Note: ormai è il posto fisso prima di cominciare è___é
Ok, oggi sono andata al cinema a vedere un film… non so come definirlo… ma che mi ha dato spunto per la fic.
Comincio dunque con i dovuti ringraziamenti e passo subito alla scrittura!
Capitatapercaso: Guarda, concordo con te. Mi svito gli
occhi anche io leggendo, e vorrei portarmi la vista
fino alla vecchiaia. Ma ho provato a postarlo più in
grande e veniva un appiccicume peggio del Verdiana 8
*annuisce* scusa se lo tengo in piccolo, ma sembrava un quadro di Picasso più
grande ç____ç. Grazie mille per il commento, il teatrino con tutti i personaggi
mi ha fatto morire! E
naturalmente il tuo è il commento più lungo XD spero che anche questo capitolo
ti soddisfi come pare abbiano fatto gli altri! E
grazie per aver letto e commentato! Slice: Ti giuro,
non sai quanto sono contenta che ti piaccia il mio stile di scrittura ç_____ç e
anche la trama, ovvio, anche se mi sto faticosamente riservando di non
ampliarla sempre di più altrimenti mi viene un casino bestiale! XD Tranquilla,
andrò a dare un occhio anche alla tue fic *annuisce* te lo devo, dato che tu hai letto e
commentato la mia! Grazie mille! Girlstreet: La mia fantasia
ringrazia, e anche io XD Grazie mille per aver letto e commentato!
LalyBlackangel: Ci avevo effettivamente pensato di
inserire una KibaIno per un pezzo di trama, ma la mia
anima da yaoiomane si è rivoltata stile sottiletta.
E, alla fine, le mie mani non ne hanno voluto sapere
di scriverne un pezzo. E il fatto che il mio corpo prenda da solo di questa iniziative mi inquieta grandemente… XD so che mi
si aprirebbero molte porte, ma ho uno schema e preferisco tenerlo così com’è;
se comincio a cambiare particolare addio linea generale di pianificazione!
Grazie per avere letto e commentato, spero che ti piaccia anche questo
capitolo! Shichan: Beh,
aibou, quello che dovevo dirti te l’ho detto in
separata sede, cmq grazie XD VavvyMalfoy91:
Dovrebbero metterli fuori legge i tuoi commenti, mi fanno sentire troppo
brava, e questo non va bene! >___< che dire, sono felice di
rientrare nelle tue divinità.org, nessuno mi aveva fatto salire al livello
divino fino ad oggi! *_____* che bello, si vede il mondo dall’alto! *sta seduta
sul trono* … oh myself, torniamo con i piedi per
terra che è meglio. Oltre a ringraziarti per aver letto e commentato, per il
momento non so che altro dire! XD Spero che ti piaccia anche il terzo capitolo,
e spero anche che la mia vena creativa non mi mandi a
quel paese proprio ora >.> OnlyAShadow: Non
sei solo tu a saltare delle parti, ma anche io che mi perdo nello spiegarle,
probabilmente XD Grazie mille per aver letto e commentato! Kagchan: Sì, anche io seguo l’Ouran XD e anche
io ho tutti i numeri del manga fin’ora
usciti, ovvio ù____ù. Grazie mille per aver letto anche questo capitolo!
XD
Oh, un’altra cosa. Questo capitolo sarà parecchio Kiba-centric. Mi dispiace di non poter ancora dare spazio
al SasuNaru, ma per esigenze di trama devo sviluppare
prima Kiba, poi passare agli altri due U___U. Comunque
più avanti ce ne sarà a volontà.
Ok, fine delle comunicazioni di servizio!
.:: Enjoy! ::.
Chapter
02 ~ Second Echo
Quel Confine fra Sogno e Realtà
Era rimasto a
guardare il lenzuolo bianco sotto cui vi era il
cadavere della ragazza suicida fino alle sei del mattino, ora in cui la preside
aveva deciso di portare il corpo nei sotterranei.
E lui, lo sguardo vuoto piantato su quel
lenzuolo, non aveva mai smesso di fissarla, poggiato al davanzale della
finestra da cui, per una qualche ragione che non riusciva a capire, stava per
buttarsi a sua volta.
Aveva visto
arrivare praticamente tutto il corpo insegnanti, da
quella finestra. Per primi la preside e il vicepreside, madamigella Tsunade in
pigiama e vestaglia verde di seta e il pallido volto di Orochimaru,
le labbra sottili piegate in un ghigno sadico alla vista del sangue che
macchiava il cemento del cortile interno.
Successivamente era arrivato correndo il vescovo della
chiesa, sua eccellenza Jiraiya, in pigiama a sua volta e con la lunga chioma di
capelli bianchi lasciai cadere lungo la schiena.
Poi, uno ad uno,
tutti gli insegnanti. Aveva riconosciuto la zazzera argentea del maestro
Kakashi chinarsi sul cadavere, sollevare appena il lenzuolo e guardarlo per
qualche istante.
Si chiedeva come
facevano a non vomitare, dato che lui aveva la nausea
solamente a guardarlo da lì. Poi, senza cambiare nemmeno posizione, si
domandava perché pensasse a queste cose stupide proprio in un momento come
quello. Quella ragazza era morta, santo Cielo, e lui
l’aveva sognato con 24 ore
d’anticipo!
Tutto nello
stesso, identico, fottutissimo ordine.
Ma, ovviamente,
non ne avrebbe fatto parola con nessuno. Non ci
pensava nemmeno.
Dopotutto poteva
essere una coincidenza. Una strabiliante coincidenza, a dirla tutta.
Ma si sa, gli esseri umani possono credere a
tutto, persino alle loro stesse menzogne.
Naruto era rimasto
con lui per tutto il tempo, appoggiato con un braccio intorno alle sue spalle e
la fronte accanto alla sua spalla. Molte volte aveva tentato di dissuaderlo da
rimanere a guardare, tentando di convincerlo a tornare in camera, ma non c’era
stato verso.
Semplicemente
perché non riusciva a muoversi da quella finestra.
Non aveva mai
visto nessuno morire, in vita sua…
Pian piano tutti
si ritirarono nelle loro stanze e quando anche la preside stava per andarsene,
Sasuke la intercettò. Lasciando Kiba nelle mani di Naruto era sceso al pian
terreno, in modo da poter parlare con madamigella Tsunade. E, dal modo in cui
entrambi girarono il volto in sua direzione, capì al
volo che parlavano di lui.
E cosa doveva
dirgli: “madamigella Tsunade, Kiba era sonnambulo e
stava per lanciarsi dalla finestra”? Bel lavoro, e la preside cosa avrebbe
dovuto farci, dato che ora aveva un cadavere nelle
cantine?
Non vide come andò
a finire la discussione, non ne ebbe improvvisamente
voglia.
D’un tratto si sentiva sfinito, senza
energie.
Salutò
Naruto, rifiutando gentilmente la sua offerta di accompagnarlo fino alla camera
e, a passo lento, tornò
a letto. Tanto, come avvertirono poche ore dopo, le lezioni del giorno erano
state annullate.
Ed era sul quel letto che ancora stava,
cercando un sonno che da ore non aveva intenzione di arrivare. Non aveva
nemmeno tentato di cambiare posizione, rimanendo sul fianco con il volto in
direzione della porta, le mani abbandonate accanto al viso.
E non aveva chiuso occhio nemmeno per un
istante, fissando costantemente e senza guardarlo davvero l’angolo della porta
in basso a destra, come se ci fosse un motivo di valore esistenziale in quella
precisa zona del muro.
Distolse lo
sguardo solamente quando, rompendo violentemente il silenzio, bussarono due
volte alla porta.
Silenzio. Il
silenzio di chi aspetta una risposta e, d’altra parte, il silenzio di chi non
aveva la forza di aprir bocca per fornirla.
Bussarono di nuovo
dopo poco, insistentemente. << Inuzuka, sei in camera? >> si
aggiunse al rumore sordo appena provocato.
Riconosceva il
timbro.
Sospirò,
raccogliendo le braccia sotto al torace e,
puntellandosi sul materasso, fece forza per sollevarsi. Le gambe, dopo ore ed
ore passate in posizione fetale, si opposero con il dolore al suo tentativo di
alzarsi, venendo tuttavia vinte dalla volontà del loro proprietario.
Si alzò in piedi
barcollando e, con qualche passo un po’ malfermo raggiunse la porta,
sbloccandone la serratura con un giro di chiave. Appoggiando poi la destra sul
pomello, lo girò in senso orario fino ad aprire la porta.
