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Autore: Francine    14/04/2014    3 recensioni
Se l’aspettava diverso, il Kallistê.
Dai racconti di Aiolia, Marin e degli altri, sembrava fosse un posto più… più…
Un posto completamente differente, pensa guardando la tettoia verde ricoperta dalle fronde degli alberi. Limoni. Che sono cresciuti all’interno di grossi vasi nel giardino – nella terrazza – che ospita dei tavoli, e che, sempre a detta di Aiolia, sono perennemente affollati. La sera. Dalle nove in poi.
Alle due del pomeriggio del dodici di Agosto non c’è anima viva. Solo un grosso gatto grassoccio che pisola all’ombra, sdraiato in tutta la sua pigra solennità sopra a una cassetta di plastica rovesciata, di quelle che si usano per trasportare le bottiglie d’acqua. Ha socchiuso un occhietto, giallo come un pezzo d’agata, l’ha squadrata, ed è tornato alla sua personalissima guerra col caldo afoso del primo pomeriggio ateniese.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio, Scorpion Milo, Sorpresa
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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Stagioni Diverse nasce dalle chiacchiere di due amiche che si ritrovano dopo dieci anni. Per caso. Davanti ad un caffè virtuale. Lì dove due mondi collidono, si annusano e si danno la mano, hanno luogo queste storie. Quante sono e quante saranno non lo sanno neppure loro. È un progetto in divenire, a quattro mani, nato dalla voglia di divertirsi e di far scorrere la penna. Non prendeteci troppo sul serio!
Françoise appartiene a Francine e la trovate a zonzo qui , qui e qui.
Mia appartiene a Keiko e la trovate a fare danni qui, qui e qui.
Milo e tutto l'assurdo allegro mondo di Saint Seiya appartengono a Masami Kurumada e agli aventi diritto.
Buona lettura!
 
 
 
 
 
