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Autore: Aredhel92    30/04/2014    7 recensioni
La sconfitta di Naraku avrebbe dovuto essere l’inizio di tutto: della pace, della felicità e di una nuova vita insieme, ma una verità molto più oscura e dolorosa era in attesa dietro a quell’unico attimo di gioia.
- Io quella volta ho espresso un desiderio alla sfera. […] Alla mia morte quel desiderio si dovrebbe realizzare… la sfera mi ha indotto a desiderare ciò che lei stessa voleva. -
Prima di morire, Naraku aveva esaudito il desiderio della sfera: ma che cosa desiderava in realtà la sfera? E perché aveva fatto in modo di tornare nel passato?
- E ora che cosa accadrà!? -
- Tu… scomparirai. -

Kagome era sempre stata sicura che alla fine di quella storia avrebbe dovuto fare una scelta: passato o futuro; ma la realtà era di gran lunga peggiore.
- Esprimerò un desiderio alla sfera… Le chiederò di diventare un demone completo. -
[…]
- Ti troverò. Non importa quanto tempo dovrà passare: io ti troverò sempre. -

Le avventure del grande demone cane sono solo all’inizio!
Genere: Avventura, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Inuyasha/Kagome, Miroku/Sango, Rin/Sesshoumaru
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7. Una vita per una vita
 







  [Anno 1612]

 

- Sesshomaru… - fu un semplice e debole sussurro che si perse nell’aria.

 

- Inuyasha mi dispiace, ma non possiamo più rimandare! Lo vedi anche tu quanto sta soffrendo! Se non permettiamo alla levatrice di intervenire subito, Rin morirà dissanguata e perderà il bambino!- urlò Sango, sovrastando con la sua voce le urla dell’amica.
- Devi dargli ancora un po’ di tempo! Lui… - si interruppe bruscamente, quando l’ennesimo grido gli strinse il cuore in una morsa.
- Inuyasha mi dispiace, ma non c’è più tempo! Non possiamo fermare la natura! – tentò di spingerlo fuori dall’abitazione.
- Inu…Inuyasha… - lo richiamò Rin respirando affannosamente, - di’… di’ a Sesshomaru che… ci ho provato. Digli che avrei… che avrei voluto rivederlo, ancora un’ultima volta e che… mi dispiace che… - continuò non riuscendo a trattenere un grido mezzo soffocato tra lacrime e i singhiozzi, - che dovrà crescere il bambino da solo. –

 

- Sesshomaru io… -

 

- Stai zitta Rin, smettila! – urlò il ragazzo colpendo la parete con il pugno chiuso, causando una rottura nella fragile struttura di legno, - Tu non morirai! Avrai questo bambino e lo crescerai, capito!? –
Rin gli rivolse un flebile sorriso, prima che una nuova contrazione le bloccasse il respiro in gola.
- Facciamolo nascere, ora. – si intromise Sango, rivolgendosi alla levatrice.
- A…Aspetta, Inuyasha! – lo richiamò con la voce incrinata da una punta di disperazione, - Il nome del bambino, dillo a Sesshomaru… il nome del bambino è… Keiichi.-

 

- Sono morta…? -

- Non dire sciocchezze, Rin. –

 

Ricordava tutto in modo tremendamente confuso: l’agitazione, le parole di paura e quelle di incoraggiamento, il panno umido e fresco sulla fronte che le dava un minimo di sollievo, mentre il resto del corpo andava a fuoco, i muscoli tesi fino allo stremo, la gola che bruciava a causa delle urla soffocate e di quelle liberate con forza. 
Solo una cosa tra tutte ricordava con una assoluta ed estrema chiarezza: il dolore. Un dolore intenso, il più grande che avesse mai provato, che le aveva fatto desiderare più volte di morire, pur di non dover sopportare oltre quella tortura.

Delle voci confuse la incitavano a resistere, a farsi forza, a stringere i denti e continuare a combattere, ma lei non voleva più sentirle. Era stanca. Si sentiva lacerata nel corpo come nell’anima e l’unica cosa che l’avrebbe fatta stare meglio, l’unica motivazione che avrebbe potuto darle la forza sufficiente a combattere, a non arrendersi, era quella che più di tutte le faceva male e lentamente la uccideva. 
Il pensiero del suo bambino - del suo piccolo, adorabile, dolce bambino - la straziava nel profondo, come la punta di un freccia acuminata premuta e rigirata con forza su una ferita ancora aperta, che non aveva possibilità di guarire, ma solo di sanguinare e sanguinare ancora.

Il dolore che provava al cuore era in grado di annullare il resto del mondo circostante e lei piangeva e singhiozzava, ansimando pesantemente, cercando di recuperare quanta più aria possibile tra un respiro e l’altro; ma l’aria non bastava. Non bastava mai. 
I polmoni si svuotavano troppo velocemente e il torace si richiudeva su se stesso, stritolandosi in una morsa ferrea. Forse aveva un attacco di panico, forse il suo cuore era sul punto di fermarsi per sempre. Non lo sapeva. Sentiva solo il dolore.

E allora aveva spinto e aveva urlato, pianto e poi spinto un’altra volta ancora, per l’ultima volta.

Le palpebre degli occhi si erano abbassate lentamente fino a serrarsi del tutto, inondando la mente di oscurità. La coscienza era scivolata via, lontana dal presente, lontana dal corpo, verso un mondo privo di dolore, dove aveva sperato con tutto il cuore di potersi un giorno ricongiungere con i due grandi amori della sua vita.

- Sei arrivato in tempo. – pensò ad alta voce e in quella frase non vi era il minimo accenno di sorpresa, ma solo una grande indescrivibile gioia. Gioia per aver rivisto il volto dell’uomo che amava, per aver risentito la sua voce ancora una volta, gioia per essere ancora viva e per quella possibilità che sognava da mesi e che si era vista scivolare via dalle mani troppo presto.

- E il bambino? Sta bene? Dov’è? – si agitò guardandosi intorno freneticamente, ignorando ogni singolo muscolo del suo corpo, che pulsava dolorosamente.

Sesshomaru si sporse appena verso l’ingresso di un’altra stanza, celando il sollievo che il risveglio della ragazza aveva portato sul suo cuore, come un vento tiepido che soffiando dolcemente era riuscito a far spostare quel peso che da mesi lo opprimeva.

Sango si avvicinò senza dire una parola, con il sorriso sulle labbra e gli occhi lucidi per l’emozione. Tra le braccia stringeva un piccolo fagotto, avvolto da una calda coperta rossa.

- Congratulazioni Rin. – le sussurrò lasciando scivolare il piccolo fra le braccia della madre, mentre una lacrima di commozione le solcava la guancia, - Puoi stare tranquilla, lui sta benissimo. – continuò scostando una ciocca ribelle dal volto del neonato, in una carezza appena accenta, per poi uscire e lasciarli soli.

Rin guardò il suo bambino e istantaneamente il resto del mondo scomparve.

Ogni notte aveva sognato il suo viso, immaginandolo in ogni singolo tratto, fin nel più piccolo dettaglio, non arrivando mai a concepire pienamente la bellezza e la perfezione che contemplava ora con i suoi stessi occhi. E così continuava a guardarlo, ad incantarsi e a perdersi completamente in ogni suo respiro. Le sue guance rosee e paffute, i tratti tondi e gentili, le labbra piene e leggermente dischiuse che tanto ricordavano le sue. I capelli corti ma folti, uguali a quelli del padre, che lasciavano scoperto sulla fronte uno spicchio di luna. E sulla testa, due piccole orecchie canine, che fremevano velocissime, come se cercassero di sentire tutti i suoni del mondo nel quale era appena entrato, in perfetta sincronia con il movimento delle minuscole manine che si chiudevano a pugno per poi riaprirsi nuovamente, nel tentativo di afferrare tutta l’aria circostante.

- Keiichi. – sentì sussurrare improvvisamente e subito si riscosse, - È così che volevi chiamarlo? -

- Mi dispiace! – sussultò affrettandosi a rispondere, spaventata che quella decisione, totalmente arbitraria ed estremamente poco rispettosa, potesse infastidire Sesshomaru, - Non volevo privarti di un tuo diritto. – procedette poi a spiegargli il motivo di un tale e presuntuoso comportamento:
- Io pensavo davvero di morire. Credevo che non avrei avuto neppure l’opportunità di vederlo, così… ecco io… volevo che avesse qualcosa di mio, capisci? Volevo che potesse avere un mio ricordo, per tutte le volte in cui si sarebbe sentito solo, per quando avrebbe sentito la mia mancanza, qualcosa che gli ricordasse che lo amavo, anche se non potevo essere lì con lui e che gli facesse capire che lui per me era la cosa più preziosa e che se avessi potuto, sarei rimasta con lui il più possibile. È sciocco, lo so… - ammise poi arrossendo, sentendosi ancora più in soggezione, a causa dello sguardo penetrante che Sesshomaru le stava rivolgendo.

Il demone era rimasto a fissarla per tutto il tempo. Aveva deciso semplicemente di farla parlare, fino a che non avesse esaurito tutte le parole, anche se, ne era certo, ci sarebbe voluto molto tempo prima che le esaurisse tutte. 
Questa volta aveva rischiato troppo. Aveva dubitato delle sue capacità per la prima volta in vita sua, sentendosi impotente, e l’aveva odiato. Nonostante ciò, era andata bene: aveva potuto rivedere il sorriso di Rin, sentire ancora una volta la sua dolce voce e per il momento quello era tutto ciò che desiderava.