Come aveva
immaginato. Davanti a lui, con in mano un vassoio di
legno laccato con sopra qualche pietanza, Shikamaru Nara lo osservava con i
suoi occhi neri e sottili, i capelli tirati nella solita coda alta.
Lo osservò con gli
occhi socchiusi e gonfi, ricevendo in cambio lo sguardo pigro ma preoccupato
del moro, che gli sorrise appena. << Pensavo non
fossi in camera >> disse, posando gli occhi sul cibo che trasportava
<< ti ho portato qualcosa da mangiare, Naruto mi
ha detto che non sei sceso a pranzo e nemmeno a colazione >> aggiunse,
probabilmente per sopperire al silenzio di Kiba, che stava semplicemente in
piedi a guardarlo.
Kiba abbassò
lentamente gli occhi sul vassoio, storcendo appena il naso quando il suo
stomaco si chiuse, facendogli notare la poca voglia che avesse di mangiare
qualsiasi cosa. Soprattutto, come in quel caso, la macedonia con yougurt che il moro gli aveva portato su dalla mensa.
<< Non ho fame… >> sussurrò solamente, ritornando con le
iridi castane su quelle scure di Shikamaru.
Il moro sospirò,
allungando comunque il vassoio a Kiba che, più per
riflesso condizionato che per altro, lo afferrò. << Immaginavo una
risposta simile, ma il signor Ichiraku ha insistito
perché ti portassi almeno della frutta. Naruto voleva
rifilarti del ramen, dovresti ringraziarmi
>> disse, portandosi poi le mani in tasca e osservandolo con la sua
solita, classica espressione seria e pigra al contempo.
Il signor Ichiraku era il capocuoco della mensa. Faceva un ramen eccezionale, a sentire Naruto, ma cucinava benissimo
anche molte altre cose. Aveva la vaga sensazione che quell’uomo si affezionasse in fretta a tutti coloro che apprezzavano la
sua cucina, per questo si era preoccupato di mandargli qualcosa da mangiare,
non avendolo visto né per colazione né per pranzo.
Figurarsi che
aveva perso la cognizione del tempo, non sapeva nemmeno che ore fossero al
momento.
Tuttavia, non
sembrò gradire la risposta. Ringraziarlo? Ringraziarlo per cosa, per una misera
terrina di macedonia con un barattolino di yogurt sopra? Ringraziarlo per
essere sparito per un giorno intero? Ringraziarlo per non essere stato con lui,
mentre quella ragazza si buttava dal tetto? Ringraziarlo per cosa, per essere
ricomparso quando non ce ne era bisogno?
<< Non te l’ho di certo chiesto io >> fu la risposta del castano,
la voce sibillina e lo sguardo basso.
Ma cosa… stava pensando? Idiota, non aveva di
certo bisogno di Shikamaru. Sapeva badare a se stesso, santo Cielo.
Nonostante
il tono palesemente ostile della risposta il moro non fece una piega. Forse se l’aspettava o forse
semplicemente non gli importava, in ogni caso la cosa sembrava non toccarlo
minimamente. Era la seconda volta che lo notava, Shikamaru riusciva a mantenere
un controllo quasi perfetto sulle sue emozioni.
Chiuse poi gli
occhi, sorridendo ironicamente. << Hai ragione >>
rispose, voltandosi a destra e cominciando a dirigersi in direzione
delle scale, in silenzio.
Il castano lo
osservò senza aggiungere nulla, mordendosi il labbro inferiore mentre lo
seguiva nella sua camminata lenta e tranquilla. Una parte di
lui lo faceva sentire in colpa per come gli aveva risposto; dopotutto
era solamente venuto a portargli della frutta… ma un’altra parte, quella
nascosta più in profondità nel suo istinto, gli diceva di essere nel giusto,
gli diceva che nessuno si sarebbe mai fatto passare per il cervello di andare a
disturbare uno che aveva assistito poche ore prima ad un suicidio, gli diceva
che Shiakamaru non capiva nulla di come si sentiva in
quel momento, che era solo uno stupido.
Tuttavia, sembrò vincere la ragione, questa volta.
<< Scusami
>> gli disse, prima che il moro si fosse
allontanato troppo. Ovviamente non sollevò lo sguardo oltre
sue le gambe, notando solamente che, fermandosi, si era voltato
leggermente verso di lui… e questo era sufficiente.
Non aveva il
coraggio di guardarlo negli occhi. Anzi no, non aveva bisogno di guardarlo negli occhi.
Non vide
l’espressione che fece Shikamaru ma, a giudicare dall’intonazione,
probabilmente si aspettava anche le sue scuse. Eh sì, doveva proprio
chiederglielo come facesse a capire così facilmente cosa gli passasse per la
mente.
<< Non fa
nulla >> rispose infatti il ragazzo <<
considerando quello che hai passato, va bene così >> aggiunse, le mani
ancora nelle tasche quando si girò di nuovo, ricominciando a camminare.
<< Ah, Nara?
>> aggiunse poi, alzando la voce in modo tale che il moro potesse ancora sentirlo.
Cosa che accadde,
dato che si fermo pochi passi dopo, voltandosi in sua
direzione e attendendo in silenzio la domanda.
<< Come… si
chiamava, la ragazza? >> chiese, questa volta guardandolo in volto.
<< Agatha
>> rispose il moro, alzando una mano in segno di saluto e incamminandosi
nuovamente verso le scale, ormai non troppo distanti.
Kiba
sorrise appena, osservando la sua schiena mentre si allontanava. E, in un
pensiero quasi buffo, gli venne in mente: anche Shikamaru portava la divisa
come lui e Naruto; nello stesso, identico modo.
Stava seduto sul banco, la camicia da notte
in seta bianca a mezze maniche e collo alto. I capelli biondi gli ricadevano
morbidi sulla spalla destra, racchiusi in una treccia ordinata che terminava in
un fiocchetto nero.
Di nuovo così, di nuovo come l’altra volta.
Si sentiva Kiba ma, allo stesso tempo, era
come se non lo fosse.
E, di nuovo, era triste di una disperazione
talmente profonda da non riuscire nemmeno a ricordarsi cosa si provasse ad essere semplicemente felici.
Oppure,
semplicemente a sorridere.
C’era, ma era come se non ci fosse. Vedeva
le sue mani, il suo corpo che suo non era, i capelli che mai in vita sua erano
stati così lunghi, o di quel colore.
Chi era lui? Chi era la persona di cui ora
aveva le sembianze e le sensazioni?
Chi era, colei con la quale riusciva a
sincronizzarsi così?
…che domande si stava…
facendo?
Abbassò lo sguardo sui suoi polsi,
lievemente, canticchiando a bassa voce una canzoncina con voce acuta e melodiosa
mentre, con la destra, quasi abitudinariamente staccava il pezzo di scotch
medico che teneva ferma una benda, cominciando a
srotolarla.
<< Balla la notte sopra la Terra, balla la Luna nell’oscurità… >>
Srotola, srotola…
l’odore di disinfettante che diveniva quasi fastidioso.
<< Scende il buio nella mia mente, scende la notte sulla realtà… >>
Tagli, tagli, tagli… decine, forse di più,
di piccole tracce lineari su una pelle arrossata e martoriata.
Bruciavano, bruciavano
come il ghiaccio, di quel dolore sordo e silenziosamente lacerante.
<< Giudica la colpa, giudica la pietà. Ma il
perdono è qualcosa che non arriverà!
>>
All’ultima parola, all’ultima nota, la mano
destra si alza davanti al volto. L’unghia dell’indice, facendogli dolere i
tendini della mano fino a fargli fischiare le orecchie, cresce fino ai venti
centimetri, affilata quanto un rasoio e, con un movimenti
abile e veloce, recide in un lampo la pelle del polso destro, ora
scoperto dalla benda, lasciata posare a terra in un piccolo mucchietto bianco e
scarlatto.
Sangue.
Scorre lentamente, caldo, colando lungo il
polso fino al braccio, cominciando a gocciolare sulla vestaglia bianca,
macchiandola di tracce rubine che ne inquinano la
purezza, il candore di quel bianco quasi angelico.
Al collo, un crocefisso d’oro.
<< Non c’è redenzione per noi, Signore. Non c’è pietà per noi, Signore >> continua, alzando il braccio.
E colpendosi. Ancora. Ancora.
Ancora.
Ancora uno, ancora
più profondo.
E il sangue scorre nella notte
nera, rendendo tutto scuro e freddo, finchè il liquido vitale non colora anche
l’;oscurità di scarlatto brillante, di caldo rubino tremante di vitalità.
