2008
(qualche mese dopo)
“Funny
all the broken ones but I’m the only one who needed
saving, ‘cause when you never see the lights it’s
hard to know which one of us
is caving.”
I
capelli gli
cadevano sugli occhi, oscurandogli la vista. Se li spostò di
lato, e riprese a
premere le dita sulle corde della chitarra, l’aria fresca
proveniente da fuori
che ogni tanto gli causava brividi alla base del collo, quella parte di
pelle
che il maglione rosso mattone non riusciva a coprire.
«One
night of the hunter»
respiro, «one day I will get
revenge»
chiuse gli occhi, «one
night to remember»
il cuore perse un battito, si fermò, come quando
da piccolo soffriva d’asma, non riusciva più a
respirare, come quando aveva
paura che il cuore non sarebbe più ripartito. «One
day it'll all just
end», sputò in fine.
Uno.
Due.
Tre.
Cinque
secondi.
Strinse la mascella, facendo digrignare i denti fra loro. Il cuore non
batteva
ancora normalmente, lo sentiva arrabattarsi a rallentare la propria
corsa,
scacciare via l’adrenalina, la rabbia, l’astio da
cui ero stato attaccato.
Cercava di difendersi bene, ma quell’agglomerato di delusione
aveva armi più
efficaci.
«Blessed by a
bitch from a
bastard's seed, pleasure
to meet you
but prepare to bleed»,
la voce gli
diventava sempre più graffiante, sempre più
bassa, «rise, I'll
rise, I'll rise»,
sempre più convinta. «Skinned
her
alive, ripped her apart,
scattered her
ashes, buried her heart»,
un sorriso
amaro gli apparve sulle labbra. «rise up above it, high up above and see».
Deglutì.
Appoggiò la chitarra a terra, si tolse i capelli dagli
occhi con il solito gesto automatico, deglutì di nuovo, un
blocco alla gola che
non voleva andarsene. Si era svegliato qualche ora prima, un
picchiettio alla
tempia destra che lo tormentava. Si era alzato, lavato il viso con
dell’acqua
fredda, strofinando bene gli occhi che, a causa del scarso sonno, si
erano
arrossati, aveva indossato un paio di pantaloni della tuta e un vecchio
maglione che aveva trovato abbandonato su una sedia, e poi era sceso in
cucina.
Appena aveva fiutato l’odore di cibo avanzato dalla sera
prima, però, lo
stomaco gli si era chiuso. A passi lenti, stanchi, strascicati, si era
spostato
in quella piccola sala di incisioni che lui e i ragazzi avevano fatto
costruire
pochi mesi prima, per incidere il nuovo album. Casa sua era diventata
il
quartier generale: ogni giorno decine di persone camminavano avanti
indietro,
utilizzavano il suo bagno degli ospiti, la sua cucina per cibarsi e il
suo
divano per riposarsi. Tomo e Shannon vivevano lì,
praticamente. Ma quel giorno
era sabato, e il sabato era il giorno libero, quello per riposarsi,
stare con
la famiglia, uscire con gli amici, dormire tutto il giorno. Se solo ci riuscissi, pensò
amareggiato
Jared prendendo in mano la chitarra e facendo quello che sapeva fare
meglio:
scaricare la frustrazione, l’ansia, la rabbia su delle
sottili corde di
metallo. Aveva interpretato quel picchiettare lento e continuo nella
sua testa
come l’ispirazione che in quei giorni sembrava essere
generosa. Ad ogni ora del
giorno e della notte si ritrovava con un nuovo verso, con una nuova
nota, un
nuovo accordo scolpito nella mente.
