvd che aveva portato.
Sinceramente non mi andava di vedere un film, in particolare quello che aveva portato lei, che sicuramente avrei odiato.
Comunque, cinque minuti dopo l’inizio, la mia mente cominciò a vagare altrove e persi completamente la trama del film.
Andai a prendere i pop-corn e li lasciai agli altri che me li strapparono praticamente di mano ignorandomi e continuando a guardare il film.
Eravamo a meno di metà film quando vidi Ray che lentamente passava davanti al televisore abbassandosi e andando verso la porta, l’aprì e uscì fuori. Naturalmente lo seguii, lo dovevo aiutare oppure no?
Presi la felpa che avevo lasciato su una sedia in cucina e me la infilai prima di uscire.
Ray era appoggiato alla staccionata che divideva la casa dal vialetto d’entrata e fissava il suo cellulare con sguardo assente. Mi avvicinai facendo rumore per annunciare la mia presenza.
«Tutto okay?» gli chiesi. Sembrò non sentirmi così ripetei la domanda.
Alla fine alzò la testa verso di me. «Sì, tutto okay.»
Non mi lasciai convincere e insistei. «Non mi pare sia tutto apposto.»
«Davvero Gerard, non ti devi preoccupare» mi supplicò.
Non dissi più nulla ma mi misi a fissarlo, come per metterlo in soggezione.
Sospirò. «Sei impossibile!» borbottò. «E va bene, mio padre mi ha mandato un messaggio. Mia madre un po’ di tempo fa è stata malata di cancro. Sembrava guarita, ma a quanto pare non lo era.»
Rimasi un attimo impalato davanti a quella rivelazione, non me ne aveva mai parlato. In effetti ci conoscevamo da poco, era normale.
«E tuo padre ti dice una cosa del genere con un sms?» domandai sconvolto alla fine.
«Evidentemente.»
«Dove è adesso lei?» chiesi riferendomi a sua madre.
«All’ospedale, penso. Ma è meglio se non ci vado, rischierei solo di litigare con mio padre. Andrò a trovarla domani quando lui è al lavoro.»
«Sei sicuro? Se vuoi vengo con te» proposi.
«Non è necessario, davvero, vado domani» affermò lui convinto.
«Va bene, ma se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiamare.»
Lui annuì e poi tornammo dentro dagli altri, che erano ancora impalati davanti alla televisione e non si erano nemmeno accorti che non eravamo più con loro.


Per fortuna il film finì e se ne andarono tutti. Dissero che sarebbero andati in un certo pub, e mi proposero di andare con loro. Ray però disse che sarebbe andato a casa, così declinai l’offerta: non aveva senso andare se Ray non c’era.
Presi un sacchetto di pop-corn che nessuno aveva mangiato e andai nel giardino sul retro. Sistemai una delle sedie che c’erano lì in modo che nessuna casa o albero mi coprisse la visuale del cielo, poi mi ci misi a sedere alzando la testa verso l’alto.
In quel momento pensai che guardare le stelle era una cosa che amavo. Era meglio di qualsiasi film o spettacolo, e rilassava mille volte di più. Non sarei riuscito a descrivere a parole lo spettacolo delle stelle in una notte d’inizio agosto come quella. Forse perché non ce ne sono; se non l’hai mai visto non potrai mai capire come è realmente. Sarebbe come spiegarlo ad un cieco.
Mi infilavo i pop-corn uno alla volta in bocca, lentamente, mentre osservavo le stelle una ad una.
Da dove stavo mi sembravano solo minuscoli puntini brillanti che luccicavano accanto alla luna, ma il realtà erano enormi masse di gas e nemmeno se mi sforzavo riuscivo ad immaginare la loro grandezza. Ci sono concetti, come l’infinito, che l’uomo non potrà mai capire per quanto si possa concentrare. Pensateci un attimo: immaginate la cosa di più grande che vi viene in mente e ingigantitela fino all’inverosimile. Sono sicuro che alla fin troverete un limite. Se immagino l’oceano, vedo un’immensa distesa d’acqua, ma alla fine c’è anche l’orizzonte. Se immagino il deserto vedo tanta sabbia, ma alla fine ci sarà qualche duna che mi bloccherà la visuale e poi non vedrò più nulla.
L’uomo non è fatto per comprendere questi concetti, l’uomo è piccolo, ed è niente in confronto a tutto quello che abbiamo intorno. Ci crediamo i più intelligente solo perché abbiamo scoperto come accendere un fuoco o come far parlare due persone anche se si trovano in due parti del mondo diverse, ma non è nulla paragonato all’universo. Siamo solo minuscoli acari di polvere in qualcosa di troppo grande e la maggior parte delle volte nemmeno ce ne rendiamo conto. Non siamo padroni di nulla, pensiamo di poter comandare tutto e tutti, ma chi ci dice che su Giove non ci sia una specie miliardi di volte più evoluta di noi che volendo ci potrebbe ridurre in cenere in un nano secondo? E a quel punto noi piccole nullità non saremmo mai esistite e nessuno porterà con sé il ricordo di noi. E cosa potremmo fare? Nulla, perché saremo impotenti ai fatti. E allora perché pensiamo di essere invincibili? Forse perché siamo stupidi e non ci fermiamo mai a guardare il cielo.
Sì, perché la soluzione a tutto questo è fermarsi un attimo a guardare il cielo, non ci vuole molto, basta alzare un po’ la testa, può farlo anche un bambino. A quel punto, se tutti lo facessimo ogni tanto, le cose andrebbero meglio, ne sono sicuro. Uno sguardo in alto e tutti i problemi svanirebbero.