- Comunque ora sto bene, grazie a te. Potrò stare con lui e vederlo crescere e… potrò stare… anche con te, vero? – chiese sembrando ad un tratto impaurita e imbarazzata.

Sesshomaru non ne capì il motivo; semplicemente si limitò a lanciarle un’occhiata confusa, seguita immediatamente da una di rimprovero. Rin gli fece uno dei suoi sorrisi più belli, riacquistando sicurezza e riprendendo poi a cullare dolcemente il piccolo.

- Vorrei che fossi tu a scegliere il suo nome. -

Sesshomaru rimase impassibile per un tempo che sembrò un’eternità, intento ad osservare la scena praticamente perfetta che si svolgeva davanti ai suoi occhi, percependo quell’incredibile emozione d’amore, come se potesse toccarla con mano, tanto era forte e intensa.

Tra i due calò un silenzio quasi sacro, che neppure il neonato osò infrangere, pensando bene di continuare a dormire placidamente e Rin aspettò con estrema pazienza, perdendosi ancora una volta nella contemplazione dei dolcissimi tratti del suo bambino.

- Keiichi. – disse infine il demone, cogliendo di sorpresa la ragazza, che lo guardò confusa senza capire, - Keiichi va bene. -

Non ne avrebbe mai scelto un altro. Non gli importava che fosse stata una femmina e per di più umana a scegliere il nome di suo figlio; non gli importava, perché quel nome l’aveva scelto Rin.

 

 

Quelli furono forse per tutti gli anni più felici. Ogni cattivo pensiero, preoccupazione o presagio che qualcosa potesse rovinare quella pace così desiderata e amata erano semplicemente sfumati via. Tutto si era nuovamente stabilizzato. Non esistevano più impegni o pericoli, solo amore e famiglia. E risate, tante risate. Perché era bello svegliarsi la mattina con la consapevolezza di essere amati e necessari, di avere qualcuno accanto su cui poter sempre contare, nonostante le difficoltà.

Quell’incubo appena finito aveva, chissà come, rinsaldato ancora di più quei legami che si erano creati anni prima quasi per caso. 
Erano persone diverse, con differenti esperienze alle spalle e un modo diverso di vedere e vivere la vita, ma si erano trovate unite prima da un obiettivo comune, poi dal dolore e infine c’era stata solo la gioia. Erano ancora insieme e si consideravano una famiglia, perché non potevano farne a meno, perché ai loro occhi quella era l’unica verità possibile. 
Così Rin non si sorprese quando, parlando con Sesshomaru del loro prossimo futuro, dopo aver espresso il desiderio di rimanere al villaggio con quella che ormai considerava parte della sua famiglia, non solo vide il demone accettare senza fare domande o obiezioni, ma lo sentì affermare che anche lui sarebbe rimasto. Non avrebbe ricominciato a viaggiare, non si sarebbe più allontanato da lei, da loro, si sarebbe impegnato per vivere quella pace fino in fondo, senza perdere neppure un secondo.

Fu così che rimasero in quella casa che aveva ospitato e protetto Rin durante quei mesi di malattia. Lontano dal villaggio e dagli occhi della gente, quanto bastava per permettere loro di costruirsi il proprio mondo, ma abbastanza vicino per poter restare con quella strana, numerosa e variegata famiglia, la cui presenza Sesshomaru riusciva ormai a tollerare senza troppi problemi, fino a trovarla a tratti stranamente gradevole.

“Anche Inuyasha, dopotutto”, si ritrovò a pensare, quando lo vide guardare suo figlio per la prima volta. La stessa quantità di meraviglia e paura impressa chiaramente sul volto, gli occhi sgranati e le mani tremanti alla vista di quel piccolo miracolo.

- Keiichi, guarda, lui è lo zio Inuyasha. – aveva detto Rin sorridendo dolcemente, salvo poi scoppiare a ridere a causa delle reazioni scatenate da quelle semplici parole, provocando così il turbamento del neonato, irritato da quel tremore che l’aveva scosso dal suo sonno profondo.

Non le erano sfuggiti infatti il ringhio soffocato di Sesshomaru che si era voltato stizzito, né il disgusto sul volto di Inuyasha, che dopo aver lanciato un’occhiataccia al fratellastro, era tornato a guardare quello che, suo malgrado, era suo nipote a tutti gli effetti. Ma a Rin non era sfuggita neppure la verità, quella che quei due, troppo testardi ed orgogliosi, non avrebbero mai ammesso, ma che ormai era fin troppo palese: entrambi avevano reciprocamente accettato il ruolo e la presenza dell’altro nella propria vita. E forse non avrebbero mai smesso di mantenere quella parvenza di irritazione ogniqualvolta si fossero trovati vicini o uno dei due avesse aperto bocca, ma sapevano entrambi che quel piccolo bambino li avrebbe uniti ancora di più, portandoli ad essere fratelli come mai lo erano stati prima.

 

 

Così i giorni passarono ad una velocità vertiginosa, immersi in un’atmosfera di tranquillità quasi surreale, scanditi dai cambiamenti di un piccolo Keiichi che cresceva a vista d’occhio.
Sembrò infatti che fossero trascorsi pochi secondi appena dal giorno della sua nascita ai giorni in cui il bambino aveva iniziato a dispensare sorrisi a tutto il mondo, contagiando chiunque avesse intorno con quella risata così limpida e dolce.
E all’inizio, avevano dovuto ammetterlo, ne erano rimasti tutti profondamente stupiti. Vedere quell’espressione, così ricca di gioia sul quel viso dai tratti così simili a quelli paterni, avrebbe probabilmente preso in contropiede chiunque. 
Sesshomaru era sempre impassibile, eccetto poche e rare occasioni in cui si era lasciato scappare qualche emozione di troppo; Inuyasha era permaloso, testardo e arrogante, sempre con quel cipiglio imbronciato o contrariato. Certo, lui sorrideva un po’ più spesso rispetto al fratellastro, ma non si poteva certo dire che fosse un esempio di cordialità. Infine anche la misteriosa figura di Inu no Taisho non lasciava certo immaginare un padre amorevole che si prendeva cura dei figli con tenerezze e premure varie.
Partendo da questi presupposti, il pensiero che determinati comportamenti fossero un’eredità di famiglia era sorto spontaneo e Rin si era rivelata anche piuttosto spaventata all’idea di dover fare i conti con un impegno del genere.
Keiichi invece sorprendentemente aveva infranto del tutto quella strana tradizione. Lui rideva. Rideva sempre. Quando stava a casa, quando lo portavano in giro, quando mangiava, quando lo prendevano in braccio. Rideva indistintamente con tutti, che fossero familiari o estranei, sia che gli dessero attenzioni, sia che lo lasciassero un po’ in disparte. Riusciva ad attirare l’attenzione di tutti su di sé e soprattutto riusciva a farsi adorare da ogni persona che lo vedesse anche solo per pochi istanti.

A Sango venne naturale constatare quanto Rin fosse stata fortunata a non essersi dovuta sorbire tutti quei pianti disperati, che invece erano toccati a lei con i suoi tre figli. Keiichi era un bambino a dir poco adorabile, a detta di tutti. E questo semplice dato di fatto li aveva spinti a riconsiderare le loro precedenti convinzioni: se Inuyasha, Sesshomaru e Inu no Taisho erano accumunati dallo stesso intrattabile e severo carattere, non voleva certo dire che fosse sempre stato così. Magari erano cambiati una volta diventati adulti…

A questo punto il pensiero di un Sesshomaru e di un Inuyasha bambini, che ridevano sguaiatamente, aveva invaso le loro menti, decretando l’inizio di un’ilarità generale che era andata avanti per giorni e giorni. Non potevano guardare in faccia l’uno o l’altro senza rischiare di strozzarsi nel tentativo di celare le risate. Inutile dire che nessuno dei due reagì pacificamente a quei pettegolezzi, che rischiavano di minare la loro apparenza di grandi demoni. Così, per mettere fine a quell’atmosfera di scherno, che ormai lo seguiva come un’ombra, Inuyasha stabilì semplicemente che Keiichi era tanto adorabile solo perché – e grazie al cielo!, aveva aggiunto – non aveva ripreso niente da Sesshomaru. In cambio si era guadagnato un’occhiataccia pregna di disprezzo e una chiara minaccia di morte, ma per lo meno era riuscito a chiudere definitivamente la questione.

 

 

Furono sufficienti appena pochi mesi di tempo però, affinché Inuyasha cambiasse completamente opinione, trovandosi costretto a ritrattare ogni singola considerazione o pensiero che avesse precedentemente formulato.

Aveva definito o anche solo pensato che Keiichi fosse adorabile? Un bravo bambino, buono con tutti? Bene, non esisteva niente di più errato.

La nuova consapevolezza era semplice e concisa: Keiichi era un mostro. Non un mostro come quelli che si sentivano nei racconti che gli anziani del villaggio utilizzavano per spaventare o educare i bambini, e neppure un mostro in senso dispregiativo come erano spesso definiti i demoni o quelli affini alla loro specie. No, Keiichi era un mostro vero.

Dopo aver da poco imparato a gattonare, se ne andava in giro per tutto il villaggio, spargendo sorrisi mezzi sdentati a tutti e gridolini di gioia, incantando persone di ogni sesso o età, con quei suoi grandi occhi così luminosi che brillavano di luce propria. 
Tutti, nessuno escluso, perdevano completamente la testa, arrivando persino ad affermare che fosse il bambino più bello che avessero mai visto in vita loro. Tutti cadevano sotto il suo malvagio sortilegio, tutti tranne lui.
Inuyasha non si lasciava certo ingannare da quel faccino, da quegli occhioni o da quei sorrisi. Lui era l’unico che riusciva a vedere la verità attraverso tutto ciò e quello che vedeva con estrema chiarezza era che suo nipote era l’incarnazione del male.

