Polvere. Freddo. Sospiri di cori religiosi
aleggiavano nell’aria. Stantii riflessi di passate bevute ornavano il tavolo
sul quale ero distesa. Cupi portoni vigilavano severi e incorruttibili la sala.
Sala il cui fulcro era costituito dall’involontaria offerta sacrificale posta
sull’altare. Mi rannicchiai sulle ginocchia. Ero sola. Ero sola, basandomi sui
miei sensi. Ma intorno a me sarebbe anche potuta accorrere un’orda di barbari
in vena di festini, ed io sarei rimasta egualmente impassibile. Il mio volto
era caldo e umido. Sale e ferro. Lacrime e sangue. Tastandomi lentamente,
scoprii che il mio naso si snodava in un’innaturale gobba proprio a metà. Se
non fosse stato per il dolore acuto che provai nello sfiorarlo, avrei creduto
che si trattasse della mia naturale fisionomia. Non ero a conoscenza del gentil
artefice.
Dopotutto, non ero a conoscenza nemmeno del mio volto.
Non ero vittima di un’amnesia feroce. Ricordavo il
volto della donna che fino ad allora mi aveva covata e soffocata, ricordavo il
ragazzo che mi aveva tratta via dal fiume quando ero appena un’infante,
ricordavo la luce, i suoni, i colori, e tutto ciò che la mia vita era stata
fino alla settimana precedente.
Ci si può scordare delle persone, dei fatti e persino
della mamma, ma scordarsi del corpo che si abita, è prima di tutto
un’ingratitudine.
Corpo che peraltro ci aveva servito devotamente,
adempiendo alla sua funzione e obbedendo cecamente ad ogni nostro pigro
comando.
E poi, dopo anni di amicizia e amore, svegliarsi un
mattino e scordarsi di lui.
Fissare attoniti le proprie mani sconosciute, tastare
ogni curva e bozzo con meraviglia esplorativa, volgere lo sguardo sullo
specchio e perdere conoscenza.
In quel momento mi sentii minuscola, ridotta alle
dimensioni di un granello. Mi accorsi dell’orrenda verità fissando le ginocchia
spellate adagiate sotto il mio mento. Le mie gambe erano immensamente piccole. Gracili,
esili, e soprattutto corte, sbatacchiavano simili a cosce di rana. Ne afferrai una e la portai oltre la mia
testa, dove si inseriva perfettamente e senza sforzo. Feci la stessa cosa con
l’altra. Sorrisi, ebete e muta. La gioia provata mi bloccò la gola per un
attimo di intensa letizia. Attaccai a dondolare così forte che l’impeto mi
spinse oltre il tavolo, e solo la botta mi riportò in me e mi invitò a
considerare seriamente la faccenda.
La sala era ampia, larga quanto alta, con enormi
tende che occultavano qualsiasi panorama. Ogni panneggio era decorato con un motivo
di grappoli d’oro e viticci, intramezzato da punture color ruggine cucite nel
tessuto. Un leggero vento muoveva quelle cascate di stoffa, che a occhio nudo
parevano pesare quanto un uomo adulto. Dietro, si intravedevano archi a volta,
di pietra grezza e intagliata grossolanamente, grevi e opprimenti pari alle
tende. L’enorme pianura di granito che costituiva il pavimento era ammobiliata
riccamente. Un tappeto immenso ricopriva l’area, e ovunque sparsi nella stanza
secondo una logica sconosciuta, crescevano divani e tavolini di ottima fattura.
La curiosità vinse l’orrore che provavo da sempre per
i piccoli insetti annidati tra gli anfratti, e mi diressi zoppicando verso una
delle maestose custodi di drappo. Due cordoncini di lunghezza notevole
giacevano ai piedi della finestra. Alzando la testa scoprii che erano stati
recisi quasi alla base. Il taglio era netto, sicuramente provocato da un paio
di forbici. Nessun uomo sano si sarebbe arrampicato fin lassù, a circa sei o
sette metri d’altezza, solamente per amputarne le corde di apertura. Non mi
preoccupò eccessivamente. Per quanto il tendaggio fosse pesante, avrei potuto
scostarlo con facilità. Lo avrei fatto, se in quel preciso istante un fruscio
non risvegliò il mio udito sopito.