 
Kallistê
 
 
Se l’aspettava diverso, il Kallistê.
Dai racconti di Aiolia, Marin e degli altri, sembrava fosse un posto più… più… Un posto completamente differente, pensa guardando la tettoia verde ricoperta dalle fronde degli alberi. Limoni. Che sono cresciuti all’interno di grossi vasi nel giardino – nella terrazza – che ospita dei tavoli, e che, sempre a detta di Aiolia, sono perennemente affollati. La sera. Dalle nove in poi.
Alle due del pomeriggio del dodici di Agosto non c’è anima viva. Solo un grosso gatto grassoccio che pisola all’ombra, sdraiato in tutta la sua pigra solennità sopra a una cassetta di plastica rovesciata, di quelle che si usano per trasportare le bottiglie d’acqua. Ha socchiuso un occhietto, giallo come un pezzo d’agata, l’ha squadrata, ed è tornato alla sua personalissima guerra col caldo afoso del primo pomeriggio ateniese. E il fatto di stare quasi alle pendici dell’Acropoli non aiuta. Atene è una conca, un formicaio brulicante che si arresta nei pomeriggi d’estate, quando anche dormire diventa un’impresa.
Mia pensa che non può starsene imbambolata in mezzo alla strada, come uno stoccafisso appena tolto dal sale. O entri, oppure giri sui tacchi e ti trovi un posto dove aspettare che cali il sole. Il telegramma lo ha in tasca, ma ne conosce il testo a memoria. Vieni al Kallistê. Ho bisogno di aiuto. E c’è una sola persona che può averle inviato quel messaggio – dall’ufficio postale di Adamas, Milos, Cicladi. Françoise. Che esce dalla porta che dà sul giardino.
Mia alza una mano, in segno di saluto. L’altra vola, letteralmente, da lei, una macchia bianco gesso che spicca nell’ombra. Non ha sentito i piedi dell’amica calpestare il pavimento bianchissimo, con delle foglie di limone a terra. Eppure ha i sandali di cuoio, pensa, mentre l’altra le afferra le mani e le sussurra: «Hisashiburini!!», con l’espressione del naufrago che avvista la terraferma.
Giapponese? Vorrebbe dare fiato alle sue perplessità e alle domande che le ronzano in testa – Che succede? Che ci fai tu qui? Che ci facevi su Milos? Perché parli in giapponese? – ma l’altra la precede, e la fa entrare. Di peso. Françoise richiude il cancello basso, con la vernice rosso scuro che avrebbe bisogno di una rinfrescata, e la trascina a un tavolo. Ben lontano dal gatto, che non s’è perso un momento della scena.
Le mani di Françoise sono una stretta salda attorno ai polsi di Mia anche quando si accomodano, dietro il fusto di un limone carico di frutti. La chela del Cancro, pensa Mia prima di dirle: «Mi stai facendo male.».
L’altra non l’ascolta e le piazza gli occhi nei suoi. Sono un mare verde e smarginato. Anzi, no. Sono un lago. Cupo per la tempesta in arrivo. Una di quelle devastanti, che non ti aspetti perché fino a cinque minuti prima il cielo è uno scampolo azzurro e terso, senza nuvole. «Grazie al Cielo sei qui.»
Ancora in giapponese. Mia l’asseconda. «Mi spieghi che succede e ti dai una calmata?», le dice. «Anzi, no. Facciamo che prima ti calmi e poi mi spieghi che succede. Anzi. Facciamo che prima mi molli i polsi, vuoi?»
Françoise tentenna. Stringe le labbra e di conseguenza le dita, come se perdere la presa su Mia equivalesse a farla svanire. Come se fosse un miraggio di Morgana. Serra tutta se stessa e poi la lascia andare. Le mani di Françoise le ricadono in grembo. Mia si ritrova con dei braccialetti biancastri sui polsi. Che diventeranno rossi a brevissimo. «Che. Diamine. Succede?»
L’altra prende fiato, si guarda alle spalle un paio di volte, e poi si sporge sulla tovaglia fresca di bucato. «Succede che ti ho dato retta. Succede che ho fatto una solenne fesseria. Succede che adesso sono nei pasticci. E tu devi darmi un mano!»
Mia sbatte le palpebre un paio di volte. «Pasticci? Che genere di pasticci?», le chiede, prima che qualcuno catturi la sua attenzione. Milo. Che esce dalla stessa porta per cui è passata Françoise, ma con meno furia. Con calma. Come se quella fosse casa sua. Come se quello fosse il suo territorio. Reggendo un vassoio con due bicchieri colmi di limonata.
