7. Una vita per una vita
-
Sesshomaru… - fu un semplice e debole sussurro che si perse
nell’aria.
- Inuyasha mi
dispiace, ma non
possiamo più rimandare! Lo vedi anche tu quanto sta
soffrendo! Se non
permettiamo alla levatrice di intervenire subito, Rin morirà
dissanguata e
perderà il bambino!- urlò Sango, sovrastando con
la sua voce le urla
dell’amica.
- Devi dargli ancora un po’ di tempo! Lui… - si
interruppe bruscamente, quando
l’ennesimo grido gli strinse il cuore in una morsa.
- Inuyasha mi dispiace, ma non c’è più
tempo! Non possiamo fermare la natura! –
tentò di spingerlo fuori dall’abitazione.
- Inu…Inuyasha… - lo richiamò Rin
respirando affannosamente, - di’… di’ a
Sesshomaru che… ci ho provato. Digli che avrei…
che avrei voluto rivederlo,
ancora un’ultima volta e che… mi dispiace
che… - continuò non riuscendo a
trattenere un grido mezzo soffocato tra lacrime e i singhiozzi, - che
dovrà
crescere il bambino da solo. –
- Sesshomaru
io… -
- Stai zitta
Rin, smettila! – urlò
il ragazzo colpendo la parete con il pugno chiuso, causando una rottura
nella
fragile struttura di legno, - Tu non morirai! Avrai questo bambino e lo
crescerai, capito!? –
Rin gli rivolse un flebile sorriso, prima che una nuova contrazione le
bloccasse il respiro in gola.
- Facciamolo nascere, ora. – si intromise Sango, rivolgendosi
alla levatrice.
- A…Aspetta, Inuyasha! – lo richiamò
con la voce incrinata da una punta di
disperazione, - Il nome del bambino, dillo a Sesshomaru… il
nome del bambino è…
Keiichi.-
- Sono
morta…? -
- Non
dire sciocchezze, Rin. –
Ricordava
tutto in modo tremendamente confuso: l’agitazione, le parole
di paura e quelle
di incoraggiamento, il panno umido e fresco sulla fronte che le dava un
minimo
di sollievo, mentre il resto del corpo andava a fuoco, i muscoli tesi
fino allo
stremo, la gola che bruciava a causa delle urla soffocate e di quelle
liberate
con forza.
Solo una
cosa tra tutte ricordava con una assoluta ed estrema chiarezza: il
dolore. Un
dolore intenso, il più grande che avesse mai provato, che le
aveva fatto
desiderare più volte di morire, pur di non dover sopportare
oltre quella
tortura.
Delle
voci confuse la incitavano a resistere, a farsi forza, a stringere i
denti e
continuare a combattere, ma lei non voleva più sentirle. Era
stanca. Si sentiva
lacerata nel corpo come nell’anima e l’unica cosa
che l’avrebbe fatta stare
meglio, l’unica motivazione che avrebbe potuto darle la forza
sufficiente a
combattere, a non arrendersi, era quella che più di tutte le
faceva male e lentamente
la uccideva.
Il
pensiero del suo bambino - del suo piccolo, adorabile, dolce bambino -
la
straziava nel profondo, come la punta di un freccia acuminata premuta e
rigirata con forza su una ferita ancora aperta, che non aveva
possibilità di
guarire, ma solo di sanguinare e sanguinare ancora.
Il dolore
che provava al cuore era in grado di annullare il resto del mondo
circostante e
lei piangeva e singhiozzava, ansimando pesantemente, cercando di
recuperare
quanta più aria possibile tra un respiro e
l’altro; ma l’aria non bastava. Non
bastava mai.
I polmoni
si svuotavano troppo velocemente e il torace si richiudeva su se
stesso,
stritolandosi in una morsa ferrea. Forse aveva un attacco di panico,
forse il
suo cuore era sul punto di fermarsi per sempre. Non lo sapeva. Sentiva
solo il
dolore.
E allora aveva spinto e aveva urlato, pianto e poi spinto un’altra volta ancora, per l’ultima volta.
Le
palpebre degli occhi si erano abbassate lentamente fino a serrarsi del
tutto,
inondando la mente di oscurità. La coscienza era scivolata
via, lontana dal
presente, lontana dal corpo, verso un mondo privo di dolore, dove aveva
sperato
con tutto il cuore di potersi un giorno ricongiungere con i due grandi
amori
della sua vita.
- Sei
arrivato in tempo. – pensò ad alta voce e in
quella frase non vi era il minimo
accenno di sorpresa, ma solo una grande indescrivibile gioia. Gioia per
aver
rivisto il volto dell’uomo che amava, per aver risentito la
sua voce ancora una
volta, gioia per essere ancora viva e per quella possibilità
che sognava da
mesi e che si era vista scivolare via dalle mani troppo presto.
- E il
bambino? Sta bene? Dov’è? – si
agitò guardandosi intorno freneticamente, ignorando
ogni singolo muscolo del suo corpo, che pulsava dolorosamente.
Sesshomaru
si sporse appena verso l’ingresso di un’altra
stanza, celando il sollievo che
il risveglio della ragazza aveva portato sul suo cuore, come un vento
tiepido
che soffiando dolcemente era riuscito a far spostare quel peso che da
mesi lo
opprimeva.
Sango si
avvicinò senza dire una parola, con il sorriso sulle labbra
e gli occhi lucidi
per l’emozione. Tra le braccia stringeva un piccolo fagotto,
avvolto da una
calda coperta rossa.
-
Congratulazioni Rin. – le sussurrò lasciando
scivolare il piccolo fra le
braccia della madre, mentre una lacrima di commozione le solcava la
guancia, -
Puoi stare tranquilla, lui sta benissimo. –
continuò scostando una ciocca
ribelle dal volto del neonato, in una carezza appena accenta, per poi
uscire e
lasciarli soli.
Rin
guardò il suo bambino e istantaneamente il resto del mondo
scomparve.
Ogni
notte aveva sognato il suo viso, immaginandolo in ogni singolo tratto,
fin nel
più piccolo dettaglio, non arrivando mai a concepire
pienamente la bellezza e
la perfezione che contemplava ora con i suoi stessi occhi. E
così continuava a
guardarlo, ad incantarsi e a perdersi completamente in ogni suo
respiro. Le sue
guance rosee e paffute, i tratti tondi e gentili, le labbra piene e
leggermente
dischiuse che tanto ricordavano le sue. I capelli corti ma folti,
uguali a
quelli del padre, che lasciavano scoperto sulla fronte uno spicchio di
luna. E
sulla testa, due piccole orecchie canine, che fremevano velocissime,
come se
cercassero di sentire tutti i suoni del mondo nel quale era appena
entrato, in
perfetta sincronia con il movimento delle minuscole manine che si
chiudevano a
pugno per poi riaprirsi nuovamente, nel tentativo di afferrare tutta
l’aria
circostante.
-
Keiichi. – sentì sussurrare improvvisamente e
subito si riscosse, - È così che
volevi chiamarlo? -
- Mi
dispiace! – sussultò affrettandosi a rispondere,
spaventata che quella
decisione, totalmente arbitraria ed estremamente poco rispettosa,
potesse infastidire
Sesshomaru, - Non volevo privarti di un tuo diritto. –
procedette poi a
spiegargli il motivo di un tale e presuntuoso comportamento:
- Io
pensavo davvero di morire. Credevo che non avrei avuto neppure
l’opportunità di
vederlo, così… ecco io… volevo che
avesse qualcosa di mio, capisci? Volevo che
potesse avere un mio ricordo, per tutte le volte in cui si sarebbe
sentito
solo, per quando avrebbe sentito la mia mancanza, qualcosa che gli
ricordasse
che lo amavo, anche se non potevo essere lì con lui e che
gli facesse capire
che lui per me era la cosa più preziosa e che se avessi
potuto, sarei rimasta
con lui il più possibile. È sciocco, lo
so… - ammise poi arrossendo, sentendosi
ancora più in soggezione, a causa dello sguardo penetrante
che Sesshomaru le
stava rivolgendo.
Il demone
era rimasto a fissarla per tutto il tempo. Aveva deciso semplicemente
di farla
parlare, fino a che non avesse esaurito tutte le parole, anche se, ne
era
certo, ci sarebbe voluto molto tempo prima che le esaurisse
tutte.
Questa
volta aveva rischiato troppo. Aveva dubitato delle sue
capacità per la prima
volta in vita sua, sentendosi impotente, e l’aveva odiato.
Nonostante ciò, era
andata bene: aveva potuto rivedere il sorriso di Rin, sentire ancora
una volta
la sua dolce voce e per il momento quello era tutto ciò che
desiderava.
- Comunque
ora sto bene, grazie a te. Potrò stare con lui e vederlo
crescere e… potrò
stare… anche con te, vero? – chiese sembrando ad
un tratto impaurita e
imbarazzata.
Sesshomaru
non ne capì il motivo; semplicemente si limitò a
lanciarle un’occhiata confusa,
seguita immediatamente da una di rimprovero. Rin gli fece uno dei suoi
sorrisi
più belli, riacquistando sicurezza e riprendendo poi a
cullare dolcemente il
piccolo.
- Vorrei
che fossi tu a scegliere il suo nome. -
Sesshomaru
rimase impassibile per un tempo che sembrò
un’eternità, intento ad osservare la
scena praticamente perfetta che si svolgeva davanti ai suoi occhi,
percependo
quell’incredibile emozione d’amore, come se potesse
toccarla con mano, tanto
era forte e intensa.
Tra i due
calò un silenzio quasi sacro, che neppure il neonato
osò infrangere, pensando
bene di continuare a dormire placidamente e Rin aspettò con
estrema pazienza, perdendosi
ancora una volta nella contemplazione dei dolcissimi tratti del suo
bambino.
-
Keiichi. – disse infine il demone, cogliendo di sorpresa la
ragazza, che lo
guardò confusa senza capire, - Keiichi va bene. -
Non ne
avrebbe mai scelto un altro. Non gli importava che fosse stata una
femmina e
per di più umana a scegliere il nome di suo figlio; non gli
importava, perché
quel nome l’aveva scelto Rin.
Quelli
furono forse per tutti gli anni più felici. Ogni cattivo
pensiero, preoccupazione
o presagio che qualcosa potesse rovinare quella pace così
desiderata e amata
erano semplicemente sfumati via. Tutto si era nuovamente stabilizzato.
Non
esistevano più impegni o pericoli, solo amore e famiglia. E
risate, tante
risate. Perché era bello svegliarsi la mattina con la
consapevolezza di essere
amati e necessari, di avere qualcuno accanto su cui poter sempre
contare,
nonostante le difficoltà.
Quell’incubo
appena finito aveva, chissà come, rinsaldato ancora di
più quei legami che si
erano creati anni prima quasi per caso.
Erano
persone diverse, con differenti esperienze alle spalle e un modo
diverso di
vedere e vivere la vita, ma si erano trovate unite prima da un
obiettivo
comune, poi dal dolore e infine c’era stata solo la gioia.
Erano ancora insieme
e si consideravano una famiglia, perché non potevano farne a
meno, perché ai
loro occhi quella era l’unica verità
possibile.
