Insicura sul mio precario stato di solitudine, decisi
per il peggio, e osai attraversare l’arco di pietra che sostava impassibile sul
fondo della sala.
L’oscurità mi avvolse quasi istantaneamente.
Rimasi assai sorpresa dall’odore che aleggiava nell’aria.
Perché in realtà, nessun aroma riempiva l’atmosfera. Da un soffitto così alto e
da mura così antiche si sarebbe dovuto sprigionare un odore di secoli, di vite
passate, di bevute, risate, pianti e cibo.
Inspirai di nuovo. Aria. Non avrei potuto
classificare quell’essenza diversamente.
Cominciai a singhiozzare convulsamente. Il mio petto
da uccellino si alzava e si abbassava freneticamente, impazzito. Mi sentii
piccola, insignificante, incapace di prendermi cura di me stessa. Una sottana. Una
sottana a cui aggrapparmi. Braccia calde che mi elevano al proprio livello. Baci.
Carezze.
Potei quasi percepire una mano velata posarsi materna
sulle mie spalle. Non era così, ovviamente. Eppure, un respiro caldo stava
effettivamente scaldando il mio collo.
Due piccole braccia si avvinghiarono ai miei fianchi,
stringendomi disperatamente, come ultimo baluardo della propria salvezza. Sentii
un rivolo umido di saliva bagnarmi dentro il colletto.
Mi pietrificai.
-Non lasciarmi, per favore. Non lasciarmi, non
lasciarmi. Uccidimi se vuoi ma non lasciarmi. – mormorò una bocca piccola e
carnosa contro il mio collo.
Lentamente, mi decisi a voltarmi e a fissare negli
occhi quello che poteva rivelarsi il fautore del mio destino.
Ma a specchiarsi nei miei fu solo il riflesso spaurito
di una bambina.
Non la si poteva certo definire graziosa. Gli occhi
azzurri e sporgenti simili a quelli di una rana impazzita sotto il sole
rendevano il suo volto pallido e spettrale.
Flosci capelli le scendevano fino alle caviglie,
sporchi e arruffati. Il volto era chiazzato di rosso e marrone, e il labbro
tremante era spaccato in due.
-No, no, no, no, no, no, no, no, no, adesso cosa vuoi
farmi? Perché mi vuoi fare del male? – era ormai ridotta alla disperazione più
totale, e si accasciò a terra mugolando e reggendosi la testa ciondolante.
-Io non ti voglio fare del male, guarda…- mostrai il
mio volto alla luce, ma subito dopo mi accorsi di aver commesso un grande
errore. Non conoscendo le fattezze dei miei tratti, sarei potuta essere il più
orribile dei mostri, terrorizzando a morte la bambina.
Eppure, smise di contorcersi. E mi fissò, con quei
terribili occhi.
-Bambine! Piccole! Venite, venite!- urlò a figure
alle sue spalle che solo in quel momento si avvicinarono furtive. Quattro piccole
testoline la aiutarono a rialzarsi, mute e guardinghe. Dopodiché, si disposero
in un fila perfetta, e la bambina centrale fece cenno verso di me.
-Vieni, andiamo nella piccola stanza.- ordinò. Sì. Non
chiese, non domandò. Semplicemente, imperativamente, mi ordinò di seguirla. E in
mancanza di scuse, in mancanza di qualsiasi altro appoggio, la seguii.
La piccola stanza era in realtà ciò che rimaneva di
una lavanderia, piena di mastelli in pietra e legno, con spazzole di varia
grandezza appese alle pareti. Notai immediatamente che tutto lo sfarzo e la
disincantata bellezza della sala precedente aveva ceduto il passo ad un
ambiente modesto, servile, nel quale aleggiava povertà e sottomissione. Il brusco
cambiamento di armonia mi turbò molto, seppure non visibilmente.
Intanto, le piccole cinque si erano adagiate ognuna
dentro il proprio mastello, che fungeva da fortino individuale. Quella che mi
aveva ordinato di seguirla si alzò dal suo, nell’inconfondibile imitazione di
un capo di stato che si appresta a fare un discorso alle folle.