Finché
la vista non si affievolisce, finché l’udito pian piano non svanisce…
L’ultimo battito debole di un cuore
straziato dal peccato.
Da un peccato che, lui, non sapeva nemmeno
quale fosse.
Il peccato invisibile del peccatore di
cristallo.
Aprì lentamente
gli occhi, senza fiato, trovando tuttavia difficoltà nel mettere a fuoco il
soffitto bianco.
Notte. Era ancora
notte, per fortuna.
E stava… piangendo. Per quello non vedeva.
Una
caldo velo di lacrime
gli riempiva gli occhi, scendendo lentamente lungo la gota, arrivando a
sfiorare l’orecchio in una preziosa scia salata di tristezza.
Che cos’era? Quello… che cos’era?
Basta, basta!
Quante volte ancora doveva sognare gente che si toglieva la vita? Agatha non
era bastata?
Evidentemente no.
Trattenne il fiato
per non singhiozzare, appoggiandosi l’avambraccio destro sugli occhi come se
qualcuno potesse vederlo e lui, orgoglioso, non volesse farsi vedere. Gli
uomini non piangono, solo le donnicciole
lo fanno.
Si morse le
labbra, trattenendo il respiro il più possibile, ma fu inutile: prima o poi lui avrebbe dovuto respirare e, prima o poi,
avrebbe emesso, volente o nolente, quel singhiozzo che cercava invano di
trattenere.
E, nonostante fosse fisicamente da solo, in
realtà non lo era. Perché lui doveva fronteggiare il
suo orgoglio e, in questo caso, non si è mai
soli.
Respirò
dunque lentamente, concentrandosi e facendo entrare aria lentamente all’interno
dei polmoni. Doveva
calmarsi, se respirava lentamente ce l’avrebbe fatta
non lasciarsi andare, a non piangere come una femminuccia.
Anche
questo merito di sua sorella, a cui aveva visto fare le respirazioni per
calmarsi, prima dell’esame.
Diamine, quella ragazza si stava rivelando più utile del previsto.
Pensando alla
sorella si rese improvvisamente conto di una cosa; mentre sua madre lo chiamava
non appena sembrava avere un attimo libero, sua sorella non si era ancora fatta
sentire. Aveva detto che gli avrebbe mandato delle e-mail… già, figurati se si disturbava a prendere in mano un telefono e comporre un
numero, troppo semplicistico per la signorina college-dei-sogni.
Sospirando si
alzò, finalmente calmo, scostando le lenzuola con un la destra e si diresse con
qualche passo verso la scrivania, sedendosi sulla sedia girevole.
Accese il
computer, attendendo che il sistema caricasse le
impostazioni.
Lo sguardo scivolò
sulla porta chiusa, rimanendovi incatenato. Se il
sogno era come quello precedente… forse in questo momento… all’interno di una
delle classi…
No. Non aveva
intenzione di crederci un secondo di più. Tutta quella faccenda di Agatha era una coincidenza, soprattutto quella che
riguardava il suo sogno e, comunque, se anche fosse accaduto che qualcuno si
tagliasse le vene, se doveva prendere in considerazione la precedente
esperienza il cosiddetto “suicidio” sarebbe avvenuto dopo 24 ore. Si rifiutava
di dare ragione ai suoi sogni… anche solo pensarlo era idiota.
Con un piccolo
suono, il computer evidenziò l’avvenuto caricamento delle impostazioni. Il suo
sguardo si distolse dalla porta, andando allo schermo luminoso nel buio della
camera.
Era lampante che
non aveva ancora messo mano a quel computer.
Effettivamente, da quando era arrivato, non aveva ancora avuto occasione per
lavorarci e, dunque, per personalizzarselo.
Tuttavia, avendo
una casella e-mail in comune per tutta l’accademia, almeno quella non doveva
impostarla tutta da capo.
Spostò il mouse
sull’icona delle mail, ciccando velocemente due volte.
Una volta aperto, cliccò l’icona “invia/ricevi”
aspettando che avesse terminato di scaricare tutte le varie mail che gli erano
arrivate.
In tutto, erano 3.
Aprì subito la
prima, proveniente dal centralino della scuola; ovvero dalla segretaria di madamigella
Tsunade, la signorina Shizune. Comunicava le regole dell’accademia, i coprifuoco, i titoli dei libri dell’anno in corso e faceva
i personali auguri per la recente ammissione alla scuola.
Non vi era obbligo
di risposta e lui, figuriamoci, non ne aveva nemmeno
intenzione.
Aprì la seconda
e-mail che notificava la presenza in rete di uno di quei super-virus
informatici di nuova generazione che ti distruggeva
l’hard-disk in venti millesimi di secondo, magari facendo anche una giravolta,
qualche capriola, e facendo apparire una scimmia in mutande che ti cantava le
Tagliatelle di Nonna Pina sullo schermo mentre il piccolo, insignificante
codice numerico binomiale comunemente chiamato
“virus” si ingoiava i tuoi dati e chiedeva anche caffè e grappino.
La metà di quelle mail di notifica risultava poi una farsa, dunque
la ignorò direttamente, cancellandola.
Finalmente
l’ultima portava come titolo un certo “Cagnolino” che,
ne era sicuro, poteva appartenere ad una persona sola.
Sua sorella; e la
sua mania di chiamarlo ancora come quando era bambino, sfottendolo appena vi
era l’occasione.
La aprì,
leggendola velocemente. Il testo consisteva in due righe, neanche così tanto
sentite, in cui chiedeva se la nuova scuola fosse
interessante e se avesse incontrato qualche tipo carino da presentarle.
…per chi l’aveva
preso, per una delle sue amichette chit-chat?(*)
Tuttavia, mentre pensava a cosa rispondere con la faccia di chi deve scrivere
al despota di turno, pensò che, effettivamente, la risposta sincera alla domanda
“com’è la scuola?” sarebbe stata talmente esauriente da farle venire un infarto
sul posto, ovunque avesse letto la mail di risposta.
Una cosa tipo: “vedi sorella, la scuola sembra uno zoo alieno degno di un
libro fantasy, di cui tu dovresti sapere qualcosa.
Mancano solo Edward Cullen e Jacob
Black (*2) ed è finita la collezione. Il mio professore legge gli stessi libri
che leggevi tu qualche anno fa e, tieniti forte, il mio impiego nel mondo sarà
quello di fare l’Alchimista. Non chiedermi che reddito hanno gli alchimisti, ma
se ti si rompe qualcosa te lo posso aggiustare nel
giro di venti secondi!” non sarebbe stata assolutamente male.
Incisiva, sufficientemente
esplicativa, senza ombra di dubbio da infarto del
miocardio.
Tuttavia, lo
ammetteva con se stesso, credibile come gli asini volanti.
Sbadigliando
più per noia che per sonno sbuffò, decidendo di adottare la più classica forma
del “qui tutto bene, scuola tutto bene, professori strani ma tutto bene. Tu?” battendo il record della sorella, concludendo tutto in nemmeno mezza riga di testo. Dopotutto
chiedeva solo per gentilezza, non che si aspettasse
veramente una risposta a cui, sempre per educazione nei confronti della
famiglia, avrebbe dovuto rispondere nuovamente.
E, senza offesa per la madre, ma uno scambio
di mail con la sorella maggiore non era la sua massima aspirazione.
Decise
dunque di chiudere il programma e, osservando l’orologio, prese la solenne
decisione di risistemare quel computer a modo suo. Cominciando, per esempio, a scaricare
della musica… o meglio, scaricando il programma per scaricare la musica, dato che quel PC era più vuoto del suo stomaco.
Tanto, non si
sarebbe riaddormentato comunque.
Il giorno dopo la
sua espressione a lezione diceva solamente una cosa: “letto,
cuscino, buonanotte”.
Se ne stava seduto
al banco, ascoltando le varie chiacchiere mattiniere di Ino
e Sakura senza tuttavia sentirle davvero. Non si ricordava nemmeno quando aveva
dato loro il permesso di chiamarlo per nome, il che è tutto dire.
Le normali quattro
ore di lezione erano passate senza che se ne accorgesse,
mentre il maestro Kakashi spiegava qualcosa su un tratto dei cerchi alchemici
con la sua solita flemma. Aveva preso appunti piuttosto confusionari, dato che
non aveva ancora ripreso tutti gli argomenti dei primi due anni, ma almeno
aveva fatto del suo meglio per stare attento, fra uno
sbadiglio e l’altro.
Pensandoci
attentamente, aveva passato quattro ore al computer, prima di scendere a
colazione.
Computer che ora
sembrava un po’ più il suo e un po’ meno uscito da uno scatolone.