«Buon pomeriggio», la saluta. Ha un sorriso indecifrabile e sembra che la stia scrutando con lo sguardo. «Come stai, tutto bene?»
E tu che ci fai, qui? «Bene, grazie. E tu?»
Milo sorride. «Benissimo.» Non può far a meno di notare che è rimasto vicino a Françoise. Molto vicino. «Col caldo che fa, avrete sete. Queste ve le manda nonna Melpomenê», dice posando il vassoio. «I limoni sono i nostri. Non sarà la tua adorata cedrata, ma è buonissima lo stesso.»
Sembra aspettare la battuta di Françoise. Che per tutta risposta afferra il bicchiere e lo sorseggia. Si china verso di lei.
«Non gliel’hai ancora detto?», le domanda, facendo un cenno col pollice all’indirizzo di Mia.
Detto, cosa?
«Non ancora», risponde lei. Imbarazzata. Fuggirebbe a gambe levate, se solo potesse, si dice Mia.
«Capito.» Milo recupera il vassoio, se lo mette sottobraccio, come se non avesse fatto altro nella vita, e si raddrizza. «Vi lascio alle vostre cose da ragazze.»
Le prende una ciocca di capelli e se l’arrotola attorno all’indice. Poi fissa Mia. «Avete già pensato a che giro farete? Kolonaki oppure Odos Ermou?»
Eh? «Kolonaki», dice Mia. Pregando sia la risposta giusta.
Milo sorride. Il ghigno della volpe che è entrata nel pollaio. «Lo sospettavo», dice. Lasciando la ciocca di capelli castani ricadere sulla spalla abbronzata di Françoise. «Scegli qualcosa di nero. Sai che mi fa impazzire», le sussurra all’orecchio, in modo che anche l’altra lo senta.
E mentre Françoise abbassa lo sguardo sulla tovaglia, le guance in fiamme, Milo ne approfitta. E piazza gli occhi azzurro mare in quelli verdi di Mia.
Μην απόδρασή, sillabano le sue labbra.
Non farla scappare.
«Ci vediamo stasera, Agapi mou. Ciao, Mia. Mi ha fatto piacere rivederti. Salutami Aiolia», e senza attendere risposta, se ne torna da dove è venuto, lasciando Mia con un groviglio di pensieri in testa e Françoise con l’espressione di chi vorrebbe che la terra si aprisse sotto i suoi piedi e l’inghiottisse in un sol boccone.
Tacciono. Françoise ha lasciato il bicchiere come se scottasse e ha ripreso a torturarsi le mani, mentre l’altra frigge dalla voglia di saperne di più. Di sapere tutto. Ogni, singolo aspetto della questione.
«Ti massacrerai le pellicine, così», le dice Mia. Sarebbe un peccato, con quello smalto rosso scuro così bello. Rosso sangue. Rosso… «Fa’ un po’ vedere le mani!»
L’altra esegue, e Mia spalanca gli occhi. Le unghie sono lunghe. E laccate di rosso scarlatto. Tana…
«Hai smesso di mangiarti le unghie?»
«Ho smesso lo scorso anno.»
«E il colore?»
«È rosso.»
«Sì, ma non mi hai spiegato perché hai scelto il rosso», ribatte, accomodandosi sulla sedia.
«Di che colore vuoi che sia, lo smalto? Blu?»
«A te fa orrore il rosso sulle unghie.»
«Le cose cambiano…»
«Vedo…»
Una stilettata d’acido avrebbe fatto meno male. Lo sguardo di Françoise è di quelli che uccidono all’istante. Somministrando molto, molto dolore.
«Ok, ok. Scusa. Scusa. Non volevo.»
Françoise sbuffa aria dal naso, come farebbe un toro che sta per lanciarsi a testa bassa contro il matador. Getta un’occhiata alla strada e solleva una mano. Sorridendo, tesa. Mia segue il suo sguardo. Milo. Che le saluta, uscendo, prima di avviarsi lungo la discesa che porta a Plaka.
Quando è certa che lo Scorpione sia sufficientemente lontano – quando si sente al sicuro, pensa Mia – Françoise torna ad occuparsi di lei. «Andiamo. Non abbiamo molto tempo.»
«Conosco una boutique di lingerie che fa al caso tuo.»
Françoise la guarda come se le fosse spuntata un’altra testa. «Lingerie?»
«Beh, ti servirà qualche completino carino, adesso. E nero. Milo...»
«NO!», l’interrompe Françoise dando una sonora manata sul tavolo. I bicchieri traballano. Il gatto alza la testa, disorientato, lo sguardo giallo a chiedere: «E allora? Cos’è tutto questo casino?!».
