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Autore: Ethelweiss    12/07/2008    0 recensioni
Sette bambine che non ricordano il loro volto si risvegliano su un altare sacrificale. Le loro menti si incontreranno aldilà della morte e della vita. Coloro che hanno sempre evitato la vita, conosceranno la morte ed il dubbio in tutte le sue forme.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Suicide girl

Insicura sul mio precario stato di solitudine, decisi per il peggio, e osai attraversare l’arco di pietra che sostava impassibile sul fondo della sala.

L’oscurità mi avvolse quasi istantaneamente.

Rimasi assai sorpresa dall’odore che aleggiava nell’aria. Perché in realtà, nessun aroma riempiva l’atmosfera. Da un soffitto così alto e da mura così antiche si sarebbe dovuto sprigionare un odore di secoli, di vite passate, di bevute, risate, pianti e cibo.

Inspirai di nuovo. Aria. Non avrei potuto classificare quell’essenza diversamente.

Cominciai a singhiozzare convulsamente. Il mio petto da uccellino si alzava e si abbassava freneticamente, impazzito. Mi sentii piccola, insignificante, incapace di prendermi cura di me stessa. Una sottana. Una sottana a cui aggrapparmi. Braccia calde che mi elevano al proprio livello. Baci. Carezze.

Potei quasi percepire una mano velata posarsi materna sulle mie spalle. Non era così, ovviamente. Eppure, un respiro caldo stava effettivamente scaldando il mio collo.

Due piccole braccia si avvinghiarono ai miei fianchi, stringendomi disperatamente, come ultimo baluardo della propria salvezza. Sentii un rivolo umido di saliva bagnarmi dentro il colletto.

Mi pietrificai.

-Non lasciarmi, per favore. Non lasciarmi, non lasciarmi. Uccidimi se vuoi ma non lasciarmi. – mormorò una bocca piccola e carnosa contro il mio collo.

Lentamente, mi decisi a voltarmi e a fissare negli occhi quello che poteva rivelarsi il fautore del mio destino.

Ma a specchiarsi nei miei fu solo il riflesso spaurito di una bambina.

Non la si poteva certo definire graziosa. Gli occhi azzurri e sporgenti simili a quelli di una rana impazzita sotto il sole rendevano il suo volto pallido e spettrale.

Flosci capelli le scendevano fino alle caviglie, sporchi e arruffati. Il volto era chiazzato di rosso e marrone, e il labbro tremante era spaccato in due.

-No, no, no, no, no, no, no, no, no, adesso cosa vuoi farmi? Perché mi vuoi fare del male? – era ormai ridotta alla disperazione più totale, e si accasciò a terra mugolando e reggendosi la testa ciondolante.

-Io non ti voglio fare del male, guarda…- mostrai il mio volto alla luce, ma subito dopo mi accorsi di aver commesso un grande errore. Non conoscendo le fattezze dei miei tratti, sarei potuta essere il più orribile dei mostri, terrorizzando a morte la bambina.

Eppure, smise di contorcersi. E mi fissò, con quei terribili occhi.

-Bambine! Piccole! Venite, venite!- urlò a figure alle sue spalle che solo in quel momento si avvicinarono furtive. Quattro piccole testoline la aiutarono a rialzarsi, mute e guardinghe. Dopodiché, si disposero in un fila perfetta, e la bambina centrale fece cenno verso di me.

-Vieni, andiamo nella piccola stanza.- ordinò. Sì. Non chiese, non domandò. Semplicemente, imperativamente, mi ordinò di seguirla. E in mancanza di scuse, in mancanza di qualsiasi altro appoggio, la seguii.

 

La piccola stanza era in realtà ciò che rimaneva di una lavanderia, piena di mastelli in pietra e legno, con spazzole di varia grandezza appese alle pareti. Notai immediatamente che tutto lo sfarzo e la disincantata bellezza della sala precedente aveva ceduto il passo ad un ambiente modesto, servile, nel quale aleggiava povertà e sottomissione. Il brusco cambiamento di armonia mi turbò molto, seppure non visibilmente.