Si era
completamente scordato del sogno, della ragazza, di Agatha
e del suo sonnambulismo. Anzi, aveva appositamente
fatto in modo di non pensarci, cercando
di dimenticare.
Non era tipo da
perdersi in pare mentali che potevano non avere né capo né coda.
<< Inuzuka!
>> si sentì poi chiamare, interrompendo i suoi pensieri.
Alzò il volto in
direzione della porta, notando che la classe era quasi vuota
e solo qualche compagno si attardava a chiacchierare ai banchi. Era già
suonata la campana? E quando?
Là, in piedi
accanto allo stipite, Naruto Uzumaki aveva alzato una mano in sua direzione.
Aveva in mano una specie di scatolone in legno scuro
e, al polso destro (la mano con cui tratteneva quella scatola) pendeva una
sportina bianca di plastica. Lui si alzò, lasciando come al
solito la cartella in classe e avvicinandosi al biondo.
<< Yo,
Uzumaki >> salutò, portando una mano al viso per coprire l’ennesimo
sbadiglio.
<< Yo,
Inuzuka >> rispose a tono il biondo << dormito poco? >>
aggiunse subito dopo.
Kiba aprì un occhi durante lo sbadiglio, aspettando di terminarlo
prima di rispondergli << dormito male >> disse, sfregandosi gli
occhi con la mano destra << incubi >> aggiunse in spiegazione,
rimanendo però sul vago.
La reazione che
ebbe Naruto lo lasciò interdetto, semplicemente perché non se la aspettava.
Prima lo osservò stranito, per poi abbassare lo sguardo e puntare le iridi
azzurre sull’angolo della porta. Inconsciamente poi fece un passo indietro,
incontrando lo stipite della porta. << Mi… dispiace
>> aggiunse infine, sorridendo imbarazzato.
Ma che aveva capito? Che stesse pensando a
quella storia di Agatha?
<< Guarda
che non è colpa del… beh, di quello >> chiarì
subito Kiba << ultimamente mi capita di fare sogni… strani. Ma credo sia
a causa del cambio di ambiente. Insomma, sono nella
scuola da poco tempo… >> aggiunse, infilandosi le mani in tasca come al solito.
Naruto sembrò
sollevato e, a riprova di questo, sospirò profondamente. << Meno male
>> disse poi, sorridendo allegro. << Bene, ora andiamo a pranzo che
sto morendo di fame! >> esordì, prendendo Kiba per un
gomito e, ridacchiando, cominciò a tirarlo in corridoio.
<< Uzumaki,
so camminare anche da solo! >> sbottò il castano mentre veniva letteralmente trascinato per il corridoio, sotto gli
sguardi talvolta interdetti e talvolta divertiti di quelli che incrociavano.
<< No! Poi
va a finire che ti perdi di nuovo! >> lo sfotté il biondo, continuando a
tirarlo.
Kiba, per tutta
risposta, gli diede un pizzicotto sulla mano, cosicché il biondo fu costretto a
mollarlo per cause di forza maggiore. << Ahio!
Fa male! >> si lamentò, massaggiandosi il dorso della mancina.
<< Uomo
avvisato mezzo salvato >> ribatté Kiba, ricominciando a camminare
affiancandosi al biondo. << Piuttosto, non stai con Uchiha oggi? >> chiese soprapensiero, seguendo l’altro lungo il corridoio
prima di svoltare lungo il ponte sospeso.
Veniva chiamato “ponte sospeso” perché era un
corridoio letteralmente sospeso sopra
il giardino interno, che lo attraversava per tutta la lunghezza, connettendo
l’edificio delle classi ad un edificio più piccolo, dove vi era la biblioteca.
Poteva essere raggiunto anche dal basso, tramite due corridoi che andavano
paralleli al piano terra, ma sicuramente la camminata sul ponte era molto più
apprezzabile. Entrambi i lati del ponte erano fatti per di finestre, dal
soffitto a punta fino al pavimento, e la stabilità alla struttura era data da
una particolare sospensione ad arco stile Golden Gate Bridge, però al contrario.
Due enormi archi, infatti, univano le due estremità del ponte, da cui partivano
diverse corde in acciaio che di collegavano al tetto e
trattenevano il corridoio in una immobilità perfetta, anche in caso di
tempesta. Geometricamente, era come se il ponte sospeso fosse la corda di una
semi-circonferenza.
Poteva essere
anche romantico, sotto certi punti di vista.
<< Non pranziamo mai insieme >> rispose Naruto con
semplicità, voltando il capo in sua direzione << Sasuke solitamente
mangia con il Signore delle Mosche e altri della nostra classe. Credo sia una
specie di cosa tipo “pranzo con gli amici e cena insieme” Ma è
abitudine, più che altro >> terminò, arrivando velocemente alla fine del
ponte sospeso.
Ah, dunque Uchiha
non era allergico ai rapporti sociali…
<< Il
Signore delle Mosche? >> chiese però Kiba, alzando un sopracciglio.
<< Shino
Aburame >> rispose velocemente Naruto, annuendo come se fosse una
cospirazione solo fra loro due << Quello con cui abbiamo
pranzato l’altra sera. è un Esper
ed è in classe con Shikamaru. Comanda gli insetti come vuole, è roba da non
credere… >>
Certo, parlava la
reincarnazione della Volpe a Nove Code…
<< Ah.
Abilità… >> ci pensò sopra un momento << …schifosa. Stavo per
definirla interessante ma mi manca il coraggio per
farlo >> ribatté il castano, mostrando la lingua in segno di disprezzo.
<< Già, concordo… >> aggiunse Naruto, guidandolo ora diritto
lungo la porta esattamente di fronte alla fine del ponte sospeso. Con una
leggera pressione sulla maniglia il biondo la aprì, cominciando poi a salire la
scalinata semibuia che gli si era presentata davanti.
<< Dove
porta? >> chiese Kiba seguendolo, salendo i gradini giusto dietro di lui.
<< Lo vedrai >> rispose Naruto, arrivando velocemente alla
fine di quella scalinata, dopo una leggera curva a 90° della stessa.
Una volta che
Naruto ebbe aperto anche la seconda porta, un fascio
di luce esterna lo investì in pieno, facendogli chiudere gli occhi per un
istante. Una volta che si fu abituato alla luce, la visione di un cielo azzurro
e soleggiato tipico settembrino si scontrò con quella di un terrazzo non molto
largo, ma sufficientemente grande per permettere a un
gruppo di amici di riunirsi per pranzare insieme.
La veranda sarà
stata ampia circa tre metri per quattro e dietro di loro, ovvero a livello
della porta da cui erano entrati, il tetto di quello che doveva essere l’edificio
della biblioteca scolastica era formato da tegole di
cotto color blu, molto particolari, con un crocefisso dorato in cima ad una
piccola torretta.
Probabilmente
avevano ripreso lo sfondo cromatico della chiesa, elaborata in un stile gotico in un tipo pregiato di marmo dalle sfumature
azzurre, soprattutto in giornate limpide come quella.
Uno
volta che il suo
sguardo si fu completamente abituato alla luce, Kiba poté finalmente vedere a
quale “gruppo” si riferiva Naruto quando, qualche giorno prima, lo aveva
invitato ad unirsi a “loro”. Sulla destra, seduto a gambe incrociate, un
ragazzo grasso e dai capelli lunghi dal colore castano chiaro sgranocchiava un
pacchetto di patatine. Aveva la giacca della divisa completamente slacciata, la
cravatta assente, ma si poteva vedere benissimo una croce in oro appuntata
sopra lo stemma. Un Esorcista, anche se non lo sembrava
affatto. Cos’è’ che esorcizzava esattamente, i pacchetti di Cipster?
Dalla parte opposta,
steso a terra con le braccia portate dietro la nuca, Shikamaru “ciuffo ad
ananas” Nara osservava le nuvole che, pigramente, si rincorrevano nel cielo
nella piacevole brezza di fine mattina.
<< Yo raga!
>> salutò allegramente Naruto, alzando in aria la mano con lo scatolone e
la sportina << il cibo per i campioni! >> aggiunse poi, attirando
l’attenzione degli altri due.
<< Ti prego Naruto, sembra la pubblicità della Friskies…
>> commentò Shikamaru, alzandosi quasi faticosamente dalla sua posizione
distesa, osservando solo adesso Kiba, in piedi a fianco del biondo. <<
Oh, Inuzuka >> commentò solamente, alzando una mano in segno di saluto.
<< Nara
>> salutò cortesemente Kiba, alzando la mano sinistra a sua volta. Un
leggero venticello muoveva la giacca delle loro divise e faceva ondeggiare i
capelli del ciccione, dato che erano sicuramente i più
lunghi.