Notai che anch’essa non brillava per gradevolezza dei
tratti: sul collo tozzo era appoggiata una testa squadrata, adorna di due occhi
piccoli e lucenti incorniciati da capelli corti e castani. Mi indicò di nuovo.
-Chi sei?-
-Io…. Non credo di ricordare bene… mi sono svegliata
qui e…-
-Chi sei? Parla. Chi ti manda? Cosa vuoi farci?- il
tonò diventò severo e innaturale per un corpo così infantile e minuscolo.
-…Mi sono risvegliata su un altare di pietra e poi…-
Lei mi fissò. Lanciò una breve occhiata alle altre.
Sospirò.
-…un altare di pietra.. Poi hai scoperto di essere
una bambina. E poi, tristemente, di non ricordare più il tuo aspetto. –
concluse.
-Si.- ammisi, stringendomi nelle mie spalle
ristrette.
-Come ti chiami?- il suo tono si addolcì, materno.
-Flora.-
-e…- azzardò –quanti anni hai, Flora?-
-Ventisette. Ne ho diciannove. – chinai il capo quasi
fino a terra.
Le bambine si lanciarono altre brevi occhiate. La
bruna parlò di nuovo.
-Mi chiamo Caterina. Ho quarantasei anni. – affermò.
Sembravamo fantasiose bambine lì radunate, che
giocavano ad infantili drammi di simulazione, infilandosi le collane delle
madri e bevendo finto vino da brocche rubate alla cuoca. Eppure ciò suonava
crudamente vero.
La piccolina terrificante che si era aggrappata a me
si alzò dal suo mastello, e si presentò, ancora palpitante.
-Io mi chiamo Maria. Ho compiuto diciotto anni lo
scorso Aprile.- si guardò intorno, spaurita, magari aspettandosi che le altre
le dassero contro “no no no” “bugiarda”.
-Io sono Costanza. Sto per compiere trentadue anni. –
affermò una vivace biondina tutta boccoli e fossette.
-Il mio nome è Vera, e ho cinquantanove anni-
chiocciò una nanerottola dal viso paffuto e dall’ardito taglio alla paggetta.
-E io sono Carolina…
Notai con rinnovato interesse che quella che stavamo
formando, sia dalla loro disposizione che dai loro modi, somigliava già
vagamente ad una democrazia.
Era dunque questo l’istinto umano? Razionalizzare,
disporre, ordinare per non impazzire? Delle bambine di età non superiore ai
nove anni che formavano già un comitato gerarchico del potere?
-…. E ho trentasei anni. – la piccola lady –dai modi
si capiva istantaneamente il suo rango, composta, educata e in qualche modo
posata e tranquilla nel caos- si risedette con garbo e con le altre aspettò un
mia reazione.
-Perché?- chiesi.
Caterina continuava a fissarmi. –oh, cara.- posso
chiamarti cara, vero, sei molto più giovane di me stando a ciò che affermi-
vedi, io non parto da presupposizioni azzardate, solitamente. Ma devi sapere
che nella mia mente annebbiata spicca un altro audace ricordo, correggimi se
non è anche il tuo. Vedi, piccola, io ERO MORTA.-
Le altre bambine annuirono. Di nuovo, un tuffo nell’imminente
passato.
-Che
buio, Flora. Che buio meraviglioso. – un sorriso di un angelo biondo, tutto per
me.
-Sono
così felice, Flora, sono così felice. Sono così felice che beh… si… muoio…- un
altro angelo biondo, sempre per me. Mi stringe la mano. Mi dice che mi ama.
-Anche
io ti amo Flora.- un’altra mano afferra la mia vuota.
-E
io amo te, Nerea. E amo anche te, Numa.- un bacio. Un altro bacio. La ragazza
mi abbraccia. Il ragazzo ci stringe entrambe.
-Amo
anche te, Nerea. – il ragazzo la bacia. –Ti amo, Numa.- lei lo afferra per la
vita.
Ci
sfioriamo tutti e tre per l’ultima volta. La mia bocca si chiude prima su
quella di Numa, poi su quella di Nerea. Siamo di nuovo per mano. Saremo sempre
per mano. Non diciamo niente prima di saltare nel buio. Solo, le nostre teste
si appoggiano. Chiudiamo gli occhi. Spicchiamo il volo.