Così Rin
non si sorprese quando, parlando con Sesshomaru del loro prossimo
futuro, dopo
aver espresso il desiderio di rimanere al villaggio con quella che
ormai
considerava parte della sua famiglia, non solo vide il demone accettare
senza
fare domande o obiezioni, ma lo sentì affermare che anche
lui sarebbe rimasto.
Non avrebbe ricominciato a viaggiare, non si sarebbe più
allontanato da lei, da
loro, si sarebbe impegnato per vivere quella pace fino in fondo, senza
perdere
neppure un secondo.
Fu
così
che rimasero in quella casa che aveva ospitato e protetto Rin durante
quei mesi
di malattia. Lontano dal villaggio e dagli occhi della gente, quanto
bastava
per permettere loro di costruirsi il proprio mondo, ma abbastanza
vicino per
poter restare con quella strana, numerosa e variegata famiglia, la cui
presenza
Sesshomaru riusciva ormai a tollerare senza troppi problemi, fino a
trovarla a
tratti stranamente gradevole.
“Anche
Inuyasha, dopotutto”, si ritrovò a pensare, quando
lo vide guardare suo figlio
per la prima volta. La stessa quantità di meraviglia e paura
impressa
chiaramente sul volto, gli occhi sgranati e le mani tremanti alla vista
di quel
piccolo miracolo.
-
Keiichi, guarda, lui è lo zio Inuyasha. – aveva
detto Rin sorridendo
dolcemente, salvo poi scoppiare a ridere a causa delle reazioni
scatenate da
quelle semplici parole, provocando così il turbamento del
neonato, irritato da
quel tremore che l’aveva scosso dal suo sonno profondo.
Non le
erano sfuggiti infatti il ringhio soffocato di Sesshomaru che si era
voltato
stizzito, né il disgusto sul volto di Inuyasha, che dopo
aver lanciato
un’occhiataccia al fratellastro, era tornato a guardare
quello che, suo
malgrado, era suo nipote a tutti gli effetti. Ma a Rin non era sfuggita
neppure
la verità, quella che quei due, troppo testardi ed
orgogliosi, non avrebbero
mai ammesso, ma che ormai era fin troppo palese: entrambi avevano
reciprocamente accettato il ruolo e la presenza dell’altro
nella propria vita. E
forse non avrebbero mai smesso di mantenere quella parvenza di
irritazione ogniqualvolta
si fossero trovati vicini o uno dei due avesse aperto bocca, ma
sapevano
entrambi che quel piccolo bambino li avrebbe uniti ancora di
più, portandoli ad
essere fratelli come mai lo erano stati prima.
Così
i
giorni passarono ad una velocità vertiginosa, immersi in
un’atmosfera di
tranquillità quasi surreale, scanditi dai cambiamenti di un
piccolo Keiichi che
cresceva a vista d’occhio.
Sembrò
infatti che fossero trascorsi pochi secondi appena dal giorno della sua
nascita
ai giorni in cui il bambino aveva iniziato a dispensare sorrisi a tutto
il
mondo, contagiando chiunque avesse intorno con quella risata
così limpida e
dolce.
E
all’inizio, avevano dovuto ammetterlo, ne erano rimasti tutti
profondamente
stupiti. Vedere quell’espressione, così ricca di
gioia sul quel viso dai tratti
così simili a quelli paterni, avrebbe probabilmente preso in
contropiede
chiunque.
Sesshomaru era sempre impassibile, eccetto poche e rare occasioni in
cui si era lasciato scappare qualche emozione di troppo; Inuyasha era
permaloso, testardo e arrogante, sempre con quel cipiglio imbronciato o
contrariato. Certo, lui sorrideva un po’ più
spesso rispetto al fratellastro,
ma non si poteva certo dire che fosse un esempio di
cordialità. Infine anche la
misteriosa figura di Inu no Taisho non lasciava certo immaginare un
padre
amorevole che si prendeva cura dei figli con tenerezze e premure varie.
Partendo
da questi presupposti, il pensiero che determinati comportamenti
fossero
un’eredità di famiglia era sorto spontaneo e Rin
si era rivelata anche
piuttosto spaventata all’idea di dover fare i conti con un
impegno del genere.
Keiichi invece
sorprendentemente aveva infranto del tutto quella strana tradizione.
Lui
rideva. Rideva sempre. Quando stava a casa, quando lo portavano in
giro, quando
mangiava, quando lo prendevano in braccio. Rideva indistintamente con
tutti, che
fossero familiari o estranei, sia che gli dessero attenzioni, sia che
lo
lasciassero un po’ in disparte. Riusciva ad attirare
l’attenzione di tutti su
di sé e soprattutto riusciva a farsi adorare da ogni persona
che lo vedesse
anche solo per pochi istanti.
A Sango
venne naturale constatare quanto Rin fosse stata fortunata a non
essersi dovuta
sorbire tutti quei pianti disperati, che invece erano toccati a lei con
i suoi
tre figli. Keiichi era un bambino a dir poco adorabile, a detta di
tutti. E
questo semplice dato di fatto li aveva spinti a riconsiderare le loro
precedenti convinzioni: se Inuyasha, Sesshomaru e Inu no Taisho erano
accumunati dallo stesso intrattabile e severo carattere, non voleva
certo dire
che fosse sempre stato così. Magari erano cambiati una volta
diventati adulti…
A questo
punto il pensiero di un Sesshomaru e di un Inuyasha bambini, che
ridevano
sguaiatamente, aveva invaso le loro menti, decretando
l’inizio di un’ilarità
generale che era andata avanti per giorni e giorni. Non potevano
guardare in
faccia l’uno o l’altro senza rischiare di
strozzarsi nel tentativo di celare le
risate. Inutile dire che nessuno dei due reagì pacificamente
a quei
pettegolezzi, che rischiavano di minare la loro apparenza di grandi
demoni. Così,
per mettere fine a quell’atmosfera di scherno, che ormai lo
seguiva come
un’ombra, Inuyasha stabilì semplicemente che
Keiichi era tanto adorabile solo
perché – e grazie al cielo!, aveva aggiunto
– non aveva ripreso niente da
Sesshomaru. In cambio si era guadagnato un’occhiataccia
pregna di disprezzo e
una chiara minaccia di morte, ma per lo meno era riuscito a chiudere
definitivamente la questione.
Furono
sufficienti
appena pochi mesi di tempo però, affinché
Inuyasha cambiasse completamente
opinione, trovandosi costretto a ritrattare ogni singola considerazione
o
pensiero che avesse precedentemente formulato.
Aveva
definito o anche solo pensato che Keiichi fosse adorabile? Un bravo
bambino,
buono con tutti? Bene, non esisteva niente di più errato.
La nuova
consapevolezza era semplice e concisa: Keiichi era un mostro. Non un
mostro
come quelli che si sentivano nei racconti che gli anziani del villaggio
utilizzavano
per spaventare o educare i bambini, e neppure un mostro in senso
dispregiativo
come erano spesso definiti i demoni o quelli affini alla loro specie.
No,
Keiichi era un mostro vero.
Dopo aver
da poco imparato a gattonare, se ne andava in giro per tutto il
villaggio,
spargendo sorrisi mezzi sdentati a tutti e gridolini di gioia,
incantando
persone di ogni sesso o età, con quei suoi grandi occhi
così luminosi che
brillavano di luce propria.
Tutti,
nessuno escluso, perdevano completamente la testa, arrivando persino ad
affermare che fosse il bambino più bello che avessero mai
visto in vita loro.
Tutti cadevano sotto il suo malvagio sortilegio, tutti tranne lui.
Inuyasha non
si lasciava certo ingannare da quel faccino, da quegli occhioni o da
quei
sorrisi. Lui era l’unico che riusciva a vedere la
verità attraverso tutto ciò e
quello che vedeva con estrema chiarezza era che suo nipote era
l’incarnazione
del male.
I tratti
così dolci e quei particolari che riuscivano ad incantare
con un solo sguardo
non erano altro che una trappola: attirava le sue prede con mille e
più moine,
sfoderando le sue armi migliori, e quando l’avversario
abbassava la guardia,
completamente ipnotizzato, il moccioso attaccava senza lasciare scampo.
Solo lui
era immune ai suoi assurdi poteri e Keiichi di questo si era
sicuramente accorto.
Oh, se se ne era accorto! Per questo motivo l’obiettivo
principale del bambino
era divenuto attentare ripetutamente alla sua testa. Voleva mangiarlo!
Ormai ne
era sicuro, Keiichi voleva strappargli la testa a morsi!
Perché se non poteva
farlo cadere nella sua trappola, allora non poteva permettersi di
lasciarlo in
vita.
Così
cercava in ogni modo di ucciderlo: gattonando davanti ai suoi piedi
mentre lui camminava,
cercando di farlo cadere e fargli rompere l’osso del collo;
vomitandogli
addosso una roba nauseante, che aveva il potere di stordirlo il tempo
sufficiente ad attaccare; usando quei due primissimi denti - o come li
aveva
soprannominati lui, le armi del nemico - che gli erano da poco
spuntati, per
lacerargli la carne a morsi; per non parlare poi dei numerosi tentativi
di
cavargli gli occhi o strappargli tutti i capelli, con quelle manine fin
troppo
agili che si muovevano inarrestabili, tanto da farlo apparire quasi un
polpo.
Tentacoli! Veri e proprio tentacoli, altro che tenere e dolci manine!
Come se
non fosse sufficiente, Keiichi era anche straordinariamente
intelligente. Aveva
infatti compreso quasi subito che per quanto i suoi tentativi fossero
ingegnosi
e ben studiati, non sarebbero mai riusciti a provocare seri danni.
Così il
moccioso aveva elaborato una strategia a lungo andare infallibile e
altamente
distruttiva. Provocava Inuyasha fino a portarlo alla stremo delle forze
e
quando a quest’ultimo iniziava a fumare il cervello dalla
rabbia, la pazienza ormai
totalmente esaurita, nel momento stesso in cui stava per esplodere e
sgridarlo,
ecco spuntare Sesshomaru. A quel punto era in trappola e Keiichi lo
sapeva
benissimo, perché ghignava spudoratamente al suo indirizzo.
Inuyasha
non poteva rimproverarlo, né spiegare la situazione,
né fare alcunché, perché
Sesshomaru si limitava a fissarlo con quell’occhiata di puro
odio e rimprovero,
che aveva da tempo imparato ad interpretare con uno “sta’ zitto o ti uccido”.
Non si aspettava certo che il fratello
prendesse le sue difese, né tantomeno che fosse disposto ad
ascoltarlo, ma non
era certo lui il genio del male lì dentro!
Poi il
fratello se ne andava stizzito per essere stato interrotto in qualsiasi
cosa
stesse facendo e la lenta e inesorabile tortura di Keiichi ricominciava
dall’inizio: prima o poi sarebbe sicuramente riuscito ad
aizzare Sesshomaru
contro di lui, era solo questione di tempo.
-
Maledetto moccioso questa me la paghi… –
brontolò a mezza bocca, cercando di
incenerire con gli occhi quel demone assetato del suo sangue che aveva
per
nipote, mentre lo vedeva gattonare tranquillamente ai suoi piedi.
-
Inuyasha, ma devi metterti a discutere con un bambino? Non ti sembra di
essere
cresciuto ormai? - lo riprese Rin, finendo di sistemare i panni che
avevano
appena finito di asciugarsi alla luce del sole.