<<
Finalmente Naruto, sei in ritardo! >> esordì invece l’altro ragazzo,
allungando subito le mani verso il biondo << hai preso
il mio pranzo, eh? Ichiraku ha preparato la mia
bistecca preferita anche oggi? >> cominciò a domandare, osservando Naruto
come se dovesse mangiarselo al posto del pranzo, se non glielo consegnava
subito.
<< Per chi
mi hai preso, animale! Io non sono il tuo cameriere! >> ribatté il biondo, alzando la scatola nera sopra la sua testa
<< prima le dovute presentazioni >> aggiunse poi, girandosi
in direzione di Kiba.
<< Dato che Shikamaru lo conosci già… >> cominciò dunque
il biondo << …ti presento Choji Akimichi, ha la nostra età. Choji,
questo è Kiba Inuzuka, il novellino degli Alchimisti >> disse
tranquillamente Naruto, indicando Kiba con il pollice.
Sospirò
rassegnato. Per quanto ancora doveva essere chiamato “novellino” in quella cavolo di accademia?
Osservò Choji con espressione rassegnata, convincendosi mentalmente
a sfoderare un sorriso abbastanza credibile. Perché veniva
trascinato sempre in giro, perché?
<< Piacere
>> disse quello, sorridendo << puoi
chiamarmi Choji se ti va, a me non interessa >>
rispose allegro.
Kiba rimase sorpreso
per un attimo. Nonostante la stazza, quel tizio sembrava
buono come un pezzo di pane e, di certo, non appariva pericoloso e/o
potenzialmente omicida e/o un mezz’angelo/mezzo demone frustrato con crisi da
sterminatore.
Beh, essendo un
Esorcista la sua particolarità poteva essere solamente quella di vedere le cose
ultraterrene, no?
<< Ah,
grazie. Anche tu chiamami pure Kiba >> rispose,
automatismo di cortesia, e Naruto prese la palla al balzo: << allora
anche io! >> disse contendo, circondandogli le
spalle con la mano libera dall’ingombro del pranzo << tu chiamami Naruto.
E anche Shikamaru, ovvio! >> aggiunse
subito, coinvolgendo con un sorriso anche il quarto membro, che definire
svogliato era una presa per i fondelli. Shikamaru si limitò ad un’alzata
di spalle.
Bene, quelle
quattro persone erano passate autonomamente al livello “amici” senza nemmeno
sapere come.
Beh, almeno
avrebbe avuto qualcosa da dire all’ennesima telefonata della sua madre
schiavista e militarista.
<< Naruto, vorrei pranzare prima dell’anno nuovo >> intervenne
poi Shikamaru, distogliendolo dai suoi pensieri.
<< Esatto
Naruto, io ho fame! >> aggiunse Choji, facendo
segno con la mano di passargli il tanto agognato pranzo.
<< Va bene, va bene! Asociali! >> disse poi il biondo,
distaccandosi dalle spalle di Kiba e indicandogli il posto alla destra di
Shikamaru, ultimo per chiudere il cerchio.
Dopo essersi
seduto, in contemporanea a Naruto alla sua destra,
sorrise. Fare parte di quel gruppetto lo faceva sentire come quando, alla
scuola pubblica, Zuzu lo aveva trascinato sul
terrazzo con un panino al latte e una lattina di coca da dividere. Si sentiva
parte… della scuola, in un certo senso, e non solo come comune essere umano dal senso dell’orientamento ancora nullo, vagante per
i corridoi in cerca di qualcosa di indefinito e con la fortuna talmente assente
da incontrarsi tutti i soggetti più pericolosi in circolazione.
Diamine… questa
descrizione gli calzava proprio…
Si voltò poi verso
Naruto, ora intento ad aprire i vari sacchetti e scatole. << Bene bene, le ordinazioni per i signori >> cominciò, scherzando, il biondo. << Shikamaru, per te
il solito bento(*3) misto. Ichiraku
mi ha detto che oggi ci ha messo le omelette perché aveva finito il salmoneA dire ilm
>> disse, estraendo dal sacchetto una scatolina in legno nero, che passò
poi a Shikamaru.
Il moro rispose
con un semplice “mh” di approvazione,
sfilando il coperchio e prendendo le bacchette che Naruto gli stava passando.
All’interno vi era da una parte riso, dall’altra un
misto di insalata e altre verdure spezzettate, uova sode tagliate
ordinatamente, gamberetti ben ripuliti e cinque omelette con prosciutto e
formaggio.
Sembrava molto
invitante.
<< Kiba, Ichiraku ha detto che ami la carne di pollo, così ti ha preparato un panino con insalata di pollo >> disse
Naruto rivolto in sua direzione, consegnandogli il resto del contenuto della
sportina in plastica.
<< Sì, va
benissimo! >> rispose Kiba, estraendo subito la mezza baguette
debitamente avvolta dalla carta stagnola. Quel cuoco era fenomenale, si
ricordava persino i suoi gusti da quell’unica volta che gli aveva
chiesto il panino al pollo al posto della minestra… incredibile.
<< Per me,
il mio ramen di miso!
>> esclamò poi il ragazzo, estraendo dalla scatola in
legno nero una ciotola con un pezzo di pellicola sopra. << Tesorino mio
adorato, farai presto parte di me… >> disse,
strusciandosi contro la ciotola per qualche istante, prima di passare
all’ultimo ragazzo. << Choji, per te il solito
chilo e mezzo di carne grigliata >> disse, avvicinandogli il resto della
scatola.
Kiba faticò ad
ingoiare l’ultimo boccone, rischiando seriamente di strozzarsi con il pollo e
l’insalata che gli stava attorno. Quanta carne aveva detto che si ingoiava quel bidone?!
<< Come fai
a strafogarti con tutta quella roba? >> chiese senza tatto, osservando Choji
con occhi sgranati inforchettare cinque fette di
carne e metterle in bocca.
<< Per Choji è normale >> intervenne
Shikamaru, evidentemente abituato allo spettacolo << ci farai l’abitudine
>> concluse solamente, sotto l’annuire convinto di Naruto, anche lui con
la bocca piena di ramen.
<< …sì,
certo… >> anche se, a dire il vero, non ne era
affatto convinto. << Piuttosto Uzum… Naruto
>> si corresse solamente all’ultimo istante,
facendo sorridere il biondino << come faceva Ichiraku
a sapere che venivo a mangiare con voi? >> chiese.
<< Gliel’ho detto io >> rispose semplicemente lui, risucchiando
l’ultimo spaghetto di miso. << Avevo intenzione
di invitarti, così gli ho detto di preparare anche qualcosa per te >>
aggiunse allegro.
<< Noi non
mangiamo mai in mensa >> si aggiunse Shikamaru,
osservandolo con la sua solita faccia scocciata << era questo che volevi
chiedere? >> chiese, afferrando con le bacchette un po’
di riso e portandoselo alla bocca.
Ma come diavolo faceva sempre, quello?!
<< …un giorno mi dirai come fai a leggermi nel pensiero >> gli
rispose il castano, Shikamaru sorrise appena.
<< La mensa
è troppo rumorosa >> rispose per lui Choji, che aveva già divorato tutta la carne. <<
gente che va e che viene, un chiacchiericcio continuo in sottofondo, gli urletti isterici delle ragazze… dopo un po’ fanno venire
mal di testa >> aggiunse, massaggiandosi la
pancia con la mancina.
<< Abbiamo
trovato questo posto per caso >> disse poi
Naruto, per continuare il discorso << e dunque ci riuniamo qui a
mangiare. A cena non possiamo, dato che è buio, ma per il pranzo è l’ideale
>> terminò, sorridendo allegro.
Più li guardava,
più capiva che, nonostante le loro diversità, erano veramente amici. Ognuno
conosceva i gusti culinari dell’altro, si accettavano per quello che erano e, ne era sicuro, tutti e tre sapevano molte cose l’uno
dell’altro.
Eh sì, sembrava
veramente il gruppetto della scuola pubblica… con l’unica differenza che ora
era in compagnia di uno stomaco stile buco nero, di un demone sanguemisto e di
un ragazzo di cui, pensandoci meglio, non sapeva ancora nulla.
Beh, sempre meglio
di niente, no?
La giornata passò
velocemente. Al pomeriggio aveva nuovamente le ore libere, che passò in biblioteca a cercare di avanzare con il programma
dei primi due anni.