I tratti così dolci e quei particolari che riuscivano ad incantare con un solo sguardo non erano altro che una trappola: attirava le sue prede con mille e più moine, sfoderando le sue armi migliori, e quando l’avversario abbassava la guardia, completamente ipnotizzato, il moccioso attaccava senza lasciare scampo.

Solo lui era immune ai suoi assurdi poteri e Keiichi di questo si era sicuramente accorto. Oh, se se ne era accorto! Per questo motivo l’obiettivo principale del bambino era divenuto attentare ripetutamente alla sua testa. Voleva mangiarlo! Ormai ne era sicuro, Keiichi voleva strappargli la testa a morsi! Perché se non poteva farlo cadere nella sua trappola, allora non poteva permettersi di lasciarlo in vita.
Così cercava in ogni modo di ucciderlo: gattonando davanti ai suoi piedi mentre lui camminava, cercando di farlo cadere e fargli rompere l’osso del collo; vomitandogli addosso una roba nauseante, che aveva il potere di stordirlo il tempo sufficiente ad attaccare; usando quei due primissimi denti - o come li aveva soprannominati lui, le armi del nemico - che gli erano da poco spuntati, per lacerargli la carne a morsi; per non parlare poi dei numerosi tentativi di cavargli gli occhi o strappargli tutti i capelli, con quelle manine fin troppo agili che si muovevano inarrestabili, tanto da farlo apparire quasi un polpo. Tentacoli! Veri e proprio tentacoli, altro che tenere e dolci manine!

Come se non fosse sufficiente, Keiichi era anche straordinariamente intelligente. Aveva infatti compreso quasi subito che per quanto i suoi tentativi fossero ingegnosi e ben studiati, non sarebbero mai riusciti a provocare seri danni. Così il moccioso aveva elaborato una strategia a lungo andare infallibile e altamente distruttiva. Provocava Inuyasha fino a portarlo alla stremo delle forze e quando a quest’ultimo iniziava a fumare il cervello dalla rabbia, la pazienza ormai totalmente esaurita, nel momento stesso in cui stava per esplodere e sgridarlo, ecco spuntare Sesshomaru. A quel punto era in trappola e Keiichi lo sapeva benissimo, perché ghignava spudoratamente al suo indirizzo.

Inuyasha non poteva rimproverarlo, né spiegare la situazione, né fare alcunché, perché Sesshomaru si limitava a fissarlo con quell’occhiata di puro odio e rimprovero, che aveva da tempo imparato ad interpretare con uno “sta’ zitto o ti uccido”. Non si aspettava certo che il fratello prendesse le sue difese, né tantomeno che fosse disposto ad ascoltarlo, ma non era certo lui il genio del male lì dentro!

Poi il fratello se ne andava stizzito per essere stato interrotto in qualsiasi cosa stesse facendo e la lenta e inesorabile tortura di Keiichi ricominciava dall’inizio: prima o poi sarebbe sicuramente riuscito ad aizzare Sesshomaru contro di lui, era solo questione di tempo.

- Maledetto moccioso questa me la paghi… – brontolò a mezza bocca, cercando di incenerire con gli occhi quel demone assetato del suo sangue che aveva per nipote, mentre lo vedeva gattonare tranquillamente ai suoi piedi.

- Inuyasha, ma devi metterti a discutere con un bambino? Non ti sembra di essere cresciuto ormai? - lo riprese Rin, finendo di sistemare i panni che avevano appena finito di asciugarsi alla luce del sole.  

- Certo vero?! Tuo figlio è l’incarnazione del male e le occhiatacce me le becco io! – protestò il demone di fronte alle continue ingiustizie di cui era vittima negli ultimi tempi.

- Inuyasha, andiamo, è solo un bambino! – lo prese in braccio coccolandolo, - Non starai esagerando? –

- Un bambino?! No Rin, guardalo, guardalo! Lo vedi? – lo indicò avvicinando un artiglio, che fu subito stretto tra le mani di Keiichi, contento di avere un nuovo gioco da stritolare e rompere.

- Sì, sta ridendo. E allora? – chiese Rin divertita, non capendo dove volesse arrivare con quello strano discorso.

- Piantala moccioso! – lo rimproverò, iniziando ad avvertire l’unghia piegarsi pericolosamente, sotto la presa di quelle mani piccole, ma già fin troppo violente, - Quello non è un sorriso, Rin, è un ghigno! Tuo figlio sta ghignando, in modo malefico, mentre mi guarda! E intanto progetta un piano per farmi fuori. –

Rin guardò alternativamente i due, chiedendosi se non fosse il caso di chiedere consiglio a Sango riguardo gli strani comportamenti che Inuyasha aveva iniziato a mostrare negli ultimi giorni: i demoni erano in grado di impazzire? Il suo bambino sorrideva felice e non c’era niente di malvagio o sinistro nel suo dolce e tenero viso, che guardava il mondo circostante con incredibile curiosità e voglia di toccare ogni cosa che lo circondasse.

- Keiichi, ma che ti dice lo zio Inuyasha, eh? – lo cullò piano facendolo ridere di gusto, - Facciamo vedere allo zio brontolone che bravo bambino che sei? Ti va? – continuò poi, mettendo il piccolo tra le braccia di Inuyasha e lasciandolo prima che lui avesse modo di protestare per quell’invasione non prevista.

- Ecco fatto! Lo vedi? Non è adorabile? È solo un bambino, non vuole farti alcun male. – spiegò poi con voce materna, come se stesse parlando ad un altro figlio, costretta a spiegare la cosa più ovvia del mondo.

Keiichi intanto continuava a sorridere, affascinato da quelle lunghe ciocche di capelli che incorniciavano il viso di Inuyasha e arrivavano all’altezza delle spalle. Doveva assolutamente afferrarle. Era sicuramente questo che pensava mentre alzava il braccio, aprendo e chiudendo la mano, con espressione imbronciata a causa di quel compito che si stava rivelando più difficile del previsto.

Ad un tratto una voce dall’esterno chiamò Rin, che si vide costretta ad allontanarsi, lasciando soli i due, non prima di aver detto loro che sarebbe tornata in pochissimi minuti.

Inuyasha lasciò che un’espressione afflitta gli contraesse il volto, tornando poi a rivolgere tutta la sua attenzione al nemico, sussultando quando gli vide negli occhi quella stessa espressione, tutta di Sesshomaru, quando in combattimento decideva che era arrivato il momento di uccidere una volta per tutte l’avversario.
Non fece in tempo a fare nulla che subito Keiichi riuscì ad afferrare una ciocca. La strinse con tutte le forze che aveva e la tirò a sé, costringendo Inuyasha a gemere di dolore e ad abbassare la testa, per non rischiare di vedersi strappati tutti i capelli.
Poi accadde tutto in un attimo.
Facendo leva su quell’unica ciocca, Keiichi riuscì a sgusciare dalla presa dello zio, arrampicandosi sui suoi capelli, andando a posizionarsi, in appena un paio di secondi, sulla sua testa.

Ed eccolo, il suo obiettivo.

Spalancò la bocca avvicinandosi sempre di più, pregustando il momento tanto atteso.

- Staccati! Staccati subito moccioso! – urlò Inuyasha, cercando di afferrarlo e tirarlo via, ma più tirava, più Keiichi serrava la presa intorno al suo orecchio, mordendo ferocemente.

- Che succede? – rientrò Rin preoccupata, attirata dalle urla.

- Toglimelo di dosso! –

- Inuyasha! Smettila di agitarlo così! Poi non riuscirò mai a farlo addormentare! -

- Agitarlo?! Agitarlo?! Lui vuole staccarmi le orecchie a morsi e sono io che lo agito?! –

Rin sbuffò, ignorando quegli inutili isterismi e afferrò Keiichi, che immediatamente si staccò per rifugiarsi felice tra le braccia della madre.

- Sei proprio un bambino! – lo rimproverò arrabbiata, portando poi il figlio in un’altra stanza.

Lo adagiò delicatamente sul tatami situato proprio nel centro e si sedette vicino a lui, accarezzandogli dolcemente le piccole orecchie, in quel semplice gesto che aveva capito essere il sistema più efficace per farlo rilassare e addormentare.

- Oh, ma guarda! – esclamò poi sorpresa e Inuyasha si avvicinò ancora arrabbiato, ma anche abbastanza incuriosito.

- Che c’è ancora? –

- Gli stanno spuntando altri denti. – osservò indicando i piccoli canini superiori, che fuoriuscivano appena dalla gengiva un po’ infiammata, - Ecco perché ti mordeva le orecchie. Ti fanno tanto male, non è vero Kei? – uscì poi dalla stanza alla ricerca di una qualche erba medicinale con cui preparare un estratto che potesse lenirgli il dolore.

Inuyasha ancora una volta rimase faccia a faccia con il suo acerrimo nemico, mentre quest’ultimo gli sorrideva con l’espressione più innocente che fosse in grado di fare.

- Preparati moccioso, perché quando crescerai questi affronti me li pagherai tutti, dal primo all’ultimo. – lo minacciò ghignando allo sguardo confuso dell’altro, uscendo poi dall’abitazione, deciso più che mai ad elaborare piani di vendetta. Una vendetta lenta, che avrebbe richiesto anni per esser preparata in ogni singolo dettaglio. Sarebbe stata inesorabile e crudele – oh, se lo sarebbe stata! – proprio come lo era stato Keiichi con lui.