«No?»
«No.» Stavolta è più pacato, ma sempre d’acciaio. «Niente lingerie. Niente shopping. Niente Kolonaki. Non ho soldi. Non ho tempo. Vado via. Via da qui. Via da Atene. Via dalla Grecia.» Lo dice come se stesse parlando del prezzo dei peperoni al mercato. «Devo tagliare la corda prima che sia troppo tardi. E tu mi aiuterai.»
«Eh?»
«Mi reggerai il gioco. Dirai che siamo state tutto il pomeriggio per negozi e che ci siamo separate verso le sette. Da allora, puff. Io sparirò da questo posto. Ho pensato a tutto quanto, stai tranquilla.»
«Ma perché?»
«Perché sì.»
Mia sgrana gli occhi. «Françoise, che è successo? Ti ha… fatto qualcosa di male?»
«Non dire sciocchezze» Liquida la questione con un gesto, come a scacciare una mosca fastidiosa. «È che le cose mi stanno sfuggendo di mano. Ed è meglio fermarsi adesso, prima che…»
«Prima che diventino serie?», domanda Mia. L’altra annuisce. «Ossantocielo! Fiori d’arancio in vista!»
Altro sguardo che uccide.
«Non dire assurdità. Me ne vado prima che spuntino i boccioli.»
Mia non può fare a meno di sentire una nota stonata. Una nota di sottofondo. Dispiacere, forse?
«Senti. Elliniko non scappa. Raccontami tutto dal principio, vuoi?»
Françoise tentenna.
«Non posso aiutarti se non so come stanno le cose. Se non so che pasticcio hai combinato.»
Un sospiro, le mani strette a pugno sul tavolo, le labbra serrate che si rilassano. «È successo che ti ho dato retta. È successo che mi ha invitato sull’isola per Agia Marina. Io ci sono andata. C’era la luna, le stelle, i fuochi d’artificio. E avevo bevuto come una spugna. Ed è successo. E mi ha chiesto di restare con lui.»
Mia sgrana gli occhi dalla felicità. «E me lo dici solo adesso?», la rimprovera con affetto. Agia Marina è a metà Luglio. Sei stata con lui fino a cinque minuti fa. Perché adesso vuoi scappare? «Ma è una cosa meravigliosa!»
«No che non lo è!» Tace per un istante. Come a riordinare i pensieri. «Non lo è perché mi sento divisa in due.»
«In che senso?»
«Nel senso che non mi sembra giusto. Nel senso che le cose non sono andate come avevo previsto.»
«Perdonami, ma quando un ragazzo… un uomo ti invita a casa sua per passare il fine settimana, direi che non c’è molto da prevedere. No?»
«Non è questo. Lui è stato molto carino. Ha alloggiato da un amico fino a quando… fino a. È stato un vero cavaliere. Ma io non avevo previsto… questo.» Allarga le braccia per indicarle la terrazza, le fronde dei limoni, il gatto sulla cassetta di plastica, la casa. «Questa è casa sua. Nonna Melpomenê è sua nonna. L’oste è suo zio. Questi limoni li ha piantati sua nonna quando era incinta di sua madre. Lui è nato e cresciuto qui
Ecco perché ama tanto questo posto, pensa Mia. «E questo ti spaventa?»
«Da una parte. Dall’altra, non è giusto.»
È quel non è giusto a mandare in corto circuito i pensieri di Mia. Che l’amica sia spaventata è logico e umano. Chi non lo sarebbe al suo posto? È scesa dalla nuvoletta rosa e ha visto il mondo per quello che è. Le novità sono sempre frutti terrorizzanti, anche quando hai deciso di coglierle dal ramo.
«Perché non è giusto?» Glielo chiede a bruciapelo. «Andartene senza dirgli una parola, non è giusto. Gli spezzerai il cuore. Verrà a cercarti fino in capo al mondo. Lo sai, questo?»
«Lo so.» Riprende a torturarsi le mani. «Ma è anche molto orgoglioso. E questo potrebbe farlo desistere dal venirmi a cercare.»
Potrebbe? È un po’ poco, non credi? «Ancora non mi hai spiegato perché non è giusto. Per la persona che è sepolta al Kerameikos?»
La verità sul collo è acqua gelata, cantava qualcuno. Ed è una secchiata di acqua ghiacciata quella che Mia ha appena rovesciato addosso all’amica. Che abbassa la testa. E annuisce. «Sì.»