Aveva
Combattimento il lunedì e il giovedì. Venne inoltre a sapere che solamente il
terzo e quarto anno facevano due volte a settimana mentre, forse più fortunati,
erano quelli del primo e secondo anno, che la facevano
solamente una volta a settimana.
Al sabato però si
faceva Combattimento al mattino, in quanto non vi
erano lezioni teoriche. O almeno, la sua classe non aveva nemmeno quello, al sabato.
Perciò aveva tutto il fine settimana libero, il
che non era malvagio.
Come al solito tornò in camera verso le 18, doccia veloce,
indossò un paio di jeans scuri e una maglia a mezza maniche azzurra e,
tranquillamente, si diresse a cena.
Questa volta
mangiò in compagnia di Choji e Naruto, mentre di
fronte a lui Sasuke mangiava seriamente al fianco di quell’ Aburame
di cui gli aveva parlato Naruto. Sì, doveva essere proprio il “signore delle
mosche”… osservandolo, poteva veramente dire che, a confronto, Sasuke era la
reincarnazione dell’allegria.
E il perché portasse gli occhiali da sole
anche a tavola rimaneva per lui un mistero.
Una
volta terminato il suo
purea di patate con quella strana fetta di carne che non sapeva cos’era, ma era
buona, ritornò in camera lentamente, sbadigliando.
Aveva ancora
qualche ora di sonno da recuperare e cominciavano a farsi sentire tutte quante.
Aprì
svogliatamente la porta della camera con l’apposita
chiave, buttando poi la stessa sul comò a destra e richiudendosi la porta alle
spalle, appoggiandovisi sopra con la schiena in un eccesso momentaneo di
stanchezza.
Doveva
smettere di spostare in continuazione in suo orologio biologico, non poteva dormire perennemente così poco. Certo,
quella è una cosa che si può fare durante le vacanze estive, ma quando c’è di
mezzo la scuola non è consigliabile, sua madre aveva ragione almeno su questo aspetto.
…ok, stava dando
ragione a sua madre. Doveva veramente dormire, altrimenti sarebbe finito ad
abbracciare la sorella nel giro di ventiquattro ore, e la cosa lo inquietava
grandemente.
Ma parli del diavolo…
Con
una melodia famigliare il cellulare, lasciato sulla scrivania prima della
doccia, prese a squillare prepotentemente e a vibrare al contempo, emettendo un rumore sordo a contatto
con il legno. Sbuffando appena si diresse in quella direzione, afferrando
l’apparecchio e leggendovi nel display la scritta “Mamma” lampeggiare insieme
al segnale di chiamata.
Sospirando seccato
spinse il tasto verde della tastiera, portandosi il telefono all’orecchio e
ritornando verso la porta, poggiandovi sopra la schiena ancora una volta.
<< Pronto? >> chiese retoricamente,
rispondendo.
<< Kiba? >> si sentì dall’altra
parte.
<< No, il
fantasma formaggino >> ironizzò appena, scivolando gradatamente sulla
porta e sedendosi a terra. Ma che cavolo di domande
faceva?
<< Smetti di fare lo stupido,
moccioso >> fu la risposta secca della madre, Kiba sorrise
appena. << Come stai? >>
chiese poi la donna, l’aria simulata di chi chiama
solamente per farti un enorme favore.
<< Come oggi
a mezzogiorno mamma, cosa vuoi che cambi in mezza giornata? >> rispose
irritato, alzando inconsciamente il tono della voce << mi chiami ogni
dodici ore, come vuoi che vada? >> aggiunse,
fissando con astio la gamba in metallo del letto.
Dio, non credeva
che fosse anche così piattola, sua madre!
<< Io ti chiamo quando mi pare e piace, figlio
degenere >> …ecco, per l’appunto.
Militarista fino
al midollo, dannata despota!
<< Sì, nulla
in contrario, ma potresti far cadere questo “quando mi pare e piace” a distanze
maggiori delle dodici ore di routine? Che so, una
volta a settimana, per esempio? >> azzardò, immaginandosi già la
risposta…
<< Te lo sogni >> …che arrivò puntuale.
<< Scommetto
che Hana non ha il “privilegio” di sentirti così
spesso, vero mammina? >> chiese, calcando con ironia quel “mammina” in modo
da smuovere il caratteraccio da contadino di campo che aveva sua madre.
<< Tua sorella non è sempre raggiungibile, e
poi lei è adulta, può cavarsela da sola >> rispose la madre,
sottintendendo ovviamente “tu sei ancora minorenne, ti metterai in contatto con
me anche a costo di venire lì di persona a prenderti a calci nel culo”. Certo, sua madre lo avrebbe detto in modo un po’ più
colorito, ma il significato di base era quello.
Doveva dire la
verità, aveva anche sfiorato l’idea che sua madre si sentisse
in colpa per averlo mandato in quel posto sperduto in terra di nessuno e, per
compensare questo senso di colpa, il suo subconscio voleva sentire come se la
passava per auto-giustificarsi della scelta di aver mandato il figlio in culo
al mondo solamente per il bene della figlia maggiore.
Ma già alla parola “subconscio” aveva avuto
il suo dubbio, e arrivando al sinonimo “coscienza” per concatenamento logico
aveva scartato l’ipotesi a priori.
Sua madre non aveva una coscienza, poco ma sicuro.
Di una sola cosa
era sicuro: avrebbe dovuto ricordarsi di spegnere quel dannato cellulare.
<< Allora Kiba, hai mangiato bene? A scuola
tutto ok? I tuoi voti? Dormi abbastanza? >>
Eccole. Le domande da madre incallita, sparate a
raffica quando meno te le aspetti e che, in linea con il carattere della donna,
pretendevano risposte brevi e concise.
Aveva una sua
opinione per tutto ciò. Era probabile che quando una donna diventava madre,
nasceva in lei una sorta di complesso che la portava a preoccuparsi più per la
maglia di lana dei figli che, magari, della casa che andava a fuoco.
Sospirò
nuovamente. Le donne erano quella categoria assurda
che non avrebbe mai capito.
<< Sì,
mamma, sì… >> rispose esasperato << anzi, ho perso parecchio sonno
ieri, per quel fatto che ti ho detto. Se non ti spiace vado a dormire, ok? >> rispose annoiato,
alzando gli occhi al soffitto.
Adesso sarebbe
partita con la ramanzina a raffica, ne era sicuro. A
sua madre non piaceva essere ignorata, maledetto lui che rispondeva senza
pensare.
Tuttavia,
dall’altra parte arrivò solamente silenzio.
<< …mamma?
>> chiese dunque lui, per sincerarsi che stesse ancora parlando con
qualcuno e non con se stesso.
<< Kiba… hai fatto degli incubi ultimamente? >>
chiese poi lei, il tono serio e lento come se, tutto d’un
tratto, parlassero di cose serie. << E’ per questo che non dormi? >> aggiunse poi,
sempre con la stessa intonazione.
Il suo cuore perse
un battito.
Come faceva a
saperlo? Anzi, lo sapeva veramente di quei suoi sogni strani (oddio, lo stava
ammettendo…!) oppure vi era qualche altro motivo per quella domanda?
A
tutti i bambini capita
di fare degli incubi da piccoli, e lui ammetteva che ci aveva perso il sonno
molte volte, però… adesso era… perché lo stava chiedendo?
<< M-Ma no, ti pare? >> tentò poi di simulare,
sorridendo in maniera talmente colpevole che, se sua madre fosse stata davanti
a lui, gli avrebbe letto in faccia la parola “falso”
scritta in lettere cubitali.
<< …sei sicuro? >> rispose lei.
Sicuro?! No, santo nettare benedetto, no!
Ma cosa doveva dirle? “Mamma ho sognato che
si suicidava una ragazza e, la notte dopo, è successo
davvero”?!
Era da ricovero! E sua madre non ci avrebbe pensato due volte a prenderlo per
il colletto e mandarlo in clinica, o da qualche strizza-cervelli che seguiva
alla lettera la teoria psicanalitica freudiana! Lo aveva spedito lì, no? Quella
era una prova tangibile del potenziale di sua madre!
Doveva
dissimulare la cosa, doveva nasconderla. Non ci credeva nemmeno lui, santo
cielo!
<< Sicuro, mamma. Ho solo perso tempo dietro al computer che abbiamo in dotazione in ogni camera, per quello non ho
dormito >> rispose. Beh, mezza verità è sempre meglio di una bugia.
La donna sembrò
riflettere su quelle parole ma, come previsto, il lato di
madre prese il sopravvento: << Quante
volte ti ho detto di staccarti da quel coso? Devi dormire,
altrimenti in tuo cervello va in pappa! >> rispose risentita.