Già pregustava la sua vittoria…

 

 

 

***

 

[Anno 1615]

 

Fare il padre non era affatto semplice, - non che Sesshomaru avesse mai pensato che lo sarebbe stato o che lui sarebbe stato un buon padre, no, questo mai. - ma non avrebbe neppure lontanamente ipotizzato che sarebbe stato così difficile. Praticamente impossibile, per dire le cose con sincerità e senza usare mezzi termini. E questo per un motivo tanto semplice quanto disastroso nelle sue dirette conseguenze.

Suo figlio aveva paura di lui.

Si arrampicava sugli alberi, rischiando di cadere e spezzarsi l’osso del collo, si tuffava nei ruscelli, rischiando di morire annegato o di essere trascinato via dalla corrente, faceva i peggiori dispetti ai tanti demoni inferiori che vivevano nella foresta, aprendo la porta ad una miriade di pessime e terribili conseguenze che non voleva neppure ipotizzare. Aveva appena tre anni ed era già fiero, testardo e temerario come solo un demone adolescente poteva e sapeva essere, ma nonostante tutto era terrorizzato da lui, dal suo stesso padre.

Non lo aveva mai chiamato, neppure una volta. Mai un “papà”, “padre”, “Sesshomaru”, “genitore che hai contribuito in qualche modo a mettermi al mondo” o un qualsiasi nomignolo con cui i bambini erano soliti riferirsi alla figura paterna. Lui mai niente. Non lo chiamava, non lo cercava, faceva semplicemente in modo di stargli il più distante possibile e di evitare il suo sguardo.

Era capitato solo una volta, quando era molto piccolo e aveva meno di un anno: Rin giocava con lui, facendolo ridere e intanto lo incitava a dire le sue prime parole.

- Lo sai dire mamma? Mam…ma, mam… ma. -

Il piccolo aveva risposto in un borbottio sorridente, con un “maahaa” talmente pieno di vocali che chiunque si sarebbe chiesto se in realtà non stesse semplicemente ridendo. Ci aveva provato più e più volte, senza riuscirci mai e finendo per storpiare sempre più quella semplice parola, ma il fatto che la prima consonante fosse quasi sempre quella giusta lasciava presagire che, per lo meno, il piccolo avesse compreso quale fosse la parola da dire e cercasse in tutti i modi di riprodurla.

Alla fine Keiichi aveva detto finalmente la parola mamma dopo giorni e giorni pieni di tentativi.

Rin aveva sorriso con le lacrime che le rigavano le guance e gli occhi che brillavano e Sesshomaru aveva sempre considerato quell’immagine uno dei suoi ricordi più preziosi.

Keiichi aveva continuato a ripetere quella singola parola, quasi con orgoglio, come se volesse mostrare il grandissimo traguardo che aveva raggiunto, spronato forse dalla gioia e dal calore dell’abbraccio della madre, che lo cullava riempiendolo di baci.

Non appena l’euforia del momento era passata, Rin era immediatamente tornata all’attacco con una nuova luce di determinazione negli occhi. Aveva deciso che anche Sesshomaru avrebbe dovuto provare la stessa gioia, la stessa sensazione di completezza.

- Ora prova a dire “papà”. Lo sai dire? Pa…pà. -

- Ha-ah! –

Quella fu la prima e ultima che Keiichi tentò di pronunciare quella parola.

Sesshomaru non capì mai di preciso cosa fosse successo, ma da quel giorno iniziò a pensare seriamente che suo figlio in realtà lo odiasse.

Ogni volta che entrava dentro casa o semplicemente si avvicinava a Rin, il piccolo iniziava a piangere disperatamente, arrivando addirittura a sgolarsi.

Le prime volte l’aveva guardato stranito da quel comportamento, ma aveva voluto credere alle parole di Rin che gli ripetevano che non era colpa sua, che per un bambino era normale. 
Con il passare del tempo però la situazione era diventata sempre più palese e difficile da negare: Sesshomaru si avvicinava, Keiichi piangeva, Sesshomaru si allontanava, Keiichi sorrideva. 
Il rapporto di causa effetto che legava le due situazioni era ormai fin troppo evidente per essere ignorato o scusato. Suo figlio lo odiava profondamente e si impegnava con tutte le sue forze per non stargli troppo vicino, scappando a gambe levate ogniqualvolta rimanessero soli.

Sesshomaru non aveva la minima idea di cosa potesse aver fatto di male per farsi detestare in quel modo. In tutta la sua vita – complice forse il fatto che fosse in vita da più di cinquecento anni - si era inimicato una quantità inaudita di gente. Che lo odiassero per mascherare la paura o che lo odiassero in seguito ad un qualche torto o atteggiamento non proprio amichevole, non faceva poi questa grande differenza. 
Il punto era che lui sapeva perfettamente, per ciascuno di loro, quale fosse la causa di tanto odio e conoscendola non poteva certo biasimarli, anzi riusciva a trarre un segreto piacere ogni volta che incontrava negli occhi di un qualsiasi avversario quel lampo di odio e cieca furia. Era come un affermazione di superiorità, più si sentiva odiato più sapeva di essere superiore. E lui lo era davvero. Per questo in tutta la sua vita aveva mostrato il suo disprezzo solamente in pochissimi casi particolari.
Il problema reale si presentava però nel momento in cui quello stesso sguardo, che aveva sempre ricercato con soddisfazione, lo vedeva negli occhi del suo stesso figlio, l’ultima persona sulla quale avrebbe voluto vederlo. Se solo ci fosse stata una ragione valida, un motivo dietro quel comportamento così strano, forse avrebbe potuto fare qualcosa, anche solo capire e mettersi l’anima in pace; ma così non riusciva proprio a venirne a capo.

Keiichi odiava la sua presenza e il suo odio era del tutto immotivato. 

Stando così le cose, lui che avrebbe dovuto fare? Non conosceva la risposta giusta. A dirla tutta, non sapeva neppure se ci fosse una risposta giusta, così semplicemente lo lasciò fare, cercando di non stargli troppo vicino, lasciandogli i suoi spazi, cercando di ignorare il fatto che preferisse passare il suo tempo con chiunque piuttosto che stare anche solo pochi secondi con lui.
Rimaneva a guardarlo da lontano, seguendolo e controllandolo in segreto, mentre lo vedeva ridere con Rin, seguire Inuyasha nella foresta e offrirsi di aiutarlo, giocare insieme ai figli di Sango e Miroku e atteggiarsi a fratello maggiore con il loro quarto ed ultimo figlio, Daisuke, di appena un anno più piccolo. 
Lo vedeva circondato da una vera famiglia, da persone che lo amavano profondamente e pensava che dopotutto andava bene anche così, anche se lui non era compreso.

Se Keiichi era felice, andava bene.

Un giorno poi lo vide uscire furtivamente di casa, guardandosi intorno alla ricerca del minimo movimento, sicuro che se qualcuno l’avesse visto, niente gli avrebbe evitato una bel rimprovero e forse una punizione. Lo vide ghignare soddisfatto e iniziare a correre da solo verso la foresta.

Sesshomaru rimase per svariati secondi a guardare il profilo degli alberi che ondeggiavano al vento, riflettendo sul da farsi. Avrebbe benissimo potuto fermarlo immediatamente: un semplice salto e l’avrebbe riportato a casa senza tante cerimonie. Sarebbe stato più facile e avrebbe potuto evitare di avere tanti pensieri per la testa, ma allo stesso tempo una parte di lui, intrisa d’orgoglio, glielo impediva fermamente. Quel bambino era un demone, figlio del grande Sesshomaru, principe dei demoni e nipote del generale Inu no Taisho. Nel suo sangue c’era la grandezza. Avrebbe dovuto lasciare che si formasse da solo, che corresse pericoli e imparasse a cavarsela, così come era stato per lui a suo tempo.

Aveva deciso che non lo avrebbe seguito, quando inconsapevolmente si trovò a muovere un primo passo verso la foresta; la scusa pronta, che lo stava facendo per scrupolo, per osservare lo svolgersi degli eventi senza intervenire.

Lo vide correre e arrampicarsi sugli alberi, cercando di saltare da un ramo all’altro, divertendosi poi ad inseguire gli animali della zona, terrorizzando a morte una famiglia di conigli che si rifugiò di corsa nelle tane, ben attenta a non uscirne per nessun motivo al mondo. Cercò di catturare una farfalla, senza ottenere dei risultati concreti e si fermò poi ad osservare alcuni vermi che strisciavano tranquilli sul terreno.

Sesshomaru era quasi deciso ad andarsene. Suo figlio se la stava cavando benissimo anche da solo, non avrebbe avuto bisogno in ogni caso del suo aiuto e quella perdita di tempo lo stava profondamente annoiando. Stava per tornare sui suoi passi, quando improvvisamente uno strano fruscio attirò la sua attenzione. 
Affinò i sensi cercando di capire la provenienza di quel suono, con uno strano presentimento. Non avrebbe saputo dire se fosse stato un demone o un animale a provocarlo – non che facesse poi tutta questa differenza, dal momento che per lo più i demoni della foresta avevano sembianze di animali – ma di una cosa era sicuro: si stava avvicinando ed era veloce. Dannatamente veloce.