Era stato fermo nella stessa posizione per un tempo che non sapeva
quantificare, dato che avevano deciso che non c’era bisogno
di un orologio
nella sala di registrazione e dato che il telefono lo aveva lasciato in
camera,
sopra il comodino. Si avvicinò alla parete con la sedia e vi
appoggiò la testa,
poi chiuse gli occhi. Aveva bisogno di riposare: le dita gli facevano
male, a
forza di impugnare il plettro, lo stomaco gli bruciava, e il respiro
continuava
a non dargli nessun tipo di sollievo. Si sentiva un peso sullo stomaco,
ed era
opprimente. Sapeva anche però che non avrebbe potuto
fermarsi, non adesso che
tutta la canzone gli si era delineata in testa. I denti sbatterono
ferocemente
fra di loro. «Night of the hunter»,
sibilò fra le labbra.
Era
lui. Lui era il
cacciatore. Vagò con il pensiero, tornando indietro nel
tempo. Perché finiva
sempre così: rimuginava su quello che era stato, su quello
che avrebbe potuto
essere, su quello che aveva amato, che aveva sbagliato, che avrebbe
desiderato
poter fare, su quello che lo aveva ferito, squarciato, devastato.
Pensava
sempre al passato, invece che guardare al presente, al futuro.
Perché c’era una
parte di lui che non aveva nessuna intenzione di andare avanti, che lo
rendeva
pesante, che lo faceva rimanere incollato, fermo, immobile. Che lo
stava
consumando.
«Jared,
ti piacciono i mirtilli?»
«Mh-mh»,
disse lui, un plettro fra le labbra, le dita occupate a
stringere la terza corda della chitarra.
Lei
gli si avvicinò e gli cinse il busto con le braccia,
appoggiando la testa alla sua spalla. Le loro guance si toccavano.
«È molto
bella».
«Che
cosa?»
«La
canzone che canticchi da questa mattina. Com’è che
fa,
aspetta… I will save you from yourself».
Lui
sorrise e chiuse gli occhi. «Time
will change
everything about this hell. Are you…
non
trovo le parole per continuare», sospirò infine.
«Chiedimelo»,
sussurrò lei, premendo la guancia contro quella di
lui per sentire la sua barba pungere.
Lui
aprì gli occhi, che in quel momento le sembravano
più azzurri
che mai. «Che cosa devo chiederti, Mary?»
«Chiedimi
come mi sentivo, prima di tutto questo».
«Tutto
questo?»
«Prima
dei muffin cucinati alla mattina per te, del tuo balsamo
per i capelli, delle tue lenzuola bianche, delle torte fatte per tua
mamma, dei
girasoli che abbiamo piantato insieme in giardino… chiedimi
com’era prima».
Jared
esitò. «Dimmi come ti sentivi prima».
«Ero
persa, non mi sentivo in nessun luogo». Lui
appoggiò la chitarra
a terra e la fece sedere sulle sue gambe. «Ero al centro
esatto dell’inferno e
intorno a me c’erano solo fiamme, solo fumo, i rimasugli di
una vita che ormai
non lo era nemmeno più. Ero al centro esatto
dell’inferno e la cosa peggiore
era che ci ero entrata di mia spontanea volontà con la
convinzione che avrei
potuto andarmene quando ne avrei avuto voglia».
Jared
appoggiò la fronte contro quella di lei. «Are
you lost, can’t
find yourself?» lei tratteneva il
respiro, mentre la voce di lui le arrivava sussurrata
nell’orecchio «you’re
north of heaven, maybe somewhere west of hell».
Rimasero
in silenzio per alcuni minuti a guardarsi soltanto, a
respirare l’uno l’aria dell’altro. Lei
gli baciò un angolo delle labbra. «Hai
ancora voglia di quei muffin ai mirtilli, giusto?»
Jared
annuì piano. «Ho ancora voglia di quei muffin ai
mirtilli».