- Certo
vero?! Tuo figlio è l’incarnazione del male e le
occhiatacce me le becco io! –
protestò il demone di fronte alle continue ingiustizie di
cui era vittima negli
ultimi tempi.
-
Inuyasha, andiamo, è solo un bambino! – lo prese
in braccio coccolandolo, - Non
starai esagerando? –
- Un
bambino?! No Rin, guardalo, guardalo! Lo vedi? – lo
indicò avvicinando un
artiglio, che fu subito stretto tra le mani di Keiichi, contento di
avere un
nuovo gioco da stritolare e rompere.
-
Sì, sta
ridendo. E allora? – chiese Rin divertita, non capendo dove
volesse arrivare
con quello strano discorso.
- Piantala
moccioso! – lo rimproverò, iniziando ad avvertire
l’unghia piegarsi
pericolosamente, sotto la presa di quelle mani piccole, ma
già fin troppo
violente, - Quello non è un sorriso, Rin, è un
ghigno! Tuo figlio sta
ghignando, in modo malefico, mentre mi guarda! E intanto progetta un
piano per
farmi fuori. –
Rin
guardò alternativamente i due, chiedendosi se non fosse il
caso di chiedere
consiglio a Sango riguardo gli strani comportamenti che Inuyasha aveva
iniziato
a mostrare negli ultimi giorni: i demoni erano in grado di impazzire?
Il suo
bambino sorrideva felice e non c’era niente di malvagio o
sinistro nel suo
dolce e tenero viso, che guardava il mondo circostante con incredibile
curiosità e voglia di toccare ogni cosa che lo circondasse.
-
Keiichi, ma che ti dice lo zio Inuyasha, eh? – lo
cullò piano facendolo ridere
di gusto, - Facciamo vedere allo zio brontolone che bravo bambino che
sei? Ti
va? – continuò poi, mettendo il piccolo tra le
braccia di Inuyasha e
lasciandolo prima che lui avesse modo di protestare per
quell’invasione non
prevista.
- Ecco
fatto! Lo vedi? Non è adorabile? È solo un
bambino, non vuole farti alcun male.
– spiegò poi con voce materna, come se stesse
parlando ad un altro figlio,
costretta a spiegare la cosa più ovvia del mondo.
Keiichi
intanto continuava a sorridere, affascinato da quelle lunghe ciocche di
capelli
che incorniciavano il viso di Inuyasha e arrivavano
all’altezza delle spalle. Doveva
assolutamente afferrarle. Era sicuramente questo che pensava mentre
alzava il
braccio, aprendo e chiudendo la mano, con espressione imbronciata a
causa di
quel compito che si stava rivelando più difficile del
previsto.
Ad un
tratto una voce dall’esterno chiamò Rin, che si
vide costretta ad allontanarsi,
lasciando soli i due, non prima di aver detto loro che sarebbe tornata
in
pochissimi minuti.
Inuyasha
lasciò
che un’espressione afflitta gli contraesse il volto, tornando
poi a rivolgere
tutta la sua attenzione al nemico, sussultando quando gli vide negli
occhi
quella stessa espressione, tutta di Sesshomaru, quando in combattimento
decideva che era arrivato il momento di uccidere una volta per tutte
l’avversario.
Non fece
in tempo a fare nulla che subito Keiichi riuscì ad afferrare
una ciocca. La strinse
con tutte le forze che aveva e la tirò a sé,
costringendo Inuyasha a gemere di
dolore e ad abbassare la testa, per non rischiare di vedersi strappati
tutti i
capelli.
Poi
accadde tutto in un attimo.
Facendo leva su quell’unica ciocca, Keiichi riuscì
a sgusciare dalla presa dello zio, arrampicandosi sui suoi capelli,
andando a
posizionarsi, in appena un paio di secondi, sulla sua testa.
Ed eccolo,
il suo obiettivo.
Spalancò
la bocca avvicinandosi sempre di più, pregustando il momento
tanto atteso.
- Staccati!
Staccati subito moccioso! – urlò Inuyasha,
cercando di afferrarlo e tirarlo
via, ma più tirava, più Keiichi serrava la presa
intorno al suo orecchio,
mordendo ferocemente.
- Che
succede? – rientrò Rin preoccupata, attirata dalle
urla.
- Toglimelo
di dosso! –
- Inuyasha!
Smettila di agitarlo così! Poi non riuscirò mai a
farlo addormentare! -
- Agitarlo?!
Agitarlo?! Lui vuole staccarmi le orecchie a morsi e sono io che lo
agito?! –
Rin
sbuffò, ignorando quegli inutili isterismi e
afferrò Keiichi, che
immediatamente si staccò per rifugiarsi felice tra le
braccia della madre.
- Sei
proprio un bambino! – lo rimproverò arrabbiata,
portando poi il figlio in
un’altra stanza.
Lo
adagiò
delicatamente sul tatami situato proprio nel centro e si sedette vicino
a lui,
accarezzandogli dolcemente le piccole orecchie, in quel semplice gesto
che
aveva capito essere il sistema più efficace per farlo
rilassare e addormentare.
- Oh, ma
guarda! – esclamò poi sorpresa e Inuyasha si
avvicinò ancora arrabbiato, ma
anche abbastanza incuriosito.
- Che
c’è
ancora? –
- Gli stanno
spuntando altri denti. – osservò indicando i
piccoli canini superiori, che fuoriuscivano
appena dalla gengiva un po’ infiammata, - Ecco
perché ti mordeva le orecchie. Ti
fanno tanto male, non è vero Kei? –
uscì poi dalla stanza alla ricerca di una qualche
erba medicinale con cui preparare un estratto che potesse lenirgli il
dolore.
Inuyasha
ancora una volta rimase faccia a faccia con il suo acerrimo nemico,
mentre
quest’ultimo gli sorrideva con l’espressione
più innocente che fosse in grado
di fare.
- Preparati
moccioso, perché quando crescerai questi affronti me li
pagherai tutti, dal
primo all’ultimo. – lo minacciò
ghignando allo sguardo confuso dell’altro,
uscendo poi dall’abitazione, deciso più che mai ad
elaborare piani di vendetta.
Una vendetta lenta, che avrebbe richiesto anni per esser preparata in
ogni
singolo dettaglio. Sarebbe stata inesorabile e crudele – oh,
se lo sarebbe
stata! – proprio come lo era stato Keiichi con lui.
Già
pregustava la sua vittoria…
***
[Anno 1615]
Fare il
padre non era affatto semplice, - non che Sesshomaru avesse mai pensato
che lo
sarebbe stato o che lui sarebbe stato un buon padre, no, questo mai. -
ma non
avrebbe neppure lontanamente ipotizzato che sarebbe stato
così difficile.
Praticamente impossibile, per dire le cose con sincerità e
senza usare mezzi
termini. E questo per un motivo tanto semplice quanto disastroso nelle
sue
dirette conseguenze.
Suo
figlio aveva paura di lui.
Si
arrampicava sugli alberi, rischiando di cadere e spezzarsi
l’osso del collo, si
tuffava nei ruscelli, rischiando di morire annegato o di essere
trascinato via
dalla corrente, faceva i peggiori dispetti ai tanti demoni inferiori
che
vivevano nella foresta, aprendo la porta ad una miriade di pessime e
terribili
conseguenze che non voleva neppure ipotizzare. Aveva appena tre anni ed
era già
fiero, testardo e temerario come solo un demone adolescente poteva e
sapeva
essere, ma nonostante tutto era terrorizzato da lui, dal suo stesso
padre.
Non lo
aveva mai chiamato, neppure una volta. Mai un
“papà”, “padre”,
“Sesshomaru”,
“genitore che hai contribuito in qualche modo a mettermi al
mondo” o un
qualsiasi nomignolo con cui i bambini erano soliti riferirsi alla
figura
paterna. Lui mai niente. Non lo chiamava, non lo cercava, faceva
semplicemente in
modo di stargli il più distante possibile e di evitare il
suo sguardo.
Era
capitato solo una volta, quando era molto piccolo e aveva meno di un
anno: Rin
giocava con lui, facendolo ridere e intanto lo incitava a dire le sue
prime
parole.
- Lo sai
dire mamma? Mam…ma, mam… ma. -
Il
piccolo aveva risposto in un borbottio sorridente, con un
“maahaa” talmente
pieno di vocali che chiunque si sarebbe chiesto se in realtà
non stesse
semplicemente ridendo. Ci aveva provato più e più
volte, senza riuscirci mai e
finendo per storpiare sempre più quella semplice parola, ma
il fatto che la
prima consonante fosse quasi sempre quella giusta lasciava presagire
che, per
lo meno, il piccolo avesse compreso quale fosse la parola da dire e
cercasse in
tutti i modi di riprodurla.
Alla fine
Keiichi aveva detto finalmente la parola mamma dopo giorni e giorni
pieni di
tentativi.
Rin aveva
sorriso con le lacrime che le rigavano le guance e gli occhi che
brillavano e
Sesshomaru aveva sempre considerato quell’immagine uno dei
suoi ricordi più
preziosi.
Keiichi
aveva continuato a ripetere quella singola parola, quasi con orgoglio,
come se
volesse mostrare il grandissimo traguardo che aveva raggiunto, spronato
forse
dalla gioia e dal calore dell’abbraccio della madre, che lo
cullava
riempiendolo di baci.
Non
appena l’euforia del momento era passata, Rin era
immediatamente tornata
all’attacco con una nuova luce di determinazione negli occhi.
Aveva deciso che
anche Sesshomaru avrebbe dovuto provare la stessa gioia, la stessa
sensazione
di completezza.
- Ora
prova a dire “papà”. Lo sai dire?
Pa…pà. -
- Ha-ah!
–
Quella fu
la prima e ultima che Keiichi tentò di pronunciare quella
parola.
Sesshomaru
non capì mai di preciso cosa fosse successo, ma da quel
giorno iniziò a pensare
seriamente che suo figlio in realtà lo odiasse.
Ogni
volta che entrava dentro casa o semplicemente si avvicinava a Rin, il
piccolo
iniziava a piangere disperatamente, arrivando addirittura a sgolarsi.
Le prime
volte l’aveva guardato stranito da quel comportamento, ma
aveva voluto credere
alle parole di Rin che gli ripetevano che non era colpa sua, che per un
bambino
era normale.
Con il
passare del tempo però la situazione era diventata sempre
più palese e
difficile da negare: Sesshomaru
si avvicinava, Keiichi piangeva, Sesshomaru si allontanava, Keiichi
sorrideva.
Il
rapporto di causa effetto che legava le due situazioni era ormai fin
troppo
evidente per essere ignorato o scusato. Suo figlio lo odiava
profondamente e si
impegnava con tutte le sue forze per non stargli troppo vicino,
scappando a
gambe levate ogniqualvolta rimanessero soli.
Sesshomaru
non aveva la minima idea di cosa potesse aver fatto di male per farsi
detestare
in quel modo. In tutta la sua vita – complice forse il fatto
che fosse in vita
da più di cinquecento anni - si era inimicato una
quantità inaudita di gente.
Che lo odiassero per mascherare la paura o che lo odiassero in seguito
ad un
qualche torto o atteggiamento non proprio amichevole, non faceva poi
questa
grande differenza.