Mia non sa di chi si tratti. L’una non l’ha mai confessato e l’altra non l’ha mai chiesto. Sa che Françoise si reca al Kerameikos ogni volta che torna al Santuario, con tre mazzi di fiori che acquista da Phyllis, la fioraia. Per suo fratello. Per il suo maestro. E per un’altra persona. E non lasci rose bianche come nuvole sulla tomba di un emerito sconosciuto.
«Non dire le solite cose odiose. Per favore.»
Mia sa che se le è già dette da sé. Che forse gliele ha già dette Milo. E lì per lì deve anche avergli creduto. Col cuore e con l’anima. Ma adesso che deve fare quel piccolo, grande passo, ha ceduto all’impulso di guardare giù. E con le vertigini ritorna quel pensiero. Viscido e meschino. Che rischia di farle perdere l’equilibrio.
«Lo so che devo andare avanti, ma…»
«Ma ti senti in colpa», conclude l’altra. Françoise annuisce, fissando le proprie dita strette le une alle altre. «Perché avendo fatto entrare qualcun altro nel tuo cuore temi di dimenticarlo. Perché i sentimenti che provi adesso invalidano quelli che hai provato per lui…»
«No», si affretta a chiarire. «Questo no. Sono due cose diverse. Simili. Ma diversissime.» Perché l’uno è un sogno di bambina. L’altro, quello di una donna, dicono i suoi occhi.
«Allora è anche peggio.» Mia fissa un limone. Grosso. Sodo. Maturo. Che ha curvato il ramo su cui è appeso. E che si spezzerà se qualcuno non lo coglie. «Perché tu ti stai nascondendo dietro un morto. Dietro chi non può più difendersi.»
«Scusami?!»
Ecco la ragazza che conosco, pensa Mia. «Se lui fosse vivo, questa situazione non si sarebbe presentata. Giusto?» L’altra annuisce. Gli occhi spalancati mostrano un lago su cui sta per scatenarsi la tempesta del secolo. «Ma lui non c’è più. E tu credi davvero che sarebbe felice di saperti a consumarti gli occhi davanti alla sua tomba? Sola? Che razza di uomo vorrebbe una cosa del genere? Me lo spieghi?»
Silenzio.
«Non credo lui volesse questo, da te. E non credo nemmeno che sia davvero lui, il problema. Tu hai paura.» Il cielo sopra il lago è solcato da un fulmine. Mia non ci bada. «Tu sei come questo grosso limone. Pronta per essere colta, ma», per paura, «preferisci restartene appesa al tuo ramoscello. Lo vedi che si sta spezzando? Vuoi cadere a terra e spiaccicarti al suolo? È questo che vuoi?»
«Ma che fine attende il limone, una volta colto?», le domanda fissandola negli occhi. Il Lago di Vico ogni anno si fa un amico, le ha detto un giorno Françoise, spiegandole come i laghetti di montagna siano pericolosi per via delle correnti sotterranee. E adesso Mia sente la corrente lambirle le gambe. Per trascinarsela dietro. Sul fondo limaccioso del lago.
«Una volta una persona saggia mi ha detto che se molli senza nemmeno provarci, allora non è importante.»
«Certo che è importante!», ribatte. Inviperita, quasi. «Ma se mi spezzasse il cuore?»
Mia aggrotta le sopracciglia. Qualche mese fa – nove, ad essere precisi – ha chiesto a Françoise cosa si provi ad essere innamorate. Innamorate sul serio.
«Fisicamente stai sulle montagne russe», le ha risposto, mentre la pioggia riempiva il pomeriggio. «Un attimo prima precipiti in picchiata e poi ti trovi sbalzata nel giro della morte, terrorizzata all’idea che qualcosa possa mettervi in discussione.» E adesso Mia si chiede se non sia il caso di fermarla, quella giostra, prima che l’amica finisca sbalzata via. Chissà dove. Facendosi ancora più male.
«Dopo questo?» Mia allarga le braccia all’ambiente intero. La terrazza, i limoni, il gatto che dorme, la casa.
«Metti che succeda…»
«E se non succede?», replica. Provocandola. «Ti prego, non farmi dire che non puoi fare una frittata senza rompere le uova, ché lo sai da te. Anche perché le avete rotte da un pezzo, queste uova. Che fai, torni indietro? Sbafatevi una bella frittata e siate felici.»
«E se la frittata si rompe?»
«Mangerete uova strapazzate!»