Intanto, le piccole cinque si erano adagiate ognuna dentro il proprio mastello, che fungeva da fortino individuale. Quella che mi aveva ordinato di seguirla si alzò dal suo, nell’inconfondibile imitazione di un capo di stato che si appresta a fare un discorso alle folle.

Notai che anch’essa non brillava per gradevolezza dei tratti: sul collo tozzo era appoggiata una testa squadrata, adorna di due occhi piccoli e lucenti incorniciati da capelli corti e castani. Mi indicò di nuovo.

-Chi sei?-

-Io…. Non credo di ricordare bene… mi sono svegliata qui e…-

-Chi sei? Parla. Chi ti manda? Cosa vuoi farci?- il tonò diventò severo e innaturale per un corpo così infantile e minuscolo.

-…Mi sono risvegliata su un altare di pietra e poi…-

Lei mi fissò. Lanciò una breve occhiata alle altre. Sospirò.

-…un altare di pietra.. Poi hai scoperto di essere una bambina. E poi, tristemente, di non ricordare più il tuo aspetto. – concluse.

-Si.- ammisi, stringendomi nelle mie spalle ristrette.

-Come ti chiami?- il suo tono si addolcì, materno.

-Flora.-

-e…- azzardò –quanti anni hai, Flora?-

-Ventisette. Ne ho diciannove. – chinai il capo quasi fino a terra.

Le bambine si lanciarono altre brevi occhiate. La bruna parlò di nuovo.

-Mi chiamo Caterina. Ho quarantasei anni. – affermò.

Sembravamo fantasiose bambine lì radunate, che giocavano ad infantili drammi di simulazione, infilandosi le collane delle madri e bevendo finto vino da brocche rubate alla cuoca. Eppure ciò suonava crudamente vero.

La piccolina terrificante che si era aggrappata a me si alzò dal suo mastello, e si presentò, ancora palpitante.

-Io mi chiamo Maria. Ho compiuto diciotto anni lo scorso Aprile.- si guardò intorno, spaurita, magari aspettandosi che le altre le dassero contro “no no no” “bugiarda”.

-Io sono Costanza. Sto per compiere trentadue anni. – affermò una vivace biondina tutta boccoli e fossette.

-Il mio nome è Vera, e ho cinquantanove anni- chiocciò una nanerottola dal viso paffuto e dall’ardito taglio alla paggetta.

-E io sono Carolina…

Notai con rinnovato interesse che quella che stavamo formando, sia dalla loro disposizione che dai loro modi, somigliava già vagamente ad una democrazia.

Era dunque questo l’istinto umano? Razionalizzare, disporre, ordinare per non impazzire? Delle bambine di età non superiore ai nove anni che formavano già un comitato gerarchico del potere?

-…. E ho trentasei anni. – la piccola lady –dai modi si capiva istantaneamente il suo rango, composta, educata e in qualche modo posata e tranquilla nel caos- si risedette con garbo e con le altre aspettò un mia reazione.

-Perché?- chiesi.

Caterina continuava a fissarmi. –oh, cara.- posso chiamarti cara, vero, sei molto più giovane di me stando a ciò che affermi- vedi, io non parto da presupposizioni azzardate, solitamente. Ma devi sapere che nella mia mente annebbiata spicca un altro audace ricordo, correggimi se non è anche il tuo. Vedi, piccola, io ERO MORTA.-

Le altre bambine annuirono. Di nuovo, un tuffo nell’imminente passato.

 

-Che buio, Flora. Che buio meraviglioso. – un sorriso di un angelo biondo, tutto per me.

-Sono così felice, Flora, sono così felice. Sono così felice che beh… si… muoio…- un altro angelo biondo, sempre per me. Mi stringe la mano. Mi dice che mi ama.

-Anche io ti amo Flora.- un’altra mano afferra la mia vuota.

-E io amo te, Nerea. E amo anche te, Numa.- un bacio. Un altro bacio. La ragazza mi abbraccia. Il ragazzo ci stringe entrambe.

-Amo anche te, Nerea. – il ragazzo la bacia. –Ti amo, Numa.- lei lo afferra per la vita.