Ebbe appena il tempo sufficiente per spostare nuovamente gli occhi su Keiichi, intento ad osservare qualcosa nei pressi di un albero con particolare interesse, che subito una gigantesca folata di vento si trasformò in un piccolo tornado, grande abbastanza da scalfire gli alberi e sradicare completamente i cespugli.

Infine la vide. Un’enorme mantide, troppo grande per non essere un demone, di una tonalità verde quasi brillante, le ali semitrasparenti spalancate in tutta la loro maestosità.  
Vide quei grandi occhi muoversi freneticamente, guardando a destra e a sinistra, in perfetta sincronia con le lunghe antenne sulla superficie della testa. La vide procedere lentamente, tastando il terreno con le zampe, producendo il suono di un fastidioso ronzio con le ali. Infine il demone si fermò, immobile, in perfetto silenzio, lo sguardo dritto davanti a sé e Sesshomaru fu invaso da un unico pensiero.

Keiichi. Lo cercò, ma non era più dove l’aveva visto l’ultima volta. Dove se ne era andato?!

Ignorando completamente il demone, concentrò tutti i suoi sensi sul problema più urgente. Doveva assolutamente trovarlo, prima che si inoltrasse troppo nella foresta, incontrando altri pericoli, o prima che lo trovasse la mantide.

Sorvolò la zona circostante, sentendo quella strana emozione, che odiava più di ogni altra cosa, crescere nel petto sempre di più. La stessa che aveva già provato per Rin diversi anni prima. 
Ad un tratto lo vide. Stava correndo, più veloce che poteva, cercando di non perdere l’equilibrio e cadere rovinosamente a terra. Si guardava indietro spaventato, ansimando per lo sforzo, cercando di capire se quel demone lo stesse seguendo, se stesse andando nella direzione giusto, se fosse ancora in pericolo. Non si era reso conto che mentre a pochi metri di distanza la mantide lo inseguiva, c’era un altro demone più avanti, né che lui gli stava andando incontro.

Senza attendere oltre e senza preoccuparsi troppo di quale fosse il modo migliore di agire, Sesshomaru estrasse Bakusaiga, facendola risplendere ai raggi del sole. Si scagliò con tutte le sue forze contro il secondo demone, riuscendo a trafiggerlo e ucciderlo con un unico attacco.

La carcassa cadde al suolo in un tonfo e la foresta si ritrovò immersa nel silenzio più totale.

Era quasi surreale tutto quel silenzio improvviso…

Sesshomaru realizzò con un moto di paura che c’era qualcosa che non andava: Keiichi sarebbe dovuto essere lì con lui, ma non c’era. L’aveva anticipato di appena pochi secondi, come poteva essere sparito, in quel brevissimo lasso di tempo in cui si era distratto!?

Strinse rabbiosamente la presa sull’elsa, imponendosi di non radere al suolo l’intera foresta con il rischio di ferirlo. 
Al diavolo se suo figlio lo odiava, se aveva paura di lui o chissà che altro! Non appena l’avesse trovato gli avrebbe fatto un rimprovero degno di questo nome e allora sì che avrebbe avuto una valida ragione per temerlo!

Saltò verso l’alto per avere una visuale più completa, cercando di raggiungere il luogo dove l’aveva perso di vista e continuando a tenere la mano serrata sulla spada, più per evitare di conficcarsi gli artigli nella carne che per una reale necessità.  
Lo vide rannicchiato vicino un cespuglio, con la faccia rivolta verso il terreno, sporco di terra e fango dalla testa ai piedi, mentre tremava appena. Pensò che doveva essersi ferito, ma un problema più grande si presentò alla sua attenzione: non era il solo ad essersi accorto di lui. 
La mantide lo aveva individuato e puntava a tutta velocità su di lui, sfruttando l’accelerazione fornita dal continuo sbattere delle ali.

“Alzati! Muoviti da lì!” urlò mentalmente, mentre si precipitava verso il figlio, sentendo l’odore fresco del sangue, mischiato a quello delle lacrime, arrivargli alle narici.

La mantide era sopra di lui. La sua mente si oscurò completamente. Lanciò la spada con forza e afferrò Keiichi per le vesti, portandolo via.

Il demone si dimenò furiosamente, mentre con le chele tentava di togliere quella spada che aveva conficcata sulla testa, proprio in mezzo ai due occhi. Fu solo una questione di secondi prima che si accasciasse a terra, esalando l’ultimo respiro.

Sesshomaru, sentendo scemare l’orribile presentimento che aveva avuto fino a quel momento, si permise di tirare un sospiro di sollievo, concentrando poi tutta la sua attenzione sul piccolo bambino terrorizzato e singhiozzante che aveva tra le braccia.  
Per la prima volta in vita sua fu davvero tentato di urlare. Avrebbe volentieri voluto perdere la pazienza e quell’espressione impassibile che lo caratterizzava, per dirgli a gran voce che era stato uno stupido, che un bambino della sua età non poteva permettersi di allontanarsi da solo in luoghi pericolosi, soprattutto se il bambino in questione, pur avendo sangue demoniaco, era totalmente inesperto in questioni di combattimento e sopravvivenza. 
Avrebbe davvero voluto urlargli contro e rimproverarlo per averlo costretto ancora una volta a provare delle maledettissime emozioni umane, ma non fece assolutamente niente. 
Rimase solo a guardarlo, sentendo il cuore riempirsi, suo malgrado, di sollievo e affetto per quel poppante che, anche se in sua presenza non faceva altro che piangere, aveva il potere di stregarlo completamente.

Fu in quel momento che gli tornò in mente suo padre, l’uomo del suo passato e l’uomo che lo aveva aiutato a salvare Rin. Il binomio, che non era mai riuscito a risolvere, ora lo vedeva chiaramente, come un nodo che dopo tempo immemore aveva iniziato a districarsi. Le due immagini iniziavano a sovrapporsi.

“Io ho solo fatto in modo di starti accanto qualsiasi cosa avessi fatto, per aiutarti in caso ne avessi avuto bisogno, per fare in modo che non cadessi.”, così gli aveva detto e lui aveva ascoltato quelle frasi senza capirle, senza riuscire a coglierne il vero significato. Ora invece lo capiva, perché era ciò che aveva fatto lui per Keiichi, era ciò che avrebbe sempre fatto per suo figlio: il dovere di un padre.

Lentamente e con delicatezza gli lasciò cadere una mano sulla testa, dandogli un leggero colpetto.

- Sei ferito? – gli chiese e si stupì lui stesso di riuscire ad imprimere quella dolcezza nel timbro di voce.

Il piccolo mezzo-demone lo guardò un po’ sorpreso, un po’ spaventato, prima di mettersi a piangere ancora più disperatamente e annuire. Sesshomaru gli fece scorrere piano la mano sui capelli, simulando una leggera carezza.

- Ti fa male? – indicò poi con lo sguardo la sbucciatura che aveva sul ginocchio, che ancora sanguinava.

Keiichi abbassò lo sguardo, sforzandosi di trattenere i singhiozzi e rifletté con serietà sulla domanda premurosa che gli era stata posta. Realizzò improvvisamente che in effetti non aveva alcun motivo per piangere: il ginocchio aveva bruciato solo un po’ durante la caduta, ma il dolore era passato subito. Strofinandosi forte gli occhi per asciugarli completamente dalle lacrime, negò con convinzione e Sesshomaru si lasciò scappare un mezzo sorriso soddisfatto, riconoscendo per un attimo negli occhi ambrati del figlio quella luce di fierezza e orgoglio tipica dei più grandi demoni.

- Bene. – lasciò scivolare la mano, per cercare di farlo sistemare meglio tra le sue braccia, - Torniamo a casa. -

Keiichi appoggiò lievemente la testa nell’incavo del collo, spiando con la coda dell’occhio se al padre desse fastidio quel suo comportamento, ma Sesshomaru fece finta di niente, mostrandosi invece piuttosto impegnato nelle azioni di riprendere la spada e incamminarsi verso il villaggio. 
Allora Keiichi decise che per una volta poteva anche permettersi di dargli fiducia – in fondo il fatto che non si fosse arrabbiato e che non l’avesse sgridato era un buon segno, no? 
Portò le piccole braccia al collo del demone, stringendo forte la veste nei piccoli pugni, e nascose il volto contro la pelle, non riuscendo ad evitare di sgranare gli occhi per la sorpresa. Gli si strinse maggiormente addosso, strusciando il naso e lasciando che un sorriso di pura felicità illuminasse il suo volto alla semplice costatazione che gli riempì la testa.

Il suo papà era caldo.

 

 

 

- Che è successo?! – gridò Rin precipitandosi fuori dalla capanna, i lineamenti del volto contratti dal puro terrore, - Sta bene? -

Per quanto cercasse di mostrarsi positiva con Sesshomaru sui comportamenti del suo bambino, sapeva benissimo che Keiichi nutriva un forte timore nei confronti del genitore, timore che lo portava ad evitarlo, se possibile, come la peste. 
Sapeva inoltre che Sesshomaru, da orgoglioso demone quale era, non avrebbe mai preso in braccio suo figlio di ben tre anni, in nome del fatto che il bambino avrebbe dovuto farsi le ossa, per non crescere debole e avere così problemi in futuro. 
Fu esattamente per questi fondamentali motivi che la visione del demone, che camminava stringendo un Keiichi avvinghiato al suo collo, ebbe per un attimo il potere di farla letteralmente morire di paura.

- Tesoro, stai bene? – chiese ancora accarezzando i capelli del suo bambino.