Tacciono. Nell’aria il suono ipnotico delle cicale che cantano sui tronchi degli alberi. Sul tavolo, due bicchieri di limonata. Se devi fermarla, fallo adesso. Appari e fermala. O dalle un sonoro calcio nel culo. Chiunque tu sia, prega Mia guardando l’amica con la coda dell’occhio. Amica che ha visto qualcosa. O qualcuno, nell’afa del primo pomeriggio. La Casa del Cancro è il portale per l’Aldilà, le ha detto Aiolia tanti anni addietro, e Mia si chiede se qualcuno, lassù, non stia esaudendo la sua richiesta. «Françoise?»
Anche il gatto sta fissando qualcosa nella stessa direzione in cui sta guardando l’amica. Che ha socchiuso le labbra dallo stupore.
Mia guarda anche lei, ma non vede nulla. Solo il muro bianco calce della casa di fronte. E un gabbiano, fermo su un tavolino, che le fissa, coi suoi occhietti malvagi. Che ci fai tu, qui? Quando si volta verso l’amica le scopre gli occhi lucidi.
«Tutto a posto?»
«Sì.» Non le dice come, né perché, eppure Mia sa che qualcosa è cambiato. Che ha lasciato andare la zavorra. Per alzarsi in volo, come fa adesso il gabbiano, dopo aver capito che non c’è trippa per gatti. Si asciuga gli occhi con il dorso della mano. È finito il giro della morte. Adesso tocca al tunnel dell’amore. Ma senza barchette a forma di cigno.
«Sei sempre dello stesso avviso?»
Scuote la testa. «No. Ho cambiato idea.» Tira su col naso. Mia le passa un fazzolettino di carta.
«Per il gabbiano?», domanda la più piccola. A saperlo, ti accompagnavo al porto a spron battuto.
Françoise annuisce. «Ruy… lui… lui mi chiamava gaviota. Che significa gabbiano in spagnolo», le spiega, mentre il cervello di Mia mette insieme i pezzi del puzzle. E la consapevolezza le sgrana gli occhi e le si schianta sul cuore con la potenza di un tir di piume. «Ho... percepito... ho sentito la sua voce. Che mi diceva di andare avanti. Devo sembrarti molto stupida…»
«No. Sei solo confusa.» E tanto innamorata da esserne impaurita, pensa, avendo cura di tenere questa considerazione per sé. Le correnti lacustri possono essere pericolose, quanto imprevedibili. 
«Come sospettavo. Ti sembro molto stupida», ripete, decidendosi a bere la sua limonata. Che è davvero buonissima. Agra ed onesta come solo i limoni non zuccherati sanno essere. «Andiamo?»
«Dove?», le domanda Mia. Preoccupata che abbia cambiato idea. Un’altra volta. Athena, no. Non ho la forza di fermarla.
«A Kolonaki», le risponde Françoise alzandosi. Spiega il vestito bianco, di lino leggero. Raccoglie i bicchieri. «Non hai detto che conoscevi un negozio di lingerie?»
Mia sorride. «Mica solo uno. Come sta messo il portafogli?»
«Male. Come al solito», risponde ridacchiando. «Ma guardare le vetrine non è ancora un reato, no?»
«Guardare e non toccare è cosa da crepare.»
«Ecco. Questo sarà il leitmotiv del mio shopping. Che ne pensi?»
«Che sei un demonio, ecco cosa penso.» Un demonio con l’umore altalenante, ma pazienza. Nessuno è perfetto.
Françoise ride. «Tranquilla. Il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge.»
Si avvicina alla pianta e stacca quel limone maturo che sta per spezzare il ramoscello su cui è appeso. Lo palleggia, saggiandone la consistenza, e poi glielo porge. «Per te.»
Mia osserva la buccia rugosa.
«Nel linguaggio dei fiori il limone significa discrezione. E tu sei una confidente preziosa.»
«Questo è un frutto», ribatte la più piccola. Per non mostrare le guance rosse.
L’altra si stringe nelle spalle. «Per i fiori ripassa in primavera.»
«Anche per quelli d’arancio?»
«No. Niente fiori d’arancio e niente corone. Guai a te se gli metti in testa certa idee.» Solita stoccata verde acceso. Ma con un guizzo divertito, stavolta. «Mia, Mia, Mia… Se non ci fossi bisognerebbe inventarti. Aspettami qui. Prendo la borsa e andiamo.» Rientra coi i bicchieri in mano, le spalle rilassate e l’animo in pace.
E Mia si lascia scivolare sulla sedia. Dovesse andarmi male, potrei aprire un’agenzia per cuori solitari, pensa osservando lo scampolo di cielo azzurro che si apre oltre le fronde verdi dei limoni. Lontano, l’ala grigia di un gabbiano.