Il punto era che lui sapeva perfettamente, per ciascuno di
loro, quale fosse la causa di tanto odio e conoscendola non poteva
certo
biasimarli, anzi riusciva a trarre un segreto piacere ogni volta che
incontrava
negli occhi di un qualsiasi avversario quel lampo di odio e cieca
furia. Era
come un affermazione di superiorità, più si
sentiva odiato più sapeva di essere
superiore. E lui lo era davvero. Per questo in tutta la sua vita aveva
mostrato
il suo disprezzo solamente in pochissimi casi particolari.
Il problema
reale si presentava però nel momento in cui quello stesso
sguardo, che aveva
sempre ricercato con soddisfazione, lo vedeva negli occhi del suo
stesso
figlio, l’ultima persona sulla quale avrebbe voluto vederlo.
Se solo ci fosse
stata una ragione valida, un motivo dietro quel comportamento
così strano,
forse avrebbe potuto fare qualcosa, anche solo capire e mettersi
l’anima in
pace; ma così non riusciva proprio a venirne a capo.
Keiichi odiava la sua presenza e il suo odio era del tutto immotivato.
Stando
così le
cose, lui che avrebbe dovuto fare? Non conosceva la risposta giusta. A
dirla
tutta, non sapeva neppure se ci fosse una risposta giusta,
così semplicemente
lo lasciò fare, cercando di non stargli troppo vicino,
lasciandogli i suoi
spazi, cercando di ignorare il fatto che preferisse passare il suo
tempo con
chiunque piuttosto che stare anche solo pochi secondi con lui.
Rimaneva
a guardarlo da lontano, seguendolo e controllandolo in segreto, mentre
lo
vedeva ridere con Rin, seguire Inuyasha nella foresta e offrirsi di
aiutarlo,
giocare insieme ai figli di Sango e Miroku e atteggiarsi a fratello
maggiore
con il loro quarto ed ultimo figlio, Daisuke, di appena un anno
più piccolo.
Lo
vedeva circondato da una vera famiglia, da persone che lo amavano
profondamente
e pensava che dopotutto andava bene anche così, anche se lui
non era compreso.
Se Keiichi
era felice, andava bene.
Un giorno
poi lo vide uscire furtivamente di casa, guardandosi intorno alla
ricerca del
minimo movimento, sicuro che se qualcuno l’avesse visto,
niente gli avrebbe
evitato una bel rimprovero e forse una punizione. Lo vide ghignare
soddisfatto
e iniziare a correre da solo verso la foresta.
Sesshomaru
rimase per svariati secondi a guardare il profilo degli alberi che
ondeggiavano
al vento, riflettendo sul da farsi. Avrebbe benissimo potuto fermarlo
immediatamente: un semplice salto e l’avrebbe riportato a
casa senza tante
cerimonie. Sarebbe stato più facile e avrebbe potuto evitare
di avere tanti
pensieri per la testa, ma allo stesso tempo una parte di lui, intrisa
d’orgoglio,
glielo impediva fermamente. Quel bambino era un demone, figlio del
grande Sesshomaru,
principe dei demoni e nipote del generale Inu no Taisho. Nel suo sangue
c’era
la grandezza. Avrebbe dovuto lasciare che si formasse da solo, che
corresse
pericoli e imparasse a cavarsela, così come era stato per
lui a suo tempo.
Aveva
deciso che non lo avrebbe seguito, quando inconsapevolmente si
trovò a muovere un
primo passo verso la foresta; la scusa pronta, che lo stava facendo per
scrupolo, per osservare lo svolgersi degli eventi senza intervenire.
Lo vide
correre e arrampicarsi sugli alberi, cercando di saltare da un ramo
all’altro,
divertendosi poi ad inseguire gli animali della zona, terrorizzando a
morte una
famiglia di conigli che si rifugiò di corsa nelle tane, ben
attenta a non
uscirne per nessun motivo al mondo. Cercò di catturare una
farfalla, senza
ottenere dei risultati concreti e si fermò poi ad osservare
alcuni vermi che
strisciavano tranquilli sul terreno.
Sesshomaru
era quasi deciso ad andarsene. Suo figlio se la stava cavando benissimo
anche
da solo, non avrebbe avuto bisogno in ogni caso del suo aiuto e quella
perdita
di tempo lo stava profondamente annoiando. Stava per tornare sui suoi
passi,
quando improvvisamente uno strano fruscio attirò la sua
attenzione.
Affinò i
sensi cercando di capire la provenienza di quel suono, con uno strano
presentimento. Non avrebbe saputo dire se fosse stato un demone o un
animale a
provocarlo – non che facesse poi tutta questa differenza, dal
momento che per
lo più i demoni della foresta avevano sembianze di animali
– ma di una cosa era
sicuro: si stava avvicinando ed era veloce. Dannatamente veloce.
Ebbe
appena il tempo sufficiente per spostare nuovamente gli occhi su
Keiichi,
intento ad osservare qualcosa nei pressi di un albero con particolare
interesse, che subito una gigantesca folata di vento si
trasformò in un piccolo
tornado, grande abbastanza da scalfire gli alberi e sradicare
completamente i
cespugli.
Infine la
vide. Un’enorme mantide, troppo grande per non essere un
demone, di una tonalità
verde quasi brillante, le ali semitrasparenti spalancate in tutta la
loro
maestosità.
Vide quei
grandi occhi muoversi freneticamente, guardando a destra e a sinistra,
in
perfetta sincronia con le lunghe antenne sulla superficie della testa.
La vide
procedere lentamente, tastando il terreno con le zampe, producendo il
suono di
un fastidioso ronzio con le ali. Infine il demone si fermò,
immobile, in
perfetto silenzio, lo sguardo dritto davanti a sé e
Sesshomaru fu invaso da un
unico pensiero.
Keiichi.
Lo cercò, ma non era più dove l’aveva
visto l’ultima volta. Dove se ne era
andato?!
Ignorando
completamente il demone, concentrò tutti i suoi sensi sul
problema più urgente.
Doveva assolutamente trovarlo, prima che si inoltrasse troppo nella
foresta,
incontrando altri pericoli, o prima che lo trovasse la mantide.
Sorvolò
la zona circostante, sentendo quella strana emozione, che odiava
più di ogni
altra cosa, crescere nel petto sempre di più. La stessa che
aveva già provato
per Rin diversi anni prima.
Ad un
tratto lo vide. Stava correndo, più veloce che poteva,
cercando di non perdere
l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra. Si guardava
indietro spaventato,
ansimando per lo sforzo, cercando di capire se quel demone lo stesse
seguendo,
se stesse andando nella direzione giusto, se fosse ancora in pericolo.
Non si
era reso conto che mentre a pochi metri di distanza la mantide lo
inseguiva,
c’era un altro demone più avanti, né
che lui gli stava andando incontro.
Senza
attendere oltre e senza preoccuparsi troppo di quale fosse il modo
migliore di
agire, Sesshomaru estrasse Bakusaiga, facendola risplendere ai raggi
del sole.
Si scagliò con tutte le sue forze contro il secondo demone,
riuscendo a
trafiggerlo e ucciderlo con un unico attacco.
La
carcassa cadde al suolo in un tonfo e la foresta si ritrovò
immersa nel
silenzio più totale.
Era quasi
surreale tutto quel silenzio improvviso…
Sesshomaru
realizzò con un moto di paura che c’era qualcosa
che non andava: Keiichi
sarebbe dovuto essere lì con lui, ma non c’era.
L’aveva anticipato di appena pochi
secondi, come poteva essere sparito, in quel brevissimo lasso di tempo
in cui
si era distratto!?
Strinse
rabbiosamente la presa sull’elsa, imponendosi di non radere
al suolo l’intera
foresta con il rischio di ferirlo.
Al
diavolo se suo figlio lo odiava, se aveva paura di lui o
chissà che altro! Non
appena l’avesse trovato gli avrebbe fatto un rimprovero degno
di questo nome e
allora sì che avrebbe avuto una valida ragione per temerlo!
Saltò
verso l’alto per avere una visuale più completa,
cercando di raggiungere il
luogo dove l’aveva perso di vista e continuando a tenere la
mano serrata sulla
spada, più per evitare di conficcarsi gli artigli nella
carne che per una reale
necessità.
Lo vide rannicchiato
vicino un cespuglio, con la faccia rivolta verso il terreno, sporco di
terra e
fango dalla testa ai piedi, mentre tremava appena. Pensò che
doveva essersi
ferito, ma un problema più grande si presentò
alla sua attenzione: non era il
solo ad essersi accorto di lui.
La
mantide lo aveva individuato e puntava a tutta velocità su
di lui, sfruttando
l’accelerazione fornita dal continuo sbattere delle ali.
“Alzati!
Muoviti da lì!” urlò mentalmente,
mentre si precipitava verso il figlio,
sentendo l’odore fresco del sangue, mischiato a quello delle
lacrime, arrivargli
alle narici.
La
mantide era sopra di lui. La sua mente si oscurò
completamente. Lanciò la spada
con forza e afferrò Keiichi per le vesti, portandolo via.
Il demone
si dimenò furiosamente, mentre con le chele tentava di
togliere quella spada
che aveva conficcata sulla testa, proprio in mezzo ai due occhi. Fu
solo una
questione di secondi prima che si accasciasse a terra, esalando
l’ultimo
respiro.
Sesshomaru,
sentendo scemare l’orribile presentimento che aveva avuto
fino a quel momento,
si permise di tirare un sospiro di sollievo, concentrando poi tutta la
sua
attenzione sul piccolo bambino terrorizzato e singhiozzante che aveva
tra le
braccia.
Per la
prima volta in vita sua fu davvero tentato di urlare. Avrebbe
volentieri voluto
perdere la pazienza e quell’espressione impassibile che lo
caratterizzava, per
dirgli a gran voce che era stato uno stupido, che un bambino della sua
età non
poteva permettersi di allontanarsi da solo in luoghi pericolosi,
soprattutto se
il bambino in questione, pur avendo sangue demoniaco, era totalmente
inesperto
in questioni di combattimento e sopravvivenza.
Avrebbe
davvero voluto urlargli contro e rimproverarlo per averlo costretto
ancora una
volta a provare delle maledettissime emozioni umane, ma non fece
assolutamente niente.
Rimase
solo a guardarlo, sentendo il cuore riempirsi, suo malgrado, di
sollievo e
affetto per quel poppante che, anche se in sua presenza non faceva
altro che
piangere, aveva il potere di stregarlo completamente.
Fu in
quel momento che gli tornò in mente suo padre,
l’uomo del suo passato e l’uomo
che lo aveva aiutato a salvare Rin. Il binomio, che non era mai
riuscito a
risolvere, ora lo vedeva chiaramente, come un nodo che dopo tempo
immemore
aveva iniziato a districarsi. Le due immagini iniziavano a sovrapporsi.
“Io
ho solo fatto in modo di
starti accanto qualsiasi cosa avessi fatto, per aiutarti in caso ne
avessi
avuto bisogno, per fare in modo che non cadessi.”,
così gli aveva detto e lui aveva
ascoltato quelle frasi senza capirle, senza riuscire a coglierne il
vero
significato. Ora invece lo capiva, perché era ciò
che aveva fatto lui per
Keiichi, era ciò che avrebbe sempre fatto per suo figlio: il
dovere di un
padre.