Il piccolo mezzo-demone annuì appena, tenendo la testa ben nascosta nell’incavo del collo del genitore, mentre Rin rivolgeva a Sesshomaru l’ennesimo sguardo preoccupato, pretendendo tacitamente delle spiegazioni.

- Lo ha attaccato un demone nella foresta. Sta bene, non si è fatto niente. -

- Per fortuna. – sospirò di sollievo, ringraziando tacitamente Sesshomaru con un sorriso, - Kei, lo sai che non devi andare nella foresta da solo, te l’ho detto tante volte: è pericoloso e ai demoni che ci sono lì non importa niente che tu sia solo un bambino. – gli accarezzò la testa, non riuscendo però a mostrarsi arrabbiata di fronte al piccolo broncio, un po’ colpevole, un po’ infastidito, che il suo bambino aveva messo su.

- ‘Cusa mamma, non lo faccio più. –

- Va bene, non importa, ciò che conta ora è che tu stia bene. Vuoi venire ad aiutare la mamma a preparare qualcosa da mangiare per pranzo? – gli domandò poi preparandosi a prenderlo in braccio, ma subito il bambino strinse con più forza le braccia intorno al collo del padre, negando ripetutamente con la testa.

- Non ti va di aiutare la mamma? – chiese ancora perplessa e un po’ dispiaciuta.

Keiichi adorava aiutarla a cucinare, ma soprattutto Rin era abituata al fatto che lui la seguisse sempre. Trovava strano che improvvisamente il piccolo non volesse stare in sua compagnia. Guardò Sesshomaru, sperando che lui sapesse qualcosa e che le potesse dare una spiegazione, ma il demone era sorpreso quanto lei. Da quanto poteva ricordare, quella era la prima volta che Keiichi non voleva seguire la madre.

- Che cosa vuoi fare allora? – gli domandò Rin, sorridendogli incoraggiante.

Keiichi biascicò qualcosa di incomprensibile, fondendo parole e lasciando che il suono si scontrasse contro l’incavo del collo di Sesshomaru, uscendo fuori ovattato.

- Keiichi non ti preoccupare, puoi dire tutto quello che vuoi. Anche il papà è d’accordo, vero Sesshomaru? – lo spronò ad incoraggiarlo a sua volta e in un attimo il demone si trovò un penetrante sguardo ambrato, identico al suo, puntato nei suoi occhi in attesa di una mossa.

Annuì piano senza dire nulla, non sapendo quale fosse il modo giusto per comportarsi in una situazione come quella che stava vivendo. Keiichi parve soddisfatto e dopo aver abbassato lo sguardo e stretto tra i pugni la veste, raccolse tutto il suo coraggio.

 - Voglio stare con papà. – disse e per Sesshomaru fu quasi come ricevere un pugno nello stomaco.

Fissò Rin con l’espressione più sorpresa che avesse mai fatto in vita sua e la trovò a sorridere emozionata, sicuro che si stesse trattenendo per non mettersi a saltare di gioia, mentre con gli occhi gli intimava di dire qualcosa, una qualsiasi cosa, purché non rimasse immobile come uno stoccafisso. Ma lui non era davvero in grado di dire nulla. 
Teneva tra le braccia quel bambino così simile a lui d’aspetto, ma così diverso caratterialmente e temeva che una sua sola parola avrebbe distrutto quell’atmosfera di fiducia che sembrava aver conquistato a fatica, senza saper bene come.

- Posso? Non ti disturbo! Starò buono e zitto, promesso! Non ti darò fastidio… - lo sentì chiedere pieno di speranza e l’istinto prese il sopravvento.

- Va bene. – rispose e si ritrovò inconsciamente ad abbozzare un sorriso, alla vista di quegli occhi che si riempivano di entusiasmo, diventando ancora più grandi.

- E a te mamma? A te va bene se oggi sto con papà? Non ti arrabbi? Non diventi triste? – la tartassò di domande, preoccupato di ferirla in qualche modo, mentre Sesshomaru veniva inondato da un intenso calore al suono di quella semplice parola, pronunciata solo per la seconda volta.

- No tesoro mio, sono tanto tanto felice se stai con papà. – si avvicinò per posargli un lieve bacio sulla testa, facendolo ridere contento.

Keiichi allora si sbilanciò, portando un braccio a cingere anche il collo della madre e stringendo forte, costrinse entrambi ad avvicinarsi a lui, esprimendo con quell’abbraccio tutto l’amore che provava per loro.

Quel giorno Sesshomaru si sentì per la prima volta un padre e comprese chiaramente, come non aveva mai fatto prima, cos’era a spingere Inuyasha a compiere una folle assurdità come aspettare una femmina per quasi mezzo millennio. Per vivere quell’unico momento, lui sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa.

Quel giorno Sesshomaru agli occhi di suo figlio divenne un eroe.

 

 
 

***

  

 

[Anno 1624]

 

- Dai Kei, muoviti! Andiamo a giocare! –

Ogni mattina era sempre la stessa storia, ma quel giorno in particolare il suo migliore amico si doveva essersi svegliato con il preciso scopo di esasperarlo, altrimenti non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che, in appena trenta minuti, avesse già vagliato mille e più modi per farlo fuori e tappargli la bocca per sempre.

Daisuke si era presentato a casa sua praticamente all’alba, rubandogli la colazione da sotto il naso, sotto lo sguardo divertito di Rin che si era gentilmente offerta di preparare altro cibo in più, giustificando poi quel suo continuo approfittarsi della loro ospitalità con la solita scusa: la sua casa era costantemente invasa da un esercito di minuscole calamità sbraitanti, che si divertivano a torturarlo e a rubargli tutto il cibo.

A dire la verità Keiichi non se la sentiva neppure tanto di biasimarlo: lui era figlio unico e non poteva neppure lontanamente immaginare come fosse avere dei fratelli. Quando era molto piccolo ricordava di averne avuto per un po’ il desiderio, ma adesso sentiva di essere più che soddisfatto della sua condizione di figlio unico. Anche perché, con l’esempio che in tutti quegli anni gli avevano fornito suo padre e suo zio, aveva finito col dedurre una cosa fondamentale: e cioè che c’era poco da stare tranquilli nell’avere un fratello. Visti i suoi geni, probabilmente se l’avesse avuto, quest’ultimo lo avrebbe odiato a morte o avrebbe tentato di ucciderlo nel sonno.
Quando si soffermava a pensarci, Keiichi era davvero contento di essere figlio unico.

Un discorso completamente diverso era invece quello di Daisuke, la cui famiglia costituiva, praticamente da sola, la metà della popolazione del villaggio, tanto che appena pochi anni prima, per non rischiare un’implosione in grande stile, era stata costretta a trasferirsi in un’abitazione che sembrava in tutto e per tutto un castello.  
Le due primogenite di Sango e Miroku si erano ormai sposate da diverso tempo e praticamente da subito avevano iniziato a fare a gara a chi delle due sfornasse più marmocchi urlanti – uno peggio dell’altro, a sentire Daisuke. Non si erano però trasferite in un altro villaggio o in un’altra abitazione, no, avevano anzi fatto in modo di restare il più possibile vicino alla casa dei genitori, facendosi regalare un’ala apposita di quella gigantesca villa.
Sango e Miroku si erano così ritrovati a fare i nonni a tempo pieno, con un esercito di marmocchi, che richiedeva a gran voce le loro attenzioni e il più totale disappunto di Daisuke, che mal tollerava i bambini.

In più Daisuke era costretto a vivere con suo fratello maggiore - copia sputata di suo padre - che si divertiva un mondo a torturarlo, solo perché, a ben undici anni, non aveva ancora chiesto ad una ragazza di fare un figlio. Hiroshi era stato un maniaco precoce e Miroku ne era sempre stato immensamente fiero, se non per un piccolissimo particolare che aveva iniziato di recente ad impensierirlo: il figlio infatti aveva ormai ventitré anni e di sistemarsi seriamente neppure l’intenzione.

Per concludere in bellezza poi i suoi genitori, sicuramente resi folli da quella mandria di nipotini che allietava (torturava) le loro giornate, avevano deciso di avere un altro bambino. E così, appena tre anni prima, era nato Kouta. Il bambino più insopportabile, capriccioso e impiccione che Daisuke avesse mai avuto la sfortuna di incontrare. A mettere a dura prova la sua pazienza, c’era poi il fatto che i genitori costringessero sempre lui ad occuparsene - neanche fosse suo figlio!

Inoltre la nuova casa era divenuta il luogo di ritrovo di tutti quei conoscenti o familiari, che si erano, per vari motivi, allontanati dal villaggio, ma che tornavano di tanto in tanto a far visita. Così capitava spesso che, per qualche mese all’anno, fossero loro ospiti Kohaku con tutta la sua famiglia al seguito e Shippo, che di volta in volta tornava con qualche nuova conquista.

Tra una cosa e l’altra, Daisuke finiva sempre per passare le giornate a casa del suo migliore amico o in giro per il villaggio, deciso più che mai a farsi torturare il meno possibile da quella strana e sadica famiglia in cui era nato. 
Quella mattina in particolare poi doveva aver davvero raggiunto il limite di sopportazione, visto con quanta forza lo stava trascinando in giro: dopo aver finito l’abbondante colazione infatti lo aveva preso per la manica della veste e se lo era portato dietro di peso per tutto il villaggio. 
Quando Keiichi aveva capito le sue intenzioni di andare in piazza a giocare con altri bambini, loro coetanei, aveva puntato i piedi con forza, arrivando addirittura a sedersi per terra, pur di non muovere un altro passo.