La tenda sostava incorruttibile –si è mossa si è mossa oddio
sièmossal’hovistasièmossacomepotrebbe-. l’idea che comunicava era dinfinita
e pacata staticità, come se nessuno da secoli l’avesse sfiorata. Stranamente,
non emanava un cattivo odore, il profumo che si sprigionava da essa proveniva
da fuori. Un’aria leggera, guizzante, striata di note di umani umori. Tenendo il
braccio, mi ritrovai ad osservare la mia mano.
Un bambino ne avrebbe potuto vantare le stesse
dimensioni. Era paffuta, tozza, le unghie annegavano nel mare di carne che
erano le mie dita.
E mi accorsi con orrore di un’altra cosa. Il mio dito
mignolo era scomparso.
Scomparso non era forse una parola giusta. La parola
scomparsa implica pulizia e silenzio, muta sparizione senza disordini. Il mio dito
era tutt’altro che scomparso. Era stato scarnificato.
Dal mozzicone rimarginato cresceva un frammento di osso perlaceo, che si
spezzava brutalmente a metà. Mi accarezzai il viso. Fu come se la mano della
nonna tornasse dal freddo Ade per portarmi via con sé.
La nonna. La nonna Ava. La nonna bianca. La nonna
buona. La nonna ricca. La nonna che improvvisamente un giorno morì. La nonna
che si permise di morire mentre in casa non c’era nessuno. Mentre in casa c’era
la sua nipotina di sei anni. Sei anni. Sei primavere.
La nonna soffrì. La nonna soffrì molto. Il suo corpo
scheletrico e ansante si contorse per quarantotto ore prima di spirare.
Sudore dappertutto.
-Flora, Flora, Flora, fiorellino di primavera, vieni
dalla nonna.- sorriso di un teschio. Il letto era una pozza di sudore. I capelli
della nonna si aprivano sul cuscino, metà biondi, metà bianchi, metà verdi,
striati dal vomito. Una grottesca parodia di un pagliaccio.
Ogni centimetro della sua pelle era teso e guizzante,
come se stesse per staccarsi e arrotolarsi su sé stessa come pergamena. I denti,
bianchi e accecanti mi ammiccavano, famelici. In quel momento, ricordo che
cominciai a recitare la favola di Cappuccetto Rosso.
-Che denti grandi che hai, nonna.- mormorai. Lei
rise, folle e cadaverica, e la sua bocca si aprì ancora, come se non aspettasse
altro che inghiottirmi come il lupo cattivo. Fu a quel punto che cominciò a
scuoiarsi. Letteralmente. Sembrava che durante quegli anni avesse conservato
tutta la forza per liberarla in quell’istante.
Si portò le unghie al volto. Le dita cominciarono a
grattare, ciecamente e in modo forsennato, una talpa impazzita. Ben presto
rivoli di sangue scivolarono sul cuscino e sul mio grembiule. Con i denti
agguantò il dito indice. Lo gustò per un
attimo, tronfia come un vecchio rospo, e infine ne raspò via la poca carne
aggrappata all’osso.
Me lo offrì, generosamente.
-Lecca lecca lecca per Flora che brava bambina gnam
gnam gnam!!-
Lo morsi. Non sapevo che altro fare. Non lo sapevo. Non volevo, non potevo e non dovevo. Ma lo assaggiai. Alla nonna piacque. Me lo cacciò ancora più a fondo in gola, ululando di piacere. Vomitò ancora.
L’anima
abbandonò il suo corpo.
La salute mentale abbandonò il mio.