Lentamente
e con delicatezza gli lasciò cadere una mano sulla testa,
dandogli un leggero
colpetto.
- Sei
ferito? – gli chiese e si stupì lui stesso di
riuscire ad imprimere quella
dolcezza nel timbro di voce.
Il
piccolo mezzo-demone lo guardò un po’ sorpreso, un
po’ spaventato, prima di
mettersi a piangere ancora più disperatamente e annuire.
Sesshomaru gli fece
scorrere piano la mano sui capelli, simulando una leggera carezza.
- Ti fa
male? – indicò poi con lo sguardo la sbucciatura
che aveva sul ginocchio, che
ancora sanguinava.
Keiichi
abbassò lo sguardo, sforzandosi di trattenere i singhiozzi e
rifletté con
serietà sulla domanda premurosa che gli era stata posta.
Realizzò
improvvisamente che in effetti non aveva alcun motivo per piangere: il
ginocchio aveva bruciato solo un po’ durante la caduta, ma il
dolore era
passato subito. Strofinandosi forte gli occhi per asciugarli
completamente
dalle lacrime, negò con convinzione e Sesshomaru si
lasciò scappare un mezzo
sorriso soddisfatto, riconoscendo per un attimo negli occhi ambrati del
figlio
quella luce di fierezza e orgoglio tipica dei più grandi
demoni.
- Bene.
–
lasciò scivolare la mano, per cercare di farlo sistemare
meglio tra le sue
braccia, - Torniamo a casa. -
Keiichi
appoggiò lievemente la testa nell’incavo del
collo, spiando con la coda
dell’occhio se al padre desse fastidio quel suo
comportamento, ma Sesshomaru
fece finta di niente, mostrandosi invece piuttosto impegnato nelle
azioni di
riprendere la spada e incamminarsi verso il villaggio.
Allora Keiichi decise
che per una volta poteva anche permettersi di dargli fiducia
– in fondo il
fatto che non si fosse arrabbiato e che non l’avesse sgridato
era un buon
segno, no?
Portò le
piccole braccia al collo del demone, stringendo forte la veste nei
piccoli pugni,
e nascose il volto contro la pelle, non riuscendo ad evitare di
sgranare gli
occhi per la sorpresa. Gli si strinse maggiormente addosso, strusciando
il naso
e lasciando che un sorriso di pura felicità illuminasse il
suo volto alla
semplice costatazione che gli riempì la testa.
Il suo
papà era caldo.
- Che
è
successo?! – gridò Rin precipitandosi fuori dalla
capanna, i lineamenti del
volto contratti dal puro terrore, - Sta bene? -
Per
quanto cercasse di mostrarsi positiva con Sesshomaru sui comportamenti
del suo
bambino, sapeva benissimo che Keiichi nutriva un forte timore nei
confronti del
genitore, timore che lo portava ad evitarlo, se possibile, come la
peste.
Sapeva
inoltre che Sesshomaru, da orgoglioso demone quale era, non avrebbe mai
preso
in braccio suo figlio di ben tre anni, in nome del fatto che il bambino
avrebbe
dovuto farsi le ossa, per non crescere debole e avere così
problemi in futuro.
Fu
esattamente per questi fondamentali motivi che la visione del demone,
che
camminava stringendo un Keiichi avvinghiato al suo collo, ebbe per un
attimo il
potere di farla letteralmente morire di paura.
- Tesoro,
stai bene? – chiese ancora accarezzando i capelli del suo
bambino.
Il
piccolo mezzo-demone annuì appena, tenendo la testa ben
nascosta nell’incavo
del collo del genitore, mentre Rin rivolgeva a Sesshomaru
l’ennesimo sguardo
preoccupato, pretendendo tacitamente delle spiegazioni.
- Lo ha
attaccato un demone nella foresta. Sta bene, non si è fatto
niente. -
- Per
fortuna. – sospirò di sollievo, ringraziando
tacitamente Sesshomaru con un
sorriso, - Kei, lo sai che non devi andare nella foresta da solo, te
l’ho detto
tante volte: è pericoloso e ai demoni che ci sono
lì non importa niente che tu
sia solo un bambino. – gli accarezzò la testa, non
riuscendo però a mostrarsi
arrabbiata di fronte al piccolo broncio, un po’ colpevole, un
po’ infastidito,
che il suo bambino aveva messo su.
-
‘Cusa
mamma, non lo faccio più. –
- Va
bene, non importa, ciò che conta ora è che tu
stia bene. Vuoi venire ad aiutare
la mamma a preparare qualcosa da mangiare per pranzo? – gli
domandò poi
preparandosi a prenderlo in braccio, ma subito il bambino strinse con
più forza
le braccia intorno al collo del padre, negando ripetutamente con la
testa.
- Non ti
va di aiutare la mamma? – chiese ancora perplessa e un
po’ dispiaciuta.
Keiichi
adorava aiutarla a cucinare, ma soprattutto Rin era abituata al fatto
che lui
la seguisse sempre. Trovava strano che improvvisamente il piccolo non
volesse
stare in sua compagnia. Guardò Sesshomaru, sperando che lui
sapesse qualcosa e
che le potesse dare una spiegazione, ma il demone era sorpreso quanto
lei. Da
quanto poteva ricordare, quella era la prima volta che Keiichi non
voleva
seguire la madre.
- Che
cosa vuoi fare allora? – gli domandò Rin,
sorridendogli incoraggiante.
Keiichi
biascicò qualcosa di incomprensibile, fondendo parole e
lasciando che il suono
si scontrasse contro l’incavo del collo di Sesshomaru,
uscendo fuori ovattato.
- Keiichi
non ti preoccupare, puoi dire tutto quello che vuoi. Anche il
papà è d’accordo,
vero Sesshomaru? – lo spronò ad incoraggiarlo a
sua volta e in un attimo il
demone si trovò un penetrante sguardo ambrato, identico al
suo, puntato nei
suoi occhi in attesa di una mossa.
Annuì
piano senza dire nulla, non sapendo quale fosse il modo giusto per
comportarsi
in una situazione come quella che stava vivendo. Keiichi parve
soddisfatto e
dopo aver abbassato lo sguardo e stretto tra i pugni la veste, raccolse
tutto
il suo coraggio.
- Voglio stare con
papà. – disse e per
Sesshomaru fu quasi come ricevere un pugno nello stomaco.
Fissò
Rin
con l’espressione più sorpresa che avesse mai
fatto in vita sua e la trovò a
sorridere emozionata, sicuro che si stesse trattenendo per non mettersi
a
saltare di gioia, mentre con gli occhi gli intimava di dire qualcosa,
una
qualsiasi cosa, purché non rimasse immobile come uno
stoccafisso. Ma lui non
era davvero in grado di dire nulla.
Teneva
tra le braccia quel bambino così simile a lui
d’aspetto, ma così diverso
caratterialmente e temeva che una sua sola parola avrebbe distrutto
quell’atmosfera di fiducia che sembrava aver conquistato a
fatica, senza saper
bene come.
- Posso?
Non ti disturbo! Starò buono e zitto, promesso! Non ti
darò fastidio… - lo
sentì chiedere pieno di speranza e l’istinto prese
il sopravvento.
- Va
bene. – rispose e si ritrovò inconsciamente ad
abbozzare un sorriso, alla vista
di quegli occhi che si riempivano di entusiasmo, diventando ancora
più grandi.
- E a te
mamma? A te va bene se oggi sto con papà? Non ti arrabbi?
Non diventi triste? –
la tartassò di domande, preoccupato di ferirla in qualche
modo, mentre
Sesshomaru veniva inondato da un intenso calore al suono di quella
semplice
parola, pronunciata solo per la seconda volta.
- No
tesoro mio, sono tanto tanto felice se stai con papà.
– si avvicinò per
posargli un lieve bacio sulla testa, facendolo ridere contento.
Keiichi
allora
si sbilanciò, portando un braccio a cingere anche il collo
della madre e
stringendo forte, costrinse entrambi ad avvicinarsi a lui, esprimendo
con
quell’abbraccio tutto l’amore che provava per loro.
Quel
giorno Sesshomaru si sentì per la prima volta un padre e
comprese chiaramente,
come non aveva mai fatto prima, cos’era a spingere Inuyasha a
compiere una
folle assurdità come aspettare una femmina per quasi mezzo
millennio. Per
vivere quell’unico momento, lui sarebbe stato disposto a fare
qualsiasi cosa.
Quel
giorno Sesshomaru agli occhi di suo figlio divenne un eroe.
***
[Anno 1624]
- Dai Kei,
muoviti! Andiamo a giocare! –
Ogni
mattina era sempre la stessa storia, ma quel giorno in particolare il
suo
migliore amico si doveva essersi svegliato con il preciso scopo di
esasperarlo,
altrimenti non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che, in appena
trenta
minuti, avesse già vagliato mille e più modi per
farlo fuori e tappargli la
bocca per sempre.
Daisuke si
era presentato a casa sua praticamente all’alba, rubandogli
la colazione da
sotto il naso, sotto lo sguardo divertito di Rin che si era gentilmente
offerta
di preparare altro cibo in più, giustificando poi quel suo
continuo approfittarsi
della loro ospitalità con la solita scusa: la sua casa era
costantemente invasa
da un esercito di minuscole calamità sbraitanti, che si
divertivano a torturarlo
e a rubargli tutto il cibo.
A dire la
verità Keiichi non se la sentiva neppure tanto di
biasimarlo: lui era figlio unico
e non poteva neppure lontanamente immaginare come fosse avere dei
fratelli.
Quando era molto piccolo ricordava di averne avuto per un po’
il desiderio, ma
adesso sentiva di essere più che soddisfatto della sua
condizione di figlio
unico. Anche perché, con l’esempio che in tutti
quegli anni gli avevano fornito
suo padre e suo zio, aveva finito col dedurre una cosa fondamentale: e
cioè che
c’era poco da stare tranquilli nell’avere un
fratello. Visti i suoi geni,
probabilmente se l’avesse avuto, quest’ultimo lo
avrebbe odiato a morte o
avrebbe tentato di ucciderlo nel sonno.
Quando si
soffermava a pensarci, Keiichi era davvero contento di essere figlio
unico.
Un
discorso completamente diverso era invece quello di Daisuke, la cui
famiglia
costituiva, praticamente da sola, la metà della popolazione
del villaggio,
tanto che appena pochi anni prima, per non rischiare
un’implosione in grande
stile, era stata costretta a trasferirsi in un’abitazione che
sembrava in tutto
e per tutto un castello.
Le due
primogenite di Sango e Miroku si erano ormai sposate da diverso tempo e
praticamente da subito avevano iniziato a fare a gara a chi delle due
sfornasse
più marmocchi urlanti – uno peggio
dell’altro, a sentire Daisuke. Non si erano
però trasferite in un altro villaggio o in
un’altra abitazione, no, avevano
anzi fatto in modo di restare il più possibile vicino alla
casa dei genitori,
facendosi regalare un’ala apposita di quella gigantesca villa.
Sango e
Miroku si erano così ritrovati a fare i nonni a tempo pieno,
con un esercito di
marmocchi, che richiedeva a gran voce le loro attenzioni e il
più totale
disappunto di Daisuke, che mal tollerava i bambini.