- Non mi va per niente! – protestò indispettito, - Perché dobbiamo andare da quelli? Potevamo starcene per i fatti nostri! Anche tuo fratello voleva che rimanessimo con lui… potevamo anche accontentarlo per una volta. – continuò, alludendo a ciò di cui l’amico, solo pochi minuti, prima si era lamentato.

- È un moccioso di tre anni, Kei! Piange subito appena gli dici qualcosa e poi è appiccicoso! È più divertente così, fidati! –

- Dais’ke, dico sul serio, non mi… –

- Avanti andiamo, ci divertiremo! – riprese a trascinarlo sicuro di sé, non accorgendosi dello sguardo affranto che Keiichi gli rivolse, costretto a seguirlo in mancanza di solide argomentazione, con cui apporre il suo categorico rifiuto.

Arrivarono nella piazza in pochi minuti, dove una decina di bambini in tutto stava cercando di dividersi in due gruppi, in un fragore generale di urla, che tentavano di sovrastarsi a vicenda.

- Ciao ragazzi! Possiamo giocare anche noi? – esordì Daisuke, salutandoli con la mano e avvicinandosi al centro del gruppo.

Keiichi rimase indietro, leggermente nascosto, con lo sguardo basso, ancorato ai ciottoli di pietra, presenti lungo tutto il perimetro della piazza, per nulla intenzionato ad attirare l’attenzione su di sé. Ma per quanto volesse scomparire, era fin troppo visibile, con quei capelli argentati, che si notavano a metri e metri di distanza e quegli occhi ambrati troppo brillanti per non catturare gli sguardi della gente. Per non parlare poi di quelle orecchie…

Li vide subito e ancor prima di vederli, lo avvertì chiaramente, il presentimento di ciò che stava per succedere. Non era la prima volta, ma fino a quel momento era sempre riuscito, bene o male, a nasconderlo, a fare in modo che nessuno della sua famiglia se ne accorgesse. Questa volta non sarebbe riuscito ad evitarlo. 
Quattro bambini si staccarono dal gruppo, avvicinandosi a loro con uno sguardo di disgusto negli occhi e un ghigno di sfida sulle labbra.

- Certo, vai pure dagli altri a giocare. – esordì ghignando malignamente uno di loro, che a occhio doveva essere il più grande del gruppo, rivolgendosi direttamente a Daisuke.

Keiichi lo vide sussultare sorpreso e in un attimo si ritrovò a guardare i suoi occhi confusi, che chiedevano spiegazioni. Non gli rispose.

- C’è forse qualcosa che non va? – si azzardò allora a domandare Daisuke, accorgendosi improvvisamente del comportamento astioso che quei quattro mostravano. Non gli piaceva per niente quell’atmosfera.

- Kei, vieni. – continuò poi, intenzionato a non prestare loro più attenzioni, per dirigersi insieme dal resto del gruppo, ma quello stesso bambino gli si parò davanti, bloccando il passaggio.

- Temo proprio che non ci siamo capiti. –

- No, infatti. Non vi capisco. –

- Che c’è, sei forse stupido? – lo schernì un altro bambino ridendo.

- Hibiki, certo che è stupido, altrimenti perché mai dovrebbe accompagnarsi ad un disgustoso mezzo-demone? –

Keiichi sussultò. Poi vide solo Daisuke stringere i pugni e avvicinarsi ancora di più a quei quattro.

- Prova a ripeterlo se hai il coraggio. -

- Che cosa? Che sei stupido o che il tuo amichetto è un disgustoso mezzo-demone? –

Daisuke lo afferrò per le vesti, pronto a colpirlo, ma il bambino più grande si mise in mezzo allontanandoli.

- Calma calma, non è necessario scaldarsi così. Te l’ho già detto, non abbiamo problemi con te: tu puoi giocare tranquillamente, ma lui deve andarsene. Sai com’è, vorrei evitare di respirare la sua stessa aria. Anzi, lo vorremmo tutti. Non abbiamo bisogno che uno schifoso mezzo-demone appesti il nostro villag… -

Lo colpì con tutte le sue forze. Non gli sarebbe importato niente di rompersi una mano, se il giorno seguente avesse avuto la possibilità di vedere quel ragazzo girare per il villaggio con il naso rotto e sanguinante.

Vide gli altri tre tentare di aiutarlo, mentre questo urlava e piangeva per il dolore. Subito Daisuke si girò con un ghigno di trionfo verso l’amico, ma lui non c’era più.

 

 

 

Keiichi si era allontanato il più possibile, a passo svelto, senza voltarsi indietro neppure una volta, ignorando la gente che incrociava sul suo cammino, evitando i loro sguardi, ma immaginandone i pensieri nella testa.

Si fermò solo quando fu fuori dal centro abitato, lì dove iniziava la distesa di campi coltivati, a ridosso della foresta. Si fermò e solo in quel momento si accorse di Daisuke, che lo aveva inseguito correndo e che ora, con i palmi delle mani poggiati sulle ginocchia, tentava di riprendere fiato, facendo profondi respiri.

- Che ti è preso, si può sapere? Scappare in quel modo… - riuscì a dire con il cuore a mille, guardandolo di sottecchi.

Keiichi non rispose. Si limitò a fissare il terreno, gli occhi di un colore più chiaro del solito, più gelido, ridotti a due fessure, la mente altrove.

- Perché non hai detto niente? Quegli idioti ti insultano e tu te ne resti in silenzio, senza muovere un muscolo… perché?! Non puoi farti trattare in questo modo! -

- Non sono affari tuoi. – sibilò, accompagnando quelle parole con un’occhiata di puro gelo, intenzionato da subito a non sostenere oltre quella conversazione.

Gli diede le spalle, deciso ad allontanarsi, inconsapevole del dolore che quella frecciata aveva provocato nell’amico.

- Che diavolo stai dicendo?! Ti vuoi fermare?! Keiichi! – lo afferrò per una spalla, strattonandolo con forza e costringendolo a voltarsi per guardarlo negli occhi, quelli occhi così inespressivi e freddi, che sembravano davvero due pezzi di ghiaccio.

- Sono affari miei, sì, razza di idiota! - lo spinse ferocemente, rischiando quasi di farlo cadere, - Non possono comportarsi così! Dovremmo dirlo ai nostri genitori, se non ti va di dirlo a tuo padre potremmo rivolgerci al mio o a tuo zio. Non è giusto che… -

Le parole gli si spezzarono in gola in un gemito di dolore. Si ritrovò con la schiena premuta con forza contro il tronco di un albero e il respiro mozzato.

- Taci. – gli intimò Keiichi, tenendolo per le vesti all’altezza del collo, - Noi non faremo proprio un bel niente. Terrai la bocca chiusa e faremo finta che oggi non sia mai esistito. Sono stato chiaro? -

Daisuke scrollò le spalle, deciso a non dargliela vinta, sostenendo quella sfida, guardandolo dritto negli occhi senza alcun timore, allontanandolo poi da sé con una spinta.

- Ma non è giusto, non capisci?! Non possono trattarti così! Solo perché sei un mezzo-demone, ma che significa?! Non mi importa di quello che pensi, non posso restare fermo senza fare niente! Tu sei il mio migliore amico! –

Keiichi si riscosse a quelle parole, distogliendo immediatamente lo sguardo da quello furioso dell’altro, sentendo il senso di colpa crescere dentro di lui. Daisuke d’altro canto sospirò, cercando di recuperare la calma, per non far precipitare nuovamente la situazione.

- Perché non vuoi farlo sapere? –

- Dais’ke, a me non importa, va bene? Non mi importa niente. –

- Che vuol dire che non ti importa? –

- Non sto cercando di farmi altri amici: ho già te e mia madre, mio padre, Inuyasha, la tua numerosissima famiglia, per non parlare della marea di conoscenze che vanno e vengono periodicamente dal villaggio come niente. Ho tutto quello che desidero e non mi serve che degli idioti come quelli mi accettino. Perciò, per favore, dimentica tutto. Non c’è bisogno di alzare un polverone per una cosa che non ha la minima importanza. –

- E tu stai bene? Stai davvero bene così? – gli domandò perplesso, studiando attentamente ogni sua espressione per capire se fosse la verità.

- Sì. – annuì e gli sorrise riconoscente, sicuro che l’altro non avrebbe indagato oltre, né sarebbe andato contro il suo volere.

Ripresero a camminare, uno accanto all’altro, entrambi in totale silenzio, impegnati a fare il più possibile finta di niente, per mascherare il leggero imbarazzo e il senso di colpa per quell’incomprensione che avevano avuto. Tra loro non c’erano mai stati in passato screzi come quello, soprattutto perché riuscivano a far diventare ogni più piccolo battibecco un gioco e questo grazie al fatto che bastava una singola occhiata per capirsi alla perfezione. Per questo motivo Keiichi sentiva chiaramente di aver esagerato, dicendo delle cose che non pensava, spinto unicamente dalla rabbia. Non si sarebbe mai perdonato, se qualcosa avesse incrinato la sua amicizia con Daisuke.

- Non dirai niente allora, me l’hai promesso, giusto? – ruppe ad un tratto il silenzio, una volta nei pressi della sua casa, sforzandosi di trovare un modo per riportare le cose alla normalità.

- Dire cosa? – sorrise sghembo Daisuke, mettendo poi su una perfetta e assolutamente credibile aria pensierosa, - Non è successo niente, no? –

E Keiichi non poté fare a meno di sorridergli riconoscente, tirando un sospiro di sollievo.