Si
posò una mano
sugli occhi, il sorriso che gli moriva sulle labbra. Si ritrovava
spesso a
ricordare quei momenti in cui lei gli parlava della vita prima di lui,
quella
vita fra le fiamme dell’inferno che lui aveva spento, sedato,
scacciato via. O
almeno così pensava. Si ricordava di come lui avesse sempre
pensato che sarebbe
stato il balsamo che l’avrebbe guarita, la barzelletta che
l’avrebbe fatta
ridere fino a che la pancia non le avesse fatto male, la penna con cui
avrebbe
scritto le parole più belle. Si era illuso di esser
diventato il suo sogno. Non
il suo sogno infranto, quella era la sua vita prima di lui, era la
droga (“mi
sentivo in pace con me stessa perché non sentivo
più niente”),
era
i genitori che
l’avevano abbandonata (“mi chiedo spesso
com’era mia madre e secondo me era
bellissima, non riesco proprio ad immaginarmela come una persona
senza cuore;
era certamente bellissima, lo so”),
erano
i capelli
lunghi fino alla base della schiena quando era piccola (“sai,
pensavo di essere
una principessa, perché tutte le principesse avevano i
capelli lunghi come i
miei”)
era
i pavimenti
freddi su cui aveva dormito (“a quindici anni la mia famiglia
adottiva non
aveva nemmeno un letto per me, me ne stavo con una coperta e un cuscino
a
terra, il gatto che mi camminava sulla faccia tutta la notte; ricordo che ogni mattina mi
svegliavo con il
mal di schiena e di nascosto rubavo dal mobiletto del bagno degli
antidolorifici per farlo passare”)
era
gli amici che non
aveva avuto (“si chiamava Aria, era bellissima, era la mia
migliore amica;
facevamo tutto insieme, ora sospetto di esserne stata
innamorata” “che è
successo?” “è successo che un giorno mi
ha detto che se ne andava, che in quel
buco di merda lei non ci restava” “e
poi?” “e poi mi ha baciata sulle labbra,
ha battuto le ciglia quattro volte e non l’ho più
rivista”)
era
l’amore che non
aveva mai trovato (“gli volevo bene, lui mi voleva bene, mi
voleva così bene
che quella prima volta che mi feci me lo disse che sarebbe andata a
finire
male, mi tolse la siringa e me lo disse che non voleva che morissi
anche io, a
causa di quello schifo, perché lui se lo sentiva che stava
morendo, ieri ho
vomitato per ore, mi disse, non avevo una dose da due giorni e ho
vomitato per
ore, mi disse, mi sono sporcato tutto, mi facevo schifo da solo mi
disse e io
gli dissi che non faceva schifo, gli baciai le labbra e gli ripetei che
non
faceva schifo, che avrei solo provato perché lui era
bellissimo, poi presi la
siringa e me la impiantai nel braccio senza sapere bene cosa fare, ma
ricordo
che lui scuoteva la testa e mi diceva che faceva schifo, continuava a
ripetere
che faceva schifo”)
lui
sarebbe stato il
suo sogno bello, uno di quelli che ti fa svegliare la mattina con il
sorriso
sulle labbra.
Riprese
la chitarra
in mano. Si era scordata per la milionesima volta quella mattina.
Mentre
stringeva la seconda corda sentì freddo ai piedi nudi,
quindi chiuse gli occhi.
«Ti
piacciono ancora
i mirtilli, Jared?», la sua voce era un sussurro roco, come
se avesse pianto
tutta la notte. Ha pianto tutta la notte,
gli ricordò una vocina dentro la sua testa. La
sentivi piangere al tuo fianco nel letto mentre, con le spalle rivolte
al suo
volto, facevi finta di dormire.
«Mi
piacciono ancora
i mirtilli», sospirò lui, senza girarsi a
guardarla.
«Pensavo
che potevo
fare dei muffin, con quella farina che hai comprato ieri».
«Va
bene».
«Hai
fame?»
Jared
sospirò. «Non
molta, no».
«Oh»,
disse lei
piano. «Allora non spreco la farina, li farò un
altro giorno». Dentro la stanza
calò il silenzio, l’unico rumore era quello delle
note che Jared intonava
piano, assicurandosi che le corde fosse strette al punto giusto.