In
più
Daisuke era costretto a vivere con suo fratello maggiore - copia
sputata di suo
padre - che si divertiva un mondo a torturarlo, solo perché,
a ben undici anni,
non aveva ancora chiesto ad una ragazza di fare un figlio. Hiroshi era
stato un
maniaco precoce e Miroku ne era sempre stato immensamente fiero, se non
per un
piccolissimo particolare che aveva iniziato di recente ad
impensierirlo: il
figlio infatti aveva ormai ventitré anni e di sistemarsi
seriamente neppure
l’intenzione.
Per
concludere in bellezza poi i suoi genitori, sicuramente resi folli da
quella
mandria di nipotini che allietava (torturava) le loro giornate, avevano
deciso
di avere un altro bambino. E così, appena tre anni prima,
era nato Kouta. Il
bambino più insopportabile, capriccioso e impiccione che
Daisuke avesse mai
avuto la sfortuna di incontrare. A mettere a dura prova la sua
pazienza, c’era
poi il fatto che i genitori costringessero sempre lui ad occuparsene -
neanche
fosse suo figlio!
Inoltre
la nuova casa era divenuta il luogo di ritrovo di tutti quei conoscenti
o
familiari, che si erano, per vari motivi, allontanati dal villaggio, ma
che
tornavano di tanto in tanto a far visita. Così capitava
spesso che, per qualche
mese all’anno, fossero loro ospiti Kohaku con tutta la sua
famiglia al seguito
e Shippo, che di volta in volta tornava con qualche nuova conquista.
Tra una
cosa e l’altra, Daisuke finiva sempre per passare le giornate
a casa del suo
migliore amico o in giro per il villaggio, deciso più che
mai a farsi torturare
il meno possibile da quella strana e sadica famiglia in cui era
nato.
Quella
mattina in particolare poi doveva aver davvero raggiunto il limite di
sopportazione, visto con quanta forza lo stava trascinando in giro:
dopo aver
finito l’abbondante colazione infatti lo aveva preso per la
manica della veste
e se lo era portato dietro di peso per tutto il villaggio.
Quando
Keiichi aveva capito le sue intenzioni di andare in piazza a giocare
con altri
bambini, loro coetanei, aveva puntato i piedi con forza, arrivando
addirittura
a sedersi per terra, pur di non muovere un altro passo.
- Non mi
va per niente! – protestò indispettito, -
Perché dobbiamo andare da quelli?
Potevamo starcene per i fatti nostri! Anche tuo fratello voleva che
rimanessimo
con lui… potevamo anche accontentarlo per una volta.
– continuò, alludendo a
ciò di cui l’amico, solo pochi minuti, prima si
era lamentato.
-
È un
moccioso di tre anni, Kei! Piange subito appena gli dici qualcosa e poi
è
appiccicoso! È più divertente così,
fidati! –
-
Dais’ke,
dico sul serio, non mi… –
- Avanti
andiamo, ci divertiremo! – riprese a trascinarlo sicuro di
sé, non accorgendosi
dello sguardo affranto che Keiichi gli rivolse, costretto a seguirlo in
mancanza di solide argomentazione, con cui apporre il suo categorico
rifiuto.
Arrivarono
nella piazza in pochi minuti, dove una decina di bambini in tutto stava
cercando di dividersi in due gruppi, in un fragore generale di urla,
che
tentavano di sovrastarsi a vicenda.
- Ciao
ragazzi! Possiamo giocare anche noi? – esordì
Daisuke, salutandoli con la mano
e avvicinandosi al centro del gruppo.
Keiichi
rimase indietro, leggermente nascosto, con lo sguardo basso, ancorato
ai
ciottoli di pietra, presenti lungo tutto il perimetro della piazza, per
nulla
intenzionato ad attirare l’attenzione su di sé. Ma
per quanto volesse
scomparire, era fin troppo visibile, con quei capelli argentati, che si
notavano a metri e metri di distanza e quegli occhi ambrati troppo
brillanti
per non catturare gli sguardi della gente. Per non parlare poi di
quelle
orecchie…
Li vide
subito e ancor prima di vederli, lo avvertì chiaramente, il
presentimento di
ciò che stava per succedere. Non era la prima volta, ma fino
a quel momento era
sempre riuscito, bene o male, a nasconderlo, a fare in modo che nessuno
della
sua famiglia se ne accorgesse. Questa volta non sarebbe riuscito ad
evitarlo.
Quattro
bambini si staccarono dal gruppo, avvicinandosi a loro con uno sguardo
di
disgusto negli occhi e un ghigno di sfida sulle labbra.
- Certo,
vai pure dagli altri a giocare. – esordì ghignando
malignamente uno di loro,
che a occhio doveva essere il più grande del gruppo,
rivolgendosi direttamente
a Daisuke.
Keiichi lo
vide sussultare sorpreso e in un attimo si ritrovò a
guardare i suoi occhi
confusi, che chiedevano spiegazioni. Non gli rispose.
-
C’è
forse qualcosa che non va? – si azzardò allora a
domandare Daisuke,
accorgendosi improvvisamente del comportamento astioso che quei quattro
mostravano.
Non gli piaceva per niente quell’atmosfera.
- Kei,
vieni. – continuò poi, intenzionato a non prestare
loro più attenzioni, per
dirigersi insieme dal resto del gruppo, ma quello stesso bambino gli si
parò
davanti, bloccando il passaggio.
- Temo
proprio che non ci siamo capiti. –
- No,
infatti. Non vi capisco. –
- Che
c’è, sei forse stupido? – lo
schernì un altro bambino ridendo.
- Hibiki,
certo che è stupido, altrimenti perché mai
dovrebbe accompagnarsi ad un
disgustoso mezzo-demone? –
Keiichi
sussultò. Poi vide solo Daisuke stringere i pugni e
avvicinarsi ancora di più a
quei quattro.
- Prova a
ripeterlo se hai il coraggio. -
- Che
cosa? Che sei stupido o che il tuo amichetto è un disgustoso
mezzo-demone? –
Daisuke
lo afferrò per le vesti, pronto a colpirlo, ma il bambino
più grande si mise in
mezzo allontanandoli.
- Calma
calma, non è necessario scaldarsi così. Te
l’ho già detto, non abbiamo problemi
con te: tu puoi giocare tranquillamente, ma lui deve andarsene. Sai
com’è,
vorrei evitare di respirare la sua stessa aria. Anzi, lo vorremmo
tutti. Non
abbiamo bisogno che uno schifoso mezzo-demone appesti il nostro
villag… -
Lo
colpì
con tutte le sue forze. Non gli sarebbe importato niente di rompersi
una mano,
se il giorno seguente avesse avuto la possibilità di vedere
quel ragazzo girare
per il villaggio con il naso rotto e sanguinante.
Vide gli
altri tre tentare di aiutarlo, mentre questo urlava e piangeva per il
dolore.
Subito Daisuke si girò con un ghigno di trionfo verso
l’amico, ma lui non c’era
più.
Keiichi si
era allontanato il più possibile, a passo svelto, senza
voltarsi indietro
neppure una volta, ignorando la gente che incrociava sul suo cammino,
evitando
i loro sguardi, ma immaginandone i pensieri nella testa.
Si
fermò
solo quando fu fuori dal centro abitato, lì dove iniziava la
distesa di campi
coltivati, a ridosso della foresta. Si fermò e solo in quel
momento si accorse
di Daisuke, che lo aveva inseguito correndo e che ora, con i palmi
delle mani
poggiati sulle ginocchia, tentava di riprendere fiato, facendo profondi
respiri.
- Che ti
è preso, si può sapere? Scappare in quel
modo… - riuscì a dire con il cuore a
mille, guardandolo di sottecchi.
Keiichi
non rispose. Si limitò a fissare il terreno, gli occhi di un
colore più chiaro
del solito, più gelido, ridotti a due fessure, la mente
altrove.
-
Perché
non hai detto niente? Quegli idioti ti insultano e tu te ne resti in
silenzio,
senza muovere un muscolo… perché?! Non puoi farti
trattare in questo modo! -
- Non
sono affari tuoi. – sibilò, accompagnando quelle
parole con un’occhiata di puro
gelo, intenzionato da subito a non sostenere oltre quella conversazione.
Gli diede
le spalle, deciso ad allontanarsi, inconsapevole del dolore che quella
frecciata aveva provocato nell’amico.
- Che
diavolo stai dicendo?! Ti vuoi fermare?! Keiichi! – lo
afferrò per una spalla,
strattonandolo con forza e costringendolo a voltarsi per guardarlo
negli occhi,
quelli occhi così inespressivi e freddi, che sembravano
davvero due pezzi di
ghiaccio.
- Sono
affari miei, sì, razza di idiota! - lo spinse ferocemente,
rischiando quasi di
farlo cadere, - Non possono comportarsi così! Dovremmo dirlo
ai nostri
genitori, se non ti va di dirlo a tuo padre potremmo rivolgerci al mio
o a tuo
zio. Non è giusto che… -
Le parole
gli si spezzarono in gola in un gemito di dolore. Si ritrovò
con la schiena
premuta con forza contro il tronco di un albero e il respiro mozzato.
- Taci.
–
gli intimò Keiichi, tenendolo per le vesti
all’altezza del collo, - Noi non
faremo proprio un bel niente. Terrai la bocca chiusa e faremo finta che
oggi
non sia mai esistito. Sono stato chiaro? -
Daisuke
scrollò le spalle, deciso a non dargliela vinta, sostenendo
quella sfida,
guardandolo dritto negli occhi senza alcun timore, allontanandolo poi
da sé con
una spinta.
- Ma non
è giusto, non capisci?! Non possono trattarti
così! Solo perché sei un
mezzo-demone, ma che significa?! Non mi importa di quello che pensi,
non posso
restare fermo senza fare niente! Tu sei il mio migliore amico!
–
Keiichi
si riscosse a quelle parole, distogliendo immediatamente lo sguardo da
quello
furioso dell’altro, sentendo il senso di colpa crescere
dentro di lui. Daisuke d’altro
canto sospirò, cercando di recuperare la calma, per non far
precipitare
nuovamente la situazione.
-
Perché
non vuoi farlo sapere? –
-
Dais’ke,
a me non importa, va bene? Non mi importa niente. –
- Che
vuol dire che non ti importa? –
- Non sto
cercando di farmi altri amici: ho già te e mia madre, mio
padre, Inuyasha, la
tua numerosissima famiglia, per non parlare della marea di conoscenze
che vanno
e vengono periodicamente dal villaggio come niente. Ho tutto quello che
desidero e non mi serve che degli idioti come quelli mi accettino.
Perciò, per
favore, dimentica tutto. Non c’è bisogno di alzare
un polverone per una cosa
che non ha la minima importanza. –
- E tu
stai bene? Stai davvero bene così? – gli
domandò perplesso, studiando
attentamente ogni sua espressione per capire se fosse la
verità.
-
Sì. –
annuì e gli sorrise riconoscente, sicuro che
l’altro non avrebbe indagato
oltre, né sarebbe andato contro il suo volere.
Ripresero
a camminare, uno accanto all’altro, entrambi in totale
silenzio, impegnati a
fare il più possibile finta di niente, per mascherare il
leggero imbarazzo e il
senso di colpa per quell’incomprensione che avevano avuto.