Ci sfioriamo tutti e tre per l’ultima volta. La mia bocca si chiude prima su quella di Numa, poi su quella di Nerea. Siamo di nuovo per mano. Saremo sempre per mano. Non diciamo niente prima di saltare nel buio. Solo, le nostre teste si appoggiano. Chiudiamo gli occhi. Spicchiamo il volo.

 

-…. Nella vasca. L’acqua penetrava ovunque. Nei miei occhi, nelle mie orecchie, nel mio cervello…. Fino a che… non fui acqua anche io…. E poi, io non ricordo nulla, solo un grande vuoto…. – Caterina scuote la testa, amareggiata.

-Tutte noi abbiamo qualcosa in comune riguardo la nostra morte.- precisò Carolina. –Siamo tutte morte suicide. Io mi sono tagliata le vene nel labirinto d’erba.- non un’ombra attraversa i suoi occhi chiarificatori. –Morte suicida e violenta, per giunta.-

-Maria è morta impiccata. Costanza si è lasciata travolgere da un treno in corsa. Vera si è amputata la lingua ed è morta soffocata – continuò Caterina. Vera sospirò, timida e colpevole.

-è successo anche a te, Flora? Sei morta suicida?- chiese educatamente Costanza.

Per un po’ non riuscii a parlare. Ero così felice di volare verso la fine con le due persone che amavo. Ero così sicura di me per la prima volta in vita mia. Ero certa che di lì a poco mi sarei risvegliata al loro fianco, per sempre insieme e felici, così illusi e incantati dalla nostra risolutezza ciechi e inconsapevoli che il nostro piano non avrebbe avuto buon fine. Forse l’aveva avuto, forse Nerea e Numa giacevano assieme in eterno, ma io no. Perché? Perché nemmeno nella morte avevo ottenuto ciò che più volevo? La rabbia e la frustrazione mi assalì.

Piangevo ormai. Piangevo senza ritegno, mi contorcevo, strillavo, lacerata da un dolore più grande di me, cominciai a graffiarmi come la nonna, e forse mi sarei anche amputata tutte le dita se Costanza e Vera non mi avessero bruscamente afferrata e immobilizzata.

-VOGLIO MORIREEEE u…uccidimi uh.. uccidimi strappa la mia a..ah…animaaah da q..quiiii nn..noooon voglio vivere non provo niente, non sento più nulla o..ddiohhh AAAAAAAAAH ti p…preeg…oohhhh… s…sono m..mooorta…. è l’inferno q…questo?- mi chiesi –è L’INFERNO? DOVE SONO Numa e Nereahh perché io e basta!!?- mi dibattei con più furia che mai, ma erano due ed io ero troppo piccola e gracile. Cedei.

Maria mi porse un po’ d’acqua in una ciotola, e mi spruzzò il viso. Continuai a singhiozzare, muta. Espirai dopo un secolo. Loro erano rimaste in silenzio, complici nel dolore. Tutte noi avevamo creduto di trovare una risposta, una salvezza. Tutte noi avevamo trovato il caos, l’assurdo.

-Mi sono gettata da un ponte. Mi sono gettata da un ponte con le due persone di cui ero innamorata. Di cui sono innamorata.- mi corressi. –Credevo che avremmo trovato la pace e che ci saremmo appartenuti per sempre. Ma.. ma… non… non li vedo qui.. e comincio a credere.. che non li rivedrò mai più- crollai di nuovo in ginocchio, e Carolina mi abbracciò fortissimo, disperatamente.

-Lo so piccola. Lo so che fa tanto male. Lo so credimi, lo so, perché io non sono morta insieme alla mia metà. La mia anima è morta insieme ad essa, ma il mio corpo ha sopravvissuto per dodici anni. Mi sono detta, vivi, vivi per i tuoi figli, ma poi, le acque si sono portate via anche loro. – sempre lo stesso sguardo posato, ma stavolta fisso, vitreo, folle nella sua calma. –e la mia sorellina è annegata nel tentativo di salvarli, salvarli per me.-

Caterina, provata, si gettò su noi due. Così fece anche Maria, Costanza e Vera. Ci unimmo in un unico abbraccio sussultante. Un unico piccolo corpo come il nostro non avrebbe sopportato da solo tutto quella sofferenza.  

  
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