-…. Nella vasca. L’acqua penetrava ovunque. Nei miei
occhi, nelle mie orecchie, nel mio cervello…. Fino a che… non fui acqua anche
io…. E poi, io non ricordo nulla, solo un grande vuoto…. – Caterina scuote la
testa, amareggiata.
-Tutte noi abbiamo qualcosa in comune riguardo la
nostra morte.- precisò Carolina. –Siamo tutte morte suicide. Io mi sono tagliata le vene nel labirinto d’erba.- non un’ombra
attraversa i suoi occhi chiarificatori. –Morte suicida e violenta, per giunta.-
-Maria è morta impiccata. Costanza si è lasciata
travolgere da un treno in corsa. Vera si è amputata la lingua ed è morta
soffocata – continuò Caterina. Vera sospirò, timida e colpevole.
-è successo anche a te, Flora? Sei morta suicida?-
chiese educatamente Costanza.
Per un po’ non riuscii a parlare. Ero così felice di
volare verso la fine con le due persone che amavo. Ero così sicura di me per la
prima volta in vita mia. Ero certa che di lì a poco mi sarei risvegliata al
loro fianco, per sempre insieme e felici, così illusi e incantati dalla nostra
risolutezza ciechi e inconsapevoli che il nostro piano non avrebbe avuto buon
fine. Forse l’aveva avuto, forse Nerea e Numa giacevano assieme in eterno, ma
io no. Perché? Perché nemmeno nella morte avevo ottenuto ciò che più volevo? La
rabbia e la frustrazione mi assalì.
Piangevo ormai. Piangevo senza ritegno, mi
contorcevo, strillavo, lacerata da un dolore più grande di me, cominciai a
graffiarmi come la nonna, e forse mi sarei anche amputata tutte le dita se
Costanza e Vera non mi avessero bruscamente afferrata e immobilizzata.
-VOGLIO MORIREEEE u…uccidimi uh.. uccidimi strappa la
mia a..ah…animaaah da q..quiiii nn..noooon voglio vivere non provo niente, non
sento più nulla o..ddiohhh AAAAAAAAAH ti p…preeg…oohhhh… s…sono m..mooorta…. è
l’inferno q…questo?- mi chiesi –è L’INFERNO? DOVE SONO Numa e Nereahh perché io
e basta!!?- mi dibattei con più furia che mai, ma erano due ed io ero troppo
piccola e gracile. Cedei.
Maria mi porse un po’ d’acqua in una ciotola, e mi
spruzzò il viso. Continuai a singhiozzare, muta. Espirai dopo un secolo. Loro erano
rimaste in silenzio, complici nel dolore. Tutte noi avevamo creduto di trovare
una risposta, una salvezza. Tutte noi avevamo trovato il caos, l’assurdo.
-Mi sono gettata da un ponte. Mi sono gettata da un
ponte con le due persone di cui ero innamorata. Di cui sono innamorata.- mi
corressi. –Credevo che avremmo trovato la pace e che ci saremmo appartenuti per
sempre. Ma.. ma… non… non li vedo qui.. e comincio a credere.. che non li
rivedrò mai più- crollai di nuovo in ginocchio, e Carolina mi abbracciò
fortissimo, disperatamente.
-Lo so piccola. Lo so che fa tanto male. Lo so
credimi, lo so, perché io non sono morta insieme alla mia metà. La mia anima è
morta insieme ad essa, ma il mio corpo ha sopravvissuto per dodici anni. Mi sono
detta, vivi, vivi per i tuoi figli, ma poi, le acque si sono portate via anche
loro. – sempre lo stesso sguardo posato, ma stavolta fisso, vitreo, folle nella
sua calma. –e la mia sorellina è annegata nel tentativo di salvarli, salvarli
per me.-
Caterina, provata, si gettò su noi due. Così fece
anche Maria, Costanza e Vera. Ci unimmo in un unico abbraccio sussultante. Un
unico piccolo corpo come il nostro non avrebbe sopportato da solo tutto quella sofferenza.