Scampato pericolo…
o solamente rinviato a data da destinarsi?
<< Lo so
mamma, prometto che starò più attento all’ora la
prossima volta >> rispose come sempre, mentendo come sempre. Era
finalmente fuori dal raggio di pericolo di sua madre,
poteva stare al computer anche fino all’alba e figuriamoci se non lo faceva!
<< Va bene. Ora vai a
dormire, domani hai lezione >> disse lei, salutandolo
duramente ma, in fondo, con un briciolo di gentilezza.
Ma dai, anche le iene avevano un istinto
materno?
<<
Buonanotte >> la salutò lui, chiudendo la telefonata e abbandonandosi con
il capo sulla porta, gli occhi chiusi.
Gli aveva fatto
prendere un mezzo infarto.
Sbadigliò sonoramente,
mantenendo però gli occhi chiusi.
Dannazione,
avrebbe dormito anche lì dov’era, abbracciato alla porta.
Ora che ci
pensava, era già la terza volta che non vedeva Shikamaru a cena…
Anzi, non lo aveva
mai visto… a cena…
…
Un piccolo rumore
attirò poi la sua attenzione, facendolo sobbalzare appena con il capo.
Un rumore
metallico, acuto. Era il suono, sì, di un campanello.
Unito ad una
risatina cristallina proveniente da… sì…
Da davanti a lui.
…davanti a lui?!
Aprì gli occhi di
scatto, seguendo anche con lo sguardo quel suono così penetrante da dare quasi
fastidio.
Una ragazza.
No, non “una”… la ragazza. Se ne stava lì davanti a
lui, fluttuando nell’aria e sorridendo maliziosamente, con la sua vestaglia
bianca, i capelli biondi raccolti in una treccia e i polsi di color scarlatto.
E rideva. Rideva con lo stesso tono del
suono dei campanelli di cristallo.
<< Come…
come hai fatto a… ? >> cercò di chiedere,
bloccato contro la porta più per la sorpresa che per altro. Quella ragazzina sembrava uno spettro… doveva essere un… per forza, un sogno!
Ma, a dire vero, sembrava dannatamente reale
e sicuramente poco normale.
Lei non rispose.
Si limitò solamente ad avvicinarsi a lui, le punte dei piedi che sfioravano
appena il suolo della camera ricoperto in moquette, arrivandogli a poca
distanza dal volto; fu lì che poté distinguerli con precisione, quegli occhi
dall’iride dorata e dalla pupilla allungata e stretta. Occhi selvatici, occhi
demoniaci.
Rise
di nuovo, allungando una delle sue mani bagnate di sangue a sfiorargli la
maglia e, solleticandogli il collo con l’indice, lo inserì al suo interno.
Era gelida. La sensazione sgradevole di un pezzo di ghiaccio che scivola sulla
pelle. Gli provocava dei brividi che non sapeva se definire di freddo,
di terrore o magari di entrambi.
Poi lei,
sorridendo ancora con quell’espressione di maliziosa follia, afferrò fra
pollice ed indice il crocifisso in argento che si era
persino dimenticato di stare ancora indossando, estraendolo dall’interno della
maglietta lentamente e lasciandolo poi ricadere sul suo petto, al sicuro sul
cotone color cielo.
Poi, parlò. Con
quella voce melodiosa che aveva sentito solamente la notte prima, nel sogno in
cui lui e lei erano la stessa, indissolubile persona.
<< Oggetto
particolare per essere portato con così tanta naturalezza… >> disse,
muovendo appena le labbra perfette nel pronunciare tali parole. Poi lo guardò,
prima attentamente, poi sorridendo compiaciuta. << Ma
tu non sai nemmeno chi sei… >> aggiunse, risollevandosi dalla posizione
semi-piegata, ritornando eretta.
Che cosa aveva appena… detto?
<< Che cos…
>> ma non fece in tempo a pronunciare la domanda che, con una risatina
cristallina, la ragazzina lo superò e trapassò la porta, sparendo oltre essa come se il legno scuro non fosse mai stato sul
suo cammino.
<< Ehi,
aspetta! >> gridò Kiba, alzandosi velocemente e partendo
all’inseguimento.
Aprì la porta con forza ma, al posto di
vedersi comparire il corridoio dei dormitori, si ritrovò in un viale alberato.
Sotto ai suoi piedi correva una stradina sterrata con
ai lati piante di mughetto e, arrampicate sui sottili tronchi dei pioppi, filamenti
rampicanti facevano sbocciare bianche campanule dalle sfumature rosa e azzurre.
Oltre agli alberi, solo campagna.
Si guardò attorno febbrilmente, alla ricerca
anche di un solo suono, di una minuscola parola, di un ronzio d’ape.
Ma, oltre al vento che spirava
fra le fronde dei pioppi, non si sentiva nulla.
Poi, una risata cristallina proveniente
dalla sua sinistra.
E, da lontano, la figura
bianca, dorata e scarlatta della ragazzina che, saltellando come se danzasse
sull’acqua, procedeva velocemente lungo la strada, voltandosi di tanto in tanto
per osservarlo.
Per invitarlo a seguirla.
Cosa che, per Dio, avrebbe fatto.
Dovevano esserci scritte due parole sulla
sua tomba, quando sarebbe stata la sua ora. “E se”.
E se avesse detto “fanculo alla ragazzina”?
E se avesse deciso di
svegliarsi e farla finita lì?
…ormai era troppo tardi per perdersi nei
“se” e nei “ma”.
Veramente troppo, troppo tardi.
“Alea iacta est” (*4) da
quel preciso istante.
Corse.
E, ridendo, la ragazzina
ricominciò a saltellare senza fatica lungo la strada, molti metri avanti a lui
ma sempre visibile.
Lei sapeva qualcosa, lei
aveva capito qualcosa.
Magari lei aveva il potere di mettere fine
a quegli incubi maledetti che lo facevano svegliare immerso nel terrore e in un
bagno di sudore ogni notte.
<< FERMATI! >> gridò,
stringendo i denti e aumentando la velocità per quello che le
sua gambe gli consentivano.
Ma la ragazzina rise con più
gusto e, lanciandogli solamente un’occhiata sbieca, aumentò la velocità.
Poi, improvvisamente, con un saltello un
po’ più calibrato volò sulla sinistra, imboccando quella che doveva essere una capezzania sterrata lungo un campo di granturco.
Una volta rallentato a
sufficienza per non rischiare di stamparsi sul tronco di un pioppo, voltò a sua
volta.
E la campagna sparì,
sostituita da mura calde e baciate dal sole, dipinte di bianco ed intervallate
da porte scorrevoli in legno chiaro.
Conosceva quel posto e, soprattutto, il suo
profumo di mughetti e calendule. Segnavano, ogni anno, la fine dell’anno
scolastico e lui, che aveva un olfatto per alcuni versi superiore agli altri,
poteva sperare nelle imminenti vacanze estive.
Quello era il corridoio del primo piano
della sua vecchia scuola e, là in fondo, a livello dell’ultima classe, la
ragazzina aspettava, le mani dietro la schiena, lo osservava, invitandolo con
lo sguardo a seguirla.
Invito che non venne
rifiutato.
Ormai parlare era inutile, doveva solamente
prenderla e costringerla a dirgli quello che sapeva. Era stanco di essere
sondato da loro come se fosse un fenomeno da baraccone, era veramente stanco!
Era un umano, diamine! Cosa
c’era di così interessante in un comunissimo umano?!
<< Ma che domanda stupida! >>
disse poi quella, facendo espandere la sua voce musicale per tutto il
corridoio.
Kiba boccheggiò, osservandola stranito. Lo
aveva sentito? Aveva sentito quello che pensava?
<< Certo,
altrimenti non ti avrei risposto, no? >> aggiunse lei, ridacchiando allegra, come se si stesse divertendo.
E, saltando appena di lato,
passò oltre la finestra, planando nel cortile della scuola, in mezzo ad alberi
di ciliegio ormai sfioriti e dalle fronde verdi di vita.
Scattò in avanti, affacciandosi al
davanzale per vederla esattamente in mezzo al cortile, probabilmente
aspettandolo, mentre lo osservava ridacchiando con quella sua voce da
Campanellino Trilly.
A mali estremi, estremi rimedi.
Fece tre passi indietro, finchè con il
tallone destro non toccò il muro, poi prese la rincorsa e, chiudendo le
ginocchia al petto e le braccia davanti al viso, si lanciò contro il vetro,
infrangendolo, e lanciandosi nel vuoto.