«Mi dispiace
di averti interrotto, ti lascio lavorare». Lui
sentì chiudersi la porta alle
sue spalle. Buttò fuori l’aria che aveva
trattenuto dentro di sé per tutto il
tempo. Mostrare indifferenza era la cosa più difficile della
giornata, e per
quello le parlava poco, la guardava poco, le stava vicino poco,
sperando che forse,
un giorno, sarebbe riuscito ad amarla un po’ meno. Porto il
pollice destro alle
labbra e mangiucchiò l’unghia già
corta. Lo rifece. Lo fece ancora. Quando
abbassò gli occhi, dopo un tempo indefinito, vide che il
dito gli sanguinava.
Sospirò. «Cazzo».
Quando
andò in cucina
per sciacquarsi le mani la trovò lì, vicino al
bancone, la farina anche sulla
faccia. «Che cosa fai?», chiese lui, la
curiosità che prese il sopravvento, il
tono per nulla disinteressato.
Lei
alzò la testa e
sorrise timidamente. «Ho fame, spero non ti dispiaccia se
faccio dei biscotti».
«No,
figurati»,
rispose lui, cercando di ricomporsi. Si avvicinò al lavello,
aprì l’acqua e se
la fece scorrere sul dito, stringendo un po’ gli occhi quando
esso cominciò a
bruciare.
«Ti
fa male? Lascia
che ti aiuti». Jared non si era accorto che le si era
accostata. La lasciò
fare, lasciò che le sue mani scivolassero sulle sue, che le
sue dita sottili e
chiare e lunghe le asciugassero il taglio, lo disinfettassero con il
liquido
verde che non sapeva di avere in un mobile della cucina
«l’avevo comprato io
quando…», si fermò lasciando cadere la
frase, quando vivevo qui con te ed eravamo
felici, voleva dire, ma se ne
stette zitta, curando quel dito che non gli faceva già
più male.
«Grazie»,
disse lui
quando lei ebbe finito.
Lei
sorrise. «Prego».
Lo guardò qualche secondo in volta, ma non vide
più la dolcezza di una volta,
non vide più la meraviglia nei suoi occhi, non vide
più amore. Si voltò, prese
i mirtilli che avevano già cominciato a macerare sul tavolo,
e li unì alla
pasta dei biscotti. Lentamente la stese e con il bicchiere
cominciò a farne dei
piccoli, grossi cerchietti. Chiuse gli occhi, sentendo ancora sotto le
dita la
pelle liscia delle mani di lui. Le era sempre piaciuta la sua pelle.
Era un
rifugio, era casa. Profumava di buono. Si immaginò di
stringersi a lui come una
volta, al suo torace nudo, appoggiare il naso al suo petto e sentire il
suo
odore: quello di Jared che aveva fatto l’amore con Mary.
Quello di Jared che
amava Mary per tanti motivi e non riusciva a staccarle le mani, gli occhi
(e i
pensieri) di dosso. Quel profumo di Jared che adorava Mary e era il suo
balsamo, e era il suo sogno più bello, uno di quelli che ti
fa svegliare la
mattina con un sorriso sulle labbra. Riaprì gli occhi quando
sentì che lui
stava respirando vicino alla sua nuca, sui suoi capelli; dei respiri
pesanti,
profondi, stanchi.
«Mi
piaceva tanto
guardarti suonare la chitarra».
«Perché?»
«Sembravi
il padrone
del mondo».
«Quale
mondo,
Eveline?»
Lei
rabbrividì sotto
il tocco delle sue mani sulla sua schiena, che sentiva bene attraverso
la
maglia leggera. «Il mio mondo. Il mondo di Mary».
«Mary
non esiste»,
disse lui, allontanandosi.
Eveline
si voltò.
«Mary sono io».
«Mary
è morta».
«Sono
qui davanti a te, non mi vedi?»