Ed tornò la mattina dopo. Io senza accorgermene mi ero addormentato in giardino, con il pacchetto dei pop-corn fra le mani. Ed mi aveva trovato lì e mi aveva svegliato.
Mi sentivo tutto intorpidito per aver dormito tutta la notte in quella posizione assurda e tornai a letto fino all’ora di pranzo.
«Tutto bene ieri sera?» Stavamo mangiando, ma nessuno aveva ancora detto una parola.
«Sì, tutto bene» mormorai. Poi alzai la testa verso di lui e gli feci una domanda. «Ma tu lo sapevi che la mamma di Ray ha avuto il cancro?»
Lui scosse la testa. «No, perché?»
«Ieri sera mentre stavamo guardando un film suo padre gli ha mandato un sms dove diceva che era stata portata all’ospedale» spiegai. «A quanto pare non aveva sconfitto del tutto il tumore.»
«Oh» fece lui, «mi dispiace. E come ti è sembrato?»
«Chi? Ray? Non lo so.»
«Che vuol dire che non lo sai?» chiese lui insistente.
«Vuol dire che non lo so.» Presi il mio piatto ancora mezzo pieno e lo posai sul lavello, poi borbottai qualcosa nella direzione di Ed e, dopo aver preso il telefono, me ne andai.
In realtà non avevo la minima idea di dove poter andare, ero uscito di casa solo per poter stare da solo, non perché avessi una meta precisa.
Cominciai a vagare per quella cittadina, che in quell’afoso pomeriggio d’inizio agosto era mezzo deserta. Dopo un po’ trovai un parco, dove alcuni bambini stavano giocando, mentre le madri parlottavano fra loro.
Mi sedetti svogliato su una panchina e lo sguardo mi cadde sulle mie unghie. Da quando, nel “luogo” tutto bianco, me le ero mangiucchiate a sangue erano ricresciute e la carne viva non si vedeva più. Stesi una mano di fronte a me e dopo averla abbassata, davanti mi si presentò una scena che mi intenerì. C’era un bambino seduto su una panchina come quella in cui ero seduto io, aveva i pantaloni corti e dall’orlo spuntava la carne rosa che in un punto era più scura. Capii che doveva essere cascato e si era sbucciato il ginocchio. Sua madre, almeno pensavo, era inginocchiata davanti a lui e soffiava delicatamente sulla ferita. Il bambino piangeva piano, cercando di non farsi sentire, forse per orgoglio, forse per non farsi notare dagli altri bambini. La mamma alzò lo sguardo sul viso del figlio e gli asciugò delicatamente le lacrime, poi lo prese in braccio e lo portò via.
Rimasi a fissarli mentre se ne andavano e un ricordo riaffiorò nella mia mente.


Un bambino piccolo, nel giardino di una bella casa, gioca per terra con delle macchinine. Si alza per andare a prendere qualcosa, ma a metà percorso cade e si fa male ad un gomito. Comincia a piangere e dopo poco arriva una donna, bella e alta, con i capelli lunghi. Prende in braccio il bambino e lo stringe a sé, poi lo porta dentro la casa.


Quel bambino ero io, e quella donna mia madre.
Era il primo ricordo che, da quando era successo tutto, mi era tornato in mente. Era un episodio piuttosto insignificante, ma mi aprì come uno spiraglio nella mente, una breccia che ero sicuro col tempo mi avrebbe aiutato a ricordare di più.
Mi alzai e ripresi a camminare. Girai per il parco quasi tutto il pomeriggio, poi ripresi la strada verso casa. Appena arrivato avrei chiamato Ray per sentire come stava sua madre e soprattutto per sentire come stava lui.
Aprii la porta e quando entrai vidi Ed che seduto sul divano guardava distrattamente la tv. Non mi salutò nemmeno e io salii per andare in camera. Mi buttai sul letto e presi il telefono dalla tasca. Mandai un messaggio veloce a Ray, il quale rispose subito. “Tutto okay, ci vediamo domani mattina e andiamo da mia madre.” Mi sentii sollevato dal fatto che volesse condividere quella cosa con me, mi faceva sentire importante. Se lui si fidava di me, allora sarebbe stato più semplice aiutarlo.   
Mi alzai di scatto dal letto, e la testa per un attimo mi girò, poi aprii l’armadio e presi il disegno del ragazzo che avevo fatto la mattina precedente. Mi ridistesi sul letto e mi misi una coperta addosso. Mi strinsi il disegno al petto e ripensai al ricordo che era riaffiorato quel pomeriggio. Sapevo che era un piccolo passo, ma per me era un traguardo enorme. Adesso anche il viso di mia madre era impresso nella mia testa.
Ero assolutamente spaesato, non avevo certezze e, per quanto ne sapevo, quella donna che chiamavo “mamma”, poteva essere una prostituta, e mio padre un alcolizzato violento. Ma c’era anche molte possibilità che fossero due bravissime persone, ed era quello che nel fondo del mio cuore sapevo.
In quella situazione la verità era che non ero io a dover aiutare qualcuno, ma ero io ad aver bisogno d’aiuto. Avevo assolutamente bisogno di una mano che mi aiutasse ad alzarmi e mi desse la forze per non mollare e tornare a vivere veramente. Ma quella persona non c’era. Non era di certo Ed, nemmeno Helena, considerando che non l’avrei più vista e non era nemmeno Ray. L’unica cosa che mi dava una spinta erano i pochi ricordi che avevo: l’episodio con mia madre e il viso del ragazzo. Quest’ultimo, comunque, era ciò che mi aiutava maggiormente. Il suo semplice, seppur triste sorriso, mi consolava, come niente e nessuno avrebbe saputo sicuramente fare, se non quella persona in carne ed ossa. 

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