Ma non fu la caduta che si era
immaginato. Atterrò praticamente subito, scivolando
per qualche gradino lungo quella che, adesso, era una scala. Una scala fatta di
vetro trasparente che portava, a vederlo da lontano, su un lago fatto da acqua
talmente cristallina e pura da risultare completamente
trasparente.
Senza nemmeno dirlo sulle rive di quello
specchio d’acqua crescevano i mughetti.
E, al centro del lago, ancora
lei.
Non demorse, riprendendo a correre,
scendendo i gradini anche due a due nel tentativo di non perderla di vista.
Però lei, questa volta, sembrava
rimanere ferma.
Una volta arrivato
alla fine della scala si lanciò direttamente sulla superficie acquosa, senza
nemmeno preoccuparsi del fatto che magari non potesse camminarci sopra, o della
possibilità di annegare. Tuttavia, proprio come poteva
fare quella ragazzina, anche lui poggiò il piede su quella che era una superficie
solida, camminando con lo sguardo fisso sulla bionda, che ora lo guardava con
espressione seria e decisa, tuttavia inquietante.
Si fermò a qualche metro da lei, ansimando
per la corsa. In un sogno non era normale provare fatica, ma di questo non se
ne curò minimamente.
<< Chi sei? E cosa intendevi poco fa? >> chiese, alzando la voce
in modo che potesse sentirlo chiaramente.
La ragazzina non si mosse, né parlo, né
respirò.
Kiba digrignò i denti. << RISPONDIMI!
>> sbottò poi, molto vicino a perdere la pazienza.
Lei tacque, piegando il volto in una
smorfia.
Sussurrò qualcosa che lui non sentì.
Alzò il volto, puntando quegli strani occhi
gialli sui suoi, facendogli venire alcuni brividi di paura lungo la schiena e, d’un tratto, urlò.
E, a differenza della sua
risata cristallina, il suo urlo aveva la potenza del tuono.
<< FUORI DAL MIO SOGNO! >>
Si risvegliò di
scatto, aprendo gli occhi e portandosi d’istinto le mani alle orecchie, per
proteggerle della violenza di quell’urlo.
E, senza sapere né come né per quale motivo,
si ritrovò in piedi nel bel mezzo del cortile interno.
L’aria fredda
della notte gli penetrava nelle ossa attraverso la pelle e il cotone azzurro
della maglietta, unendo ai tremiti di paura anche brividi di freddo. La luna
risplendeva nel cielo, illuminando a sufficienza l’ambiente circostante,
composto di ombre.
Come accidenti ci era arrivato nel cortile? Quando
lo aveva fatto? Era nella sua camera solamente poco prima, gli aveva anche
telefonato sua madre, aveva parlato con lei, non se lo era sognato!
Qual’era?
Qual’era il sogno e quale la
realtà?
Agitato, con il
respiro mozzato in gola da un’angoscia che non riusciva a tramutare in
razionalità, si guardò intorno febbrilmente, voltando ripetutamente il capo in
direzioni diverse, non sentendo nient’altro che il respiro frammentario e le
pulsazioni assordanti del suo cuore impazzito.
…e quella voce:
<< E’
inutile che ti guardi intorno, sono proprio di fronte a te >>.
Fece nuovamente
scattare il capo, facendo un barcollante passo indietro guidato dall’istinto di
sopravvivenza. Davanti a lui, come nel sogno, la ragazzina dai capelli biondi
lo osservava in tralice… ma era diversa.
I capelli erano
sciolti e le ricadevano davanti al busto, sulle spalle, in boccoli sfilati e
spettinati. La vestaglia era macchiata di sangue, probabilmente il suo, e le
mani colavano lo stesso liquido vitale da alcuni tagli sui polsi, facendolo
gocciolare a terra. Era scalza sul cemento e gli occhi, di quel colore giallo
dorato dalla pupilla allungata, lo fissavano con astio.
<< Tu,
impiccione… >> cominciò poi a parlare, avanzando di un passo al suo
indietreggiare di un ugual numero di passi. << Ho visto
il tuo sogno, ti ho visto! Se non fosse stato per
te avrei potuto togliermi la vita in pace e magari questa volta ci sarei
riuscita! >> sputò con rabbia, la voce cristallina macchiata dalla
frustrazione. << Agatha aveva fatto la scelta giusta, rapida e indolore,
invece di sperare inutilmente che le ferite non si rimarginassero più. Ma mi rifiuto di morire spiaccicata sul cemento di un
cortile! >>
Non riusciva a
parlare. Con tutte le cose che voleva chiedergli, ogni minima, singola parola
rimaneva bloccata in gola.
E, nonostante si tenesse le braccia, non si
accorgeva minimamente di stare tremando.
<< Ma dovevi arrivare tu! >> proruppe
poi la ragazza, i denti che, sotto il labbro, sembravano sempre più
appuntiti… sempre più assomigliavano a delle zanne sottili ma letali.
<<
Tu con la tua potenza spirituale ridicola, a ficcanasare nei miei pensieri. Avrei potuto
morire in pace, invece di continuare questa vita da cavia di laboratorio… SEI
SOLAMENTE UN IMPICCIO! >> urlò e, come nel sogno, quella voce ebbe la
violenza di un tuono.
Nuovamente si
tappò le orecchie con le mani, gemendo di dolore. Quei suoni erano troppo
forti.
Chiuse gli occhi
solamente per un minuto ma, quando li riaprì, la cosa che si ritrovò davanti gli fece
tremare anche le gambe.
La ragazzina, il
volto completamente teso in una smorfia mostruosa ed animalesca, conservava di umano solamente la forma del corpo. I denti si erano
tramutati in vere e proprie zanne, gli occhi fissi su di lui non chiedevano
altro che ucciderlo, l’aspetto animalesco di quel volto solcato da segni
profondi sulla pelle… e, intorno a lei, una specie di energia
che avrebbe potuto definire un aura, o del chakra, stava pian piano
conferendole una forma diversa, una forma animale: orecchie rotonde ma piccole
e, dietro la schiena, ondeggianti nella notte si formarono sei code dal colore
giallo intenso che, sbattendo l’una contro l’altra, provocavano scoppi come
tuoni e facevano comparire scariche elettriche allo stesso voltaggio dei
fulmini.
Kiba aveva
combattuto contro molte cose, in vita sua.
Aveva
affrontato, per ordine del suo clan, veri e propri branchi di cani randagi,
inselvatichiti fino a divenire scaltri e temerari lottatori per la sopravvivenza.
Aveva affrontato
le zanne dei lupi, fronteggiandoli con freddezza.
Aveva tenuto testa
alle gang di teppisti che gironzolavano dalle parti della sua scuola, tornando a casa pesto e pieno di lividi, ma pur sempre vincitore e
orgoglioso di essersi battuto.
Ma non c’era paragone con tutto quello. Non
c’era paragone nell’affrontare una cosa soprannaturale che nemmeno si
conosceva.
La ragazza,
zittendosi per un secondo, aprì le mani fino a portarle con i
palmi rivolti verso l’esterno.
E, esalandola con un istinto omicida
portentoso, la sua energia spirituale divenuta persino visibile andò a raggrupparsi attorno alle dita delle mani, mentre
intorno a lei vi era un costante bagliore di scariche elettriche.
Incrociò
lentamente le mani davanti agli occhi e, in quel momento, le sue unghie
diventarono artigli
pronti a strappargli le carni.
<< Ora muori, Michael >> soffiò lei, preparandosi
all’attacco.
Kiba aveva
combattuto contro molte cose in vita sua.
Ma per la prima volta si era reso conto di
essere finito in una situazione più grande di lui.
E, in mezzo al terrore, di una sola cosa era
sicuro: lui sarebbe morto lì.
Chapter No. 2 ~ End.
*1 - “amichette chit-chat”: le amiche di
chiacchierata della maggior parte della popolazione femminile del pianeta (XD). “chit-chat” da
quello che ho potuto capire, è un dispregiativo derivato dall’inglese “chatting”, ovvero sparlare.
*2 - Edward Cullen (vampiro) e Jacob
Black (licantropo) sono due personaggi della serie “Twilight”
scritta da Stephenie Meyer.
*3 - il bento è il classico “cestino del pranzo”
giapponese. Ce ne sono di molti tipi ma solitamente lo si
prepara a casa mettendoci ciò che uno desidera. Il riso è però una componente fondamentale.
*4 - Alea iacta
est: famosa frase latina che Svetonio
attribuisce a Giulio Cesare nel suo De
Vita Caesarum. Cesare l’avrebbe pronunciata una volta superato il Rubicone
dando il via alla Prima Guerra Civile. La traduzione più comune è “il dado è tratto”.