 
 
NOTE:
Ed ecco la mia risposta alla storia di Keiko. Che si svolge d'estate, in quella bolla di caldo, sole e afa che sa essere Atene in Agosto.

Il Kallistê è ristorante di Atene che si trova dalle parti di Kolonaki. Nel mio mondo si tratta di una tipica taverna greca che ho piazzato in una delle tortuose stradine che da Plaka si arrampicano su per il colle dove sorge l’Acropoli. Cercatela, se passate di lì. E salutatemi zio Kostas e nonna Melpomenê.

Hisashiburini è un'espresisone giapponese che si usa come formula di saluto quando si incontra qualcuno che non si vede da molto tempo. È traducibile con "Ne è passato di tempo!", "È da molto che non ci vediamo" o con un meno formale "Chi non muore si rivede".
 
Odos Ermou è una strada che collega il sito archeologico del Kerameikos con Piazza Sintagma, attraversando Monastiraki, Psiri e Thiseon. È la strada dello shopping, con i negozi delle catene internazionali ed una zona pedonale centrale  - tra Odos Aiolou e Odos Peiraios - che consente di passeggiare guardando le vetrine. Se vi serve qualcosa, o volete dare un’occhiata, Odos Ermou è la strada che fa per voi.
 
Kolonaki si trova alle pendici di Lycabetto, un colle che sovrasta Atene, ed è la zona delle boutique più chic e care della città.
 
Elliniko è stato l’aeroporto di Atene fino all’apertura dell’Elefterios Venizelos, nel 2004. Si trova a sud ovest della città.
 
Il Kerameikos è una necropoli che si trova al centro di Atene, da cui parte la Via Sacra che portava ad Eleusi. Nel V-VI secolo a.C. vi sorgeva il distretto dei ceramisti e la necropoli della città. Un po’, fatte le dovute proporzioni, com’è a Roma il quartiere di S. Lorenzo, che si è sviluppato con le sue botteghe dei marmisti attorno al cimitero monumentale del Verano. Se vi capita, fateci un salto. Non ve ne pentierete. Al Verano e a Kerameikos, dico. Nel mio headcanon, il cimitero che sorge ai piedi del Santuario si chiama Kerameikos.
 
Agia Marina è una delle feste che si celebrano in Grecia. Ogni paese organizza il proprio panigiros, una festa in cui si beve, si balla e si canta, la sera precedente la festa vera e propria. Se volete avere un calendario esaustivo, cliccate qui. La sera del 16 Luglio presso il monastero di Halakas, che si trova su Milos, a sud est, c’è l’ostentazione dell’icona di Santa Marina (che si festeggia il 17 Luglio) e una barca sfila sulle acque dell’Egeo con l’immagine della santa. Ricordo di aver letto anche dei fuochi d’artificio sulla mia inseparabile guida Rough Guides dedicata alla Grecia insulare. E se così non fosse, mi sono permessa questa piccola licenza.
 
In ultimo, un efcharisto polì a Sen per la consulenza linguistica.
 
   
 
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