«Mary
mi amava. Dalla
prima volta che aveva incrociato i miei occhi, lei mi amava».
«Io
ti amo».
«È
per quello che
piangi la notte, perché mi ami?»
«Piango
per troppe
cose, Jared».
«Dimmele».
Eveline
scosse la
testa. «Non cambierebbe niente, se le sapessi».
«Te
lo sto chiedendo
per favore, dimmi perché piangi».
Lei
gli diede le
spalle. «Piango per quelle volte che mi abbracciavi sotto le
lenzuola e mi
dicevi che non avevi mai visto una bocca così bella, per
quelle volte mi
addormentavo sul divano e tu mi coprivi con la coperta
perché avevi paura che
prendessi freddo, per quelle volte mi guardavi e sorridevi e non sapevi
neppure
tu perché. Piango perché mi manca il modo in cui
mi amavi».
Jared
sbatté un pugno
sul tavolo. «Girati». Lei lo fece, lentamente, ma
non riusciva a guardarlo
negli occhi. «Guardami». Eveline alzò lo
sguardo. Lui le si avvicinò, le posò
una mano sulla guancia. «Ho solo voglia di parlare con
Mary».
«Sono
qui», disse
lei, in un sussurro.
Jared
si avvicinò al
suo volto, le loro labbra quasi si sfioravano. «Non ho mai
amato nessuno, come
ho amato lei», le disse.
«Amami
ancora».
«Mary
non c’è più».
Eveline
prese un
respiro. «No», disse, «no»,
ripetè, «è Jared che non
c’è più».
Lui
rimase immobile,
a guardarla negli occhi. Non sapeva chi aveva davanti, eppure
colmò il piccolo
spazio fra le loro bocche, posando le labbra su quelle della
sconosciuta,
saziandosi dei suoi respiri. «Non so se ce la
faccio».
«A
fare cosa, Jared?»
«Non
so se ce la
faccio», ripetè lui, alzando gli occhi, le mani
ancora posate sulle guance di
lei, «ad amare Eveline come ho amato Mary». Fece
cadere le braccia lungo i
fianchi e senza guardarla si voltò, tornò nella
sala registrazione chiudendosi
la porta alle spalle e riprese la chitarra in mano. «Honest to God I will break your heart, tear you to
pieces and rip you
apart». La voce gli uscì in un rantolo,
come se dopo quelle parole non
avesse potuto pronunciarne altre mai più.
È
successo che a
Deborah si è rotto il computer, e quando computer
è tornato a casa, Deborah
doveva studiare, studiare e studiare ancora. È successo, non
succederà mai più.
Non dovrebbero
mancare molti capitoli, ma non so dirvelo con certezza. Vi chiedo
ancora scusa,
probabilmente nessuno di voi leggerà questa cosa
perché si sarà dimenticato che
cos’era successo nel capitolo precedente, ma va bene
così. Si da il caso che io
ami troppo i miei due personaggi e che riesca solo a fare lunghe
descrizioni di
quello che sono stati e di quello che non sono più, che
è la stessa cosa. Mi
dispiace, spero non vi annoi.
Come avete notato è
passato qualche mese e non il solito anno. Ho ipotizzato che Eveline
fosse
rimasta a casa di Jared, non sapendo dove andare, che si tollerassero a
vicenda, che stessero insieme sì, ma non come due persone
che si amano. Spero si
capisca. Da qui tutto cambia: Mary e Eveline agli occhi di Jared non
sono la
stessa persona. Lui amava Mary, sarà capace di amare anche
Eveline? Lo scoprirete
nelle prossime puntate.
Un bacino sul naso e
tanta tanta cioccolata avanzata da domenica. Se mi fate sapere che cosa ne pensate del capitolo vi regalo tutto il mio uovo al cioccolato fondente. E quello al latte di mamma. Fatevi sentire anche se sono imperdonabile, daaai. Deb.