Tra loro non c’erano
mai stati in passato screzi come quello, soprattutto perché
riuscivano a far
diventare ogni più piccolo battibecco un gioco e questo
grazie al fatto che
bastava una singola occhiata per capirsi alla perfezione. Per questo
motivo
Keiichi sentiva chiaramente di aver esagerato, dicendo delle cose che
non
pensava, spinto unicamente dalla rabbia. Non si sarebbe mai perdonato,
se
qualcosa avesse incrinato la sua amicizia con Daisuke.
- Non
dirai niente allora, me l’hai promesso, giusto? –
ruppe ad un tratto il
silenzio, una volta nei pressi della sua casa, sforzandosi di trovare
un modo
per riportare le cose alla normalità.
- Dire
cosa? – sorrise sghembo Daisuke, mettendo poi su una perfetta
e assolutamente
credibile aria pensierosa, - Non è successo niente, no?
–
E Keiichi
non poté fare a meno di sorridergli riconoscente, tirando un
sospiro di
sollievo.
- A
proposito,
sai che quando ti arrabbi, sei davvero uguale a tuo padre? Per un
attimo i tuoi
occhi mi sono sembrati i suoi. Avevo quasi paura che volessi uccidermi.
– lo
prese in giro Daisuke, riportando alla mente quell’immagine,
che aveva avuto il
potere di farlo rabbrividire.
- Idiota!
Ti pare che potrei ucciderti così!? Non sarebbe leale!
Magari in un
combattimento… – gli rispose con
un’alzata di spalle, ghignando appena alla
faccia indignata dell’altro.
-
Ma… ma
che razza di amico che mi ritrovo! E poi grazie tante per la
considerazione! Come
se fosse così facile sconfiggermi! –
- Ma
davvero? Che strano… eppure ricordo bene che da bambini non
resistevi cinque
minuti a combattere contro di me. Com’è che
dicevi? “Non vale Kei! Io non sono
un mezzo-demone! Non riuscirò mai a sconfiggerti!”
–
- Ti stai
inventando tutto! – arrossì per la vergogna, punto
sul vivo.
- E
quella volta che ti sei quasi spezzato l’osso del collo, dopo
esserti
arrampicato su un albero, solo perché avevi avuto la
brillante idea di cogliermi
di sorpresa? –
- Hei,
non è stata colpa mia se il ramo si è spezzato!
– protestò Daisuke
imbronciandosi.
- Tua
sorella si è incavolata talmente tanto che credevo ci
avrebbe ucciso! –
-
Già, in
quel momento somigliava proprio alla mamma. –
- Pensa,
anche lei era più forte di te! –
- Ora
basta! Me la pagherai Keiichi, questa è una promessa! Io
diventerò il più
grande sterminatore di demoni del mondo e allora vedremo se ti
prenderai ancora
gioco di me. –
- Il
più
grande sterminatore del mondo, eh? Allora io diventerò
più forte di tutti i
demoni in circolazione. Supererò tutti e a quel punto
combatteremo! –
Fare
quella semplice promessa li rese, in qualche modo, ancora
più sicuri che sarebbero
rimasti amici per sempre, che niente sarebbe mai stato in grado di
spezzare il
forte legame che li univa.
Keiichi
era figlio unico, non aveva fratelli, né li desiderava, ma
in quel momento,
pensando all’idea di un fratello, si rese conto di pensare a
Daisuke.
***
[Anno 1625]
Solo l’anno prima Keiichi aveva creduto fermamente in quelle parole che aveva pronunciato con determinazione e una punta di soddisfazione personale.
La sua
vita gli piaceva molto, gli amici, la famiglia, il villaggio. Sentiva
di essere
amato ed era consapevole che in tutto l’universo non
esistesse un altro luogo
migliore di quello in cui viveva: era il suo personale posto nel mondo
ed era
felice di poterlo condividere con la sua famiglia.
Per
questo, il fatto di essere considerato uno scarto, un disgustoso
mezzo-demone,
non aveva la minima importanza. Avrebbero potuto dirgli qualsiasi cosa,
trattarlo sempre come un escluso, come un pezzente, ma a lui non
sarebbe mai
importato. Non avrebbe mai messo a rischio la sua splendida vita per
qualcosa
che non aveva il minimo valore. Aveva infatti capito sin da subito che,
anche
se non sarebbero state molte le persone capaci di accettare la sua
compagnia
senza battere ciglio, non aveva alcun senso abbattersi o desiderare di
essere
qualcosa di differente da ciò che era. Aveva capito che
avrebbe dovuto cercare
quelle poche persone che lo avrebbero accettato incondizionatamente,
senza
perdersi d’animo di fronte ad un compito che effettivamente
non era proprio il
massimo della semplicità.
Non era
sicuro che questo suo atteggiamento positivo fosse dovuto
all’essere sempre
stato circondato, sin da bambino, da persone meravigliose, che lo
avevano
riempito d’attenzioni e d’amore, ma era sicuro che
quello che aveva era troppo
importante e appagante, perché delle semplici parole,
intrise d’odio, potessero
colpirlo, arrivando a ferirlo.
A quel
tempo in effetti tutto sembrava semplicemente troppo bello per essere
vero e
probabilmente fu per questo che, quando sopraggiunse la tragedia,
nessuno fu in
grado di fare qualcosa che non fosse guardare attonitamente il mondo
sgretolarsi in infiniti minuscoli frammenti.
Fu tutto
veloce. Troppo veloce. E se ne accorsero subito, ma era già
tardi. Non
avrebbero mai potuto fare niente per porre rimedio
all’inesorabile scorrere del
tempo. Fu semplicemente come risvegliarsi da un sogno, uno splendido
sogno,
come se gli ultimi tredici anni in realtà non fossero mai
esistiti e tutto
fosse stato esattamente come allora.
Il
dolore, l’angoscia, la malattia.
Avevano
accolto la notizia con un sorriso di tristezza sul volto e la
disperazione nel
cuore, perché non aveva neppure più senso sperare
e farsi illusioni. Si
trattava solo di aspettare l’inevitabile e anche se faceva
così male che
avrebbero voluto urlare tutto il loro dolore per strapparlo da
sé, non poterono
fare altro che nascondere tutto dietro un sorriso carico di amore e
sostegno.
Erano lì
per lei, solo questo. Sarebbero sempre stati lì per lei. Ma
in realtà, fino
all’ultimo, fu Rin ad essere lì per loro, ad
impedire che cadessero,
distruggendosi in tanti piccoli pezzi, che difficilmente sarebbero
stati in
grado di rimettere insieme. Li strinse a sé con i suoi
sorrisi e il suo
entusiasmo, facendo in modo che si appoggiassero gli uni sugli altri o
almeno
ci provò. Ci provò con tutta se stessa,
perché non desiderava che a causa sua
la sua famiglia andasse in pezzi, perché voleva vedere la
luce della
determinazione nei loro occhi, mentre le promettevano che si sarebbero
rialzati, che sarebbero andati avanti, prendendosi cura di
ciò che lei era
costretta a lasciare.
Fu con
questi desideri nel cuore che Rin disse loro addio.
- Ti
trovo bene. – esordì Inuyasha imbarazzato,
evitando in tutti i modi di
guardarla negli occhi.
- Che ti
succede? Ti metti a farmi i complimenti, dopo trent’anni che
ci conosciamo? –
-
Tzè!
Scema… - brontolò offeso, ma era palese che non
avesse la forza di aggiungere
altro, neppure per risponderle a tono.
- Ti
ricordi… - iniziò a dire Rin, stuzzicando la sua
curiosità, - quel giorno…
prima che Keiichi nascesse, prima che Sesshomaru se ne andasse, io ti
ho chiesto
una cosa. La ricordi? –
Inuyasha
la guardò sorpreso, limitandosi ad annuire. Non avrebbe mai
potuto
dimenticarlo, ma non capiva perché lei gliene stesse
parlando proprio in quel
momento.
- Lo
farai per me? –
E forse
fu per il modo in cui lo chiese - con quello sguardo implorante e la
voce
incrinata che tentava ad ogni costo di mantenere ferma - che non
riversò tutta
la rabbia e la frustrazione su di lei, accettando invece le sue ultime
richieste.
- Te lo
prometto. –
Rin gli
sorrise felice con gli occhi lucidi e paradossalmente con una forza che
non
aveva mai avuto prima. C’era tutta la sua gratitudine in quel
sorriso e
Inuyasha non ne sopportò la vista.
-
Inuyasha. - lo richiamò lei per l’ultima volta, -
Devi promettermi anche un’altra
cosa ed è di vitale importanza. -
- Cosa?
–
le chiese senza voltarsi, cercando di nascondere le lacrime, che
prepotenti
tentavano di uscire.
- Continua
ad aspettare che gli anni passino, continua a non arrenderti e
Inuyasha…
trovala. –
Il demone
sussultò.
- Mi
prometti che continuerai a cercarla, anche se sarà
difficile, anche se ti
sentirai stanco e sarai sul punto di lasciar perdere? –
Strinse i
pugni con il preciso intento di farsi male per non piangere,
perché ancora una
volta, nonostante non le restasse più tempo, lei pensava a
lui, preoccupandosi
per il suo futuro. E Inuyasha riusciva solo a pensare che Rin per lui
era stata
una persona straordinaria, un’amica, una confidente, una
sorella, una madre,
semplicemente una delle persone più importanti della sua
vita.
- Sempre.
– rispose con voce spezzata, - La
cercherò… sempre. -
Non
l’avrebbe mai dimenticata.
E a
qualsiasi costo avrebbe mantenuto quelle promesse: si sarebbe preso
cura di
Keiichi, impegnandosi con tutte le sue forze per essergli di sostegno,
per rappresentare
un punto fermo.
Fu questo
che pensò mentre lo vide entrare nella sua casa e sedersi
accanto a Rin, con
gli occhi gonfi e fortemente arrossati, unico e chiaro sintomo del
fatto che
erano giorni ormai che le lacrime non smettevano di torturarlo tutte le
notti.
- Keiichi,
me la fai una promessa? – gli chiese Rin in un sussurro,
accarezzandogli piano
i capelli e sfiorandogli di tanto in tanto le orecchie. Il mezzo-demone
annuì,
stringendo con forza il labbro inferiore tra i denti, trattenendo i
singhiozzi
e le lacrime che sapeva lo avrebbero scosso da lì a poco.
- Promettimi
che proverai ad essere felice, anche se non sarà facile,
anche se ti sembrerà
la cosa più difficile del mondo. – e avrebbe
voluto fermarla, interromperla per
gridarle che sarebbe stato impossibile, che non ne sarebbe stato in
grado, ma
l’infinità dolcezza che vide trasparire dai suoi
occhi gli bloccò le parole in
gola.
- Promettilo!
Perché io voglio davvero che tu sia felice. Questo
è il mio desiderio più
grande. E per quanto riguarda tuo padre… lo sai anche tu
com’è fatto, lui si
chiuderà completamente, ma non pensare mai che non ti voglia
bene. Ricordati
solo che lui ti adora. Ti ha sempre adorato e anche se non sa
dimostrarlo, ti
vorrà bene per sempre, quindi se puoi, abbi pazienza con
lui, aiutalo e… fai in
modo che ogni tanto gli scappi qualche sorriso, va bene? -
Sentì
le
lacrime rigargli le guance, senza che avesse modo di fermarle o
ricacciarle
indietro. Gli occhi erano completamente appannati e il cuore faceva
male. Si gettò
tra le braccia della madre, singhiozzando disperatamente. Non gli
importava di
essere un uomo, non gli importava di essere per metà un
demone, non gli
importava di chi fosse figlio, del cognome, dell’orgoglio,
dell’onore o di
altre parole che al momento gli apparivano totalmente prive di
significato.
In quel
momento c’era solo lei, la persona che amava di
più al mondo e lei stava per
andarsene via, per sempre.
-
Keiichi… non so dirti quanto sia felice di aver potuto
trascorrere questi anni
con te. Essere tua madre è stato il regalo più
grande che la vita mi abbia
fatto e sono felice… sono così felice di averti
conosciuto… - gli disse con la
voce incrinata, - grazie, grazie davvero, per tutto. -
Rin lo
strinse a sé cullandolo con dolcezza, come quando era
piccolo, continuando a
sorridergli incoraggiante, mettendo in quel semplice abbraccio tutte le
parole
che avrebbe voluto dire, ma che era troppo difficile
pronunciare.
Rimasero
abbracciati per ore, ignorando ogni cosa che non fosse il loro
reciproco calore,
finché alla fine Keiichi non crollò esausto,
addormentandosi in
quell’abbraccio, sentendosi in pace per la prima volta, da
quando l’ombra della
morte si era affacciata nelle loro vite.
Fu
Sesshomaru a portarlo in un’altra stanza, per lasciarlo
riposare
tranquillamente, mentre prendeva il suo posto accanto a Rin. E non
disse una
sola parola, per tutto il tempo. Né ci sarebbe stato niente
di strano in
questo, se non fosse che Rin era sempre stata in grado di vedere oltre
la sua
scorza di gelida indifferenza e in quel momento riusciva a vedere
chiaramente
che il demone, che aveva davanti, era diverso da quello che negli
ultimi anni
le era stato accanto.
Non gli
chiese di tornare ad essere la persona che amava, non le importava che
lui la
stesse allontanando. Lo conosceva troppo bene ormai e poteva capire
ogni
ragione, ogni perché, dietro i suoi comportamenti.
- Ti
amerò per sempre. – gli disse semplicemente, dando
voce a tutto ciò che si
dicevano continuamente in silenzio.
E avrebbe
voluto dirgli altre cose, alcune stupide, altre importanti, ma la
realtà era
che non poteva dire altro. Semplicemente perché tutte le
parole del mondo non
avrebbero avuto alcun significato, non in quel momento, non con lui che
si era
richiuso in se stesso, tornando la persona di quel passato lontano che
non
aveva conosciuto, solo per la speranza di proteggersi.
Gli
sorrise e Sesshomaru abbassò lo sguardo.
Per la
prima volta in tutta la sua vita fu debole e come un qualunque essere
umano si
spezzò, ma non gli importò.
Quel
giorno pioveva, così come continuò a piovere per
i tre giorni successivi. Il
sole sembrava esser diventato ormai un lontano ricordo, mentre i campi
si
allagavano, distruggendo il raccolto e i fiumi si inondavano.
Si
chiedevano, sperando e pregando, se sarebbe mai tornato ad illuminare i
loro
volti stanchi e sofferenti, portando con sé magari un
flebile sorriso, ma il
sole restava nascosto e le lacrime solcavano il viso, fondendosi con
quelle
gocce di pioggia che le facevano scivolare veloci fino a terra.
Sesshomaru
guardava quel piccolo cumulo di terra con occhi vitrei, totalmente
inespressivi. La cosa più preziosa se ne era appena andata e
niente avrebbe più
potuto portarla in vita.
Non seppe
di preciso come o perché, ma si ritrovò a pensare
al passato, al suo passato e
un sentimento di odio lo colse impreparato. Da quanto tempo non provava
odio?
Era
cambiato, si era lasciato cambiare, scegliendo di vivere una vita
diversa,
piena, forse felice e ora che tutto era tornato come prima, ora che era
nuovamente solo, non ricordava più come fosse la sua vita
prima di incontrare Rin.
Come era
riuscito ad andare avanti, a vivere, a camminare? Che cos’era
che lo avevo
spinto? Possibile che non lo ricordasse? E se non fosse riuscito a
ricordarlo,
come avrebbe fatto ad andare avanti?
Si odiava
per questo, per essersi permesso di cambiare. E odiava Rin. In quel
momento
odiava Rin, perché aveva stravolto il suo mondo e il suo
modo di essere: lo
aveva cambiato e lo aveva lasciato solo, a fare i conti con una
coscienza con
cui solo lei era mai stata capace di andare d’accordo.
Sentì
la
presenza degli altri dietro di sé e lasciò che il
suo sguardo si posasse sulla
foresta e poi vagasse oltre, fin dove riusciva a vedere, verso i
territori
dell’ovest e i luoghi da cui proveniva. Lontano da quel
villaggio, dagli esseri
umani, dai legami e da tutto ciò che era stato semplicemente
trasformato in un
cumulo di terra e pietre.
Mosse un
primo passo verso quella nuova vita, che aveva l’amaro
retrogusto del passato -
la vita senza di lei. E sentiva di non aver guadagnato niente, ma di
aver perso
tutto, mentre muoveva un secondo passo e poi ancora un terzo.
-
Papà… -
sussurrò Keiichi, non distogliendo gli occhi da lui e subito
il suo cuore
sembrò volersi arrestare, mentre si sentiva sprofondare,
trascinato a fondo
nelle profondità dell’oceano, dove
l’unica cosa che poteva fare era continuare
ad annaspare, cercando di combattere inutilmente quella forza che
voleva a
tutti i costi impedirgli di risalire e respirare.
-
Papà. –
lo chiamò di nuovo, con una nota di urgenza nella voce, ma
Sesshomaru non la
avvertì o non volle fermarsi.
Sentì
le
gambe tremargli e allora gli corse incontro, sentendo il panico
crescere ogni
secondo di più.
-
Keiichi. – tentò di richiamarlo Inuyasha, ma non
gli importava.
-
Papà!
Aspetta! – lo raggiunse bloccandogli il passaggio, - Dove
stai andando? Perché?
Io non… -
Rimase a
specchiarsi nei suoi occhi, senza trovare il coraggio di aggiungere
altro,
sicuro che anche una sola parola lo avrebbe fatto andare in
pezzi.
E
Sesshomaru continuava a guardarlo, ma in realtà non era
lì. Non era più lì da
quando Rin si era ammalata. Non c’era dolore, non
c’era rabbia, non c’era
tristezza o dispiacere in quegli occhi che avevano perso
improvvisamente tutta
la loro profondità. C’era solo il vuoto, un
immenso e terrificante vuoto.
Sesshomaru stava annegando, proprio come lui, veniva trascinato a
fondo, ma non
opponeva resistenza, lui ormai non combatteva più, lasciava
solo che fosse la
corrente a condurlo nell’oscurità più
intensa.
-
Keiichi. – sentì Inuyasha che lo affiancava
preoccupato e come lui ora guardava
Sesshomaru, incapace di dare voce ad uno qualsiasi dei pensieri che gli
affollavano la mente.
Sesshomaru
li superò, ignorando le mille domande che leggeva nei loro
occhi.
Keiichi
guardò il profilo delle sue spalle allontanarsi e il
pensiero della sua
famiglia, di loro tre insieme, gli arrivò forte come una
pugnalata nel petto.
Se ne
stava andando. Anche lui lo stava abbandonando, proprio come aveva
fatto lei.
La sua perfezione, la sua casa, il suo mondo, tutto era in pezzi.
- Ti
prego. – sussurrò e nella sua mente
urlò e implorò che si fermasse, che sua
madre lo aiutasse, che impedisse a Sesshomaru di andarsene e lasciarlo
solo. Ma
Sesshomaru non tornò indietro. Guardò solo
Inuyasha, per l’ultima volta.
- Prenditi
cura di lui. – disse. E se ne andò.
Il
silenzio li avvolse completamente. Nessuno aveva più la
forza per parlare o
semplicemente per credere – credere che le cose sarebbero
andate meglio, che
tutto in un modo o nell’altro si sarebbe aggiustato. Erano
tutti troppo
stanchi.
- Andiamo
Keiichi. Torniamo a casa. – lo chiamò Inuyasha,
posandogli una mano sulla
spalla e aspettando di sentirlo muoversi.
Keiichi
camminò,
per la sola forza di inerzia, strusciando i piedi e sentendo ad ogni
passo di
più la sua coscienza farsi lontana. Sentì
distrattamente la presenza di Sango e
Daisuke affiancarlo, poi più nulla. Ogni suono, ogni rumore
era completamente
scomparso. Intorno a sé l’oscurità
più totale e nella testa il martellare
insistente di un unico, logorante pensiero.
Avrebbe
ancora avuto una casa?
Rin, 1588
– 1625
Angolino
di Aredhel
…
Tutte le
volte che ho letto il capitolo per correggerlo, questo finale mi ha
lasciato
leggermente scossa e con le lacrime agli occhi, quindi immagino che
anche per
voi sia stato un po’ una mazzata in pieno stomaco.
Potrei
dirvi tante cose su questo capitolo, ma non dirò niente, per
lasciarvi digerire
con calma la suddetta mazzata e perché sono profondamente
curiosa di sapere
l’effetto che ha avuto su di voi: ascoltare le vostre
opinioni, lamentele,
critiche, minacce di morte o magari apprezzamenti (ma dove?! -_-)
Vi
dirò
soltanto che mi dispiace di averci messo tanti mesi per scriverlo, ma
la verità
è che questo capitolo non era previsto: Rin sarebbe dovuta
morire subito e
Keiichi sarebbe dovuto essere già grande. Invece
semplicemente mi è venuta
voglia di immaginarlo da piccolo e di regalare a tutti loro tredici
anni pieni
di gioia, prima di distruggere le loro vite. Inoltre, come potete
notare, è un
capitolo chilometrico, il più lungo che abbia mai scritto a
dire la verità, ma
non mi era possibile in alcun modo spezzarlo in due parti.
Vi
comunico, infine, che siamo ufficialmente a metà di questa
strampalata storia,
nata per gioco come one-shot (sì, la cosa mi sconvolge
ancora). Il prossimo
capitolo non arriverà prima di giugno purtroppo, ma vi
anticipo che si
intitolerà “Il figlio di
un altro” e
beh… che saranno passati cinque anni dalla morte di Rin.
Un bacio
grande a tutti,
Aredhel
*che vi vuole tanto bene e spera davvero di non morire* <3 <3
<3
Altre
informazioni generali:
Daisuke -
Grande aiuto
Hibiki -
Eco, suono
Kouta
- Grande pace
Hiroshi
- Generoso,
tollerante; prospero.
Inoltre
prima del 1600 il tatami era in uso solamente presso le abitazioni dei
nobili,
ma con lo shogunato Tokugawa, il loro utilizzo si è esteso
rapidamente a tutti,
quindi ho supposto senza troppi problemi che per Rin fosse
più che normale
averne uno dentro casa.
Vi avevo promesso un disegno di Keiichi appena nato, ma non riesco ad inserirlo su efp perché il formato è troppo grande. Chi di voi è sul gruppo di Vanilla91, avrà la possibilità di vederlo lì. :)