- A proposito, sai che quando ti arrabbi, sei davvero uguale a tuo padre? Per un attimo i tuoi occhi mi sono sembrati i suoi. Avevo quasi paura che volessi uccidermi. – lo prese in giro Daisuke, riportando alla mente quell’immagine, che aveva avuto il potere di farlo rabbrividire.

- Idiota! Ti pare che potrei ucciderti così!? Non sarebbe leale! Magari in un combattimento… – gli rispose con un’alzata di spalle, ghignando appena alla faccia indignata dell’altro.

- Ma… ma che razza di amico che mi ritrovo! E poi grazie tante per la considerazione! Come se fosse così facile sconfiggermi! –

- Ma davvero? Che strano… eppure ricordo bene che da bambini non resistevi cinque minuti a combattere contro di me. Com’è che dicevi? “Non vale Kei! Io non sono un mezzo-demone! Non riuscirò mai a sconfiggerti!” –

- Ti stai inventando tutto! – arrossì per la vergogna, punto sul vivo.

- E quella volta che ti sei quasi spezzato l’osso del collo, dopo esserti arrampicato su un albero, solo perché avevi avuto la brillante idea di cogliermi di sorpresa? –

- Hei, non è stata colpa mia se il ramo si è spezzato! – protestò Daisuke imbronciandosi.

- Tua sorella si è incavolata talmente tanto che credevo ci avrebbe ucciso! –

- Già, in quel momento somigliava proprio alla mamma. –

- Pensa, anche lei era più forte di te! –

- Ora basta! Me la pagherai Keiichi, questa è una promessa! Io diventerò il più grande sterminatore di demoni del mondo e allora vedremo se ti prenderai ancora gioco di me. –

- Il più grande sterminatore del mondo, eh? Allora io diventerò più forte di tutti i demoni in circolazione. Supererò tutti e a quel punto combatteremo! –

Fare quella semplice promessa li rese, in qualche modo, ancora più sicuri che sarebbero rimasti amici per sempre, che niente sarebbe mai stato in grado di spezzare il forte legame che li univa.

Keiichi era figlio unico, non aveva fratelli, né li desiderava, ma in quel momento, pensando all’idea di un fratello, si rese conto di pensare a Daisuke.  

 
 

  

***

 
 

[Anno 1625]

 

Solo l’anno prima Keiichi aveva creduto fermamente in quelle parole che aveva pronunciato con determinazione e una punta di soddisfazione personale. 

La sua vita gli piaceva molto, gli amici, la famiglia, il villaggio. Sentiva di essere amato ed era consapevole che in tutto l’universo non esistesse un altro luogo migliore di quello in cui viveva: era il suo personale posto nel mondo ed era felice di poterlo condividere con la sua famiglia. 
Per questo, il fatto di essere considerato uno scarto, un disgustoso mezzo-demone, non aveva la minima importanza. Avrebbero potuto dirgli qualsiasi cosa, trattarlo sempre come un escluso, come un pezzente, ma a lui non sarebbe mai importato. Non avrebbe mai messo a rischio la sua splendida vita per qualcosa che non aveva il minimo valore. Aveva infatti capito sin da subito che, anche se non sarebbero state molte le persone capaci di accettare la sua compagnia senza battere ciglio, non aveva alcun senso abbattersi o desiderare di essere qualcosa di differente da ciò che era. Aveva capito che avrebbe dovuto cercare quelle poche persone che lo avrebbero accettato incondizionatamente, senza perdersi d’animo di fronte ad un compito che effettivamente non era proprio il massimo della semplicità.

Non era sicuro che questo suo atteggiamento positivo fosse dovuto all’essere sempre stato circondato, sin da bambino, da persone meravigliose, che lo avevano riempito d’attenzioni e d’amore, ma era sicuro che quello che aveva era troppo importante e appagante, perché delle semplici parole, intrise d’odio, potessero colpirlo, arrivando a ferirlo.

A quel tempo in effetti tutto sembrava semplicemente troppo bello per essere vero e probabilmente fu per questo che, quando sopraggiunse la tragedia, nessuno fu in grado di fare qualcosa che non fosse guardare attonitamente il mondo sgretolarsi in infiniti minuscoli frammenti. 
Fu tutto veloce. Troppo veloce. E se ne accorsero subito, ma era già tardi. Non avrebbero mai potuto fare niente per porre rimedio all’inesorabile scorrere del tempo. Fu semplicemente come risvegliarsi da un sogno, uno splendido sogno, come se gli ultimi tredici anni in realtà non fossero mai esistiti e tutto fosse stato esattamente come allora.

Il dolore, l’angoscia, la malattia.

Avevano accolto la notizia con un sorriso di tristezza sul volto e la disperazione nel cuore, perché non aveva neppure più senso sperare e farsi illusioni. Si trattava solo di aspettare l’inevitabile e anche se faceva così male che avrebbero voluto urlare tutto il loro dolore per strapparlo da sé, non poterono fare altro che nascondere tutto dietro un sorriso carico di amore e sostegno.  
Erano lì per lei, solo questo. Sarebbero sempre stati lì per lei. Ma in realtà, fino all’ultimo, fu Rin ad essere lì per loro, ad impedire che cadessero, distruggendosi in tanti piccoli pezzi, che difficilmente sarebbero stati in grado di rimettere insieme. Li strinse a sé con i suoi sorrisi e il suo entusiasmo, facendo in modo che si appoggiassero gli uni sugli altri o almeno ci provò. Ci provò con tutta se stessa, perché non desiderava che a causa sua la sua famiglia andasse in pezzi, perché voleva vedere la luce della determinazione nei loro occhi, mentre le promettevano che si sarebbero rialzati, che sarebbero andati avanti, prendendosi cura di ciò che lei era costretta a lasciare.

Fu con questi desideri nel cuore che Rin disse loro addio.  

- Ti trovo bene. – esordì Inuyasha imbarazzato, evitando in tutti i modi di guardarla negli occhi.

- Che ti succede? Ti metti a farmi i complimenti, dopo trent’anni che ci conosciamo? –

- Tzè! Scema… - brontolò offeso, ma era palese che non avesse la forza di aggiungere altro, neppure per risponderle a tono.

- Ti ricordi… - iniziò a dire Rin, stuzzicando la sua curiosità, - quel giorno… prima che Keiichi nascesse, prima che Sesshomaru se ne andasse, io ti ho chiesto una cosa. La ricordi? –

Inuyasha la guardò sorpreso, limitandosi ad annuire. Non avrebbe mai potuto dimenticarlo, ma non capiva perché lei gliene stesse parlando proprio in quel momento.

- Lo farai per me? –

E forse fu per il modo in cui lo chiese - con quello sguardo implorante e la voce incrinata che tentava ad ogni costo di mantenere ferma - che non riversò tutta la rabbia e la frustrazione su di lei, accettando invece le sue ultime richieste.

- Te lo prometto. –

Rin gli sorrise felice con gli occhi lucidi e paradossalmente con una forza che non aveva mai avuto prima. C’era tutta la sua gratitudine in quel sorriso e Inuyasha non ne sopportò la vista.

- Inuyasha. - lo richiamò lei per l’ultima volta, - Devi promettermi anche un’altra cosa ed è di vitale importanza. -

- Cosa? – le chiese senza voltarsi, cercando di nascondere le lacrime, che prepotenti tentavano di uscire.

- Continua ad aspettare che gli anni passino, continua a non arrenderti e Inuyasha… trovala. –

Il demone sussultò.

- Mi prometti che continuerai a cercarla, anche se sarà difficile, anche se ti sentirai stanco e sarai sul punto di lasciar perdere? –

Strinse i pugni con il preciso intento di farsi male per non piangere, perché ancora una volta, nonostante non le restasse più tempo, lei pensava a lui, preoccupandosi per il suo futuro. E Inuyasha riusciva solo a pensare che Rin per lui era stata una persona straordinaria, un’amica, una confidente, una sorella, una madre, semplicemente una delle persone più importanti della sua vita.

- Sempre. – rispose con voce spezzata, - La cercherò… sempre. -  

Non l’avrebbe mai dimenticata.

E a qualsiasi costo avrebbe mantenuto quelle promesse: si sarebbe preso cura di Keiichi, impegnandosi con tutte le sue forze per essergli di sostegno, per rappresentare un punto fermo. 
Fu questo che pensò mentre lo vide entrare nella sua casa e sedersi accanto a Rin, con gli occhi gonfi e fortemente arrossati, unico e chiaro sintomo del fatto che erano giorni ormai che le lacrime non smettevano di torturarlo tutte le notti.

- Keiichi, me la fai una promessa? – gli chiese Rin in un sussurro, accarezzandogli piano i capelli e sfiorandogli di tanto in tanto le orecchie. Il mezzo-demone annuì, stringendo con forza il labbro inferiore tra i denti, trattenendo i singhiozzi e le lacrime che sapeva lo avrebbero scosso da lì a poco.

- Promettimi che proverai ad essere felice, anche se non sarà facile, anche se ti sembrerà la cosa più difficile del mondo. – e avrebbe voluto fermarla, interromperla per gridarle che sarebbe stato impossibile, che non ne sarebbe stato in grado, ma l’infinità dolcezza che vide trasparire dai suoi occhi gli bloccò le parole in gola.

- Promettilo! Perché io voglio davvero che tu sia felice. Questo è il mio desiderio più grande. E per quanto riguarda tuo padre… lo sai anche tu com’è fatto, lui si chiuderà completamente, ma non pensare mai che non ti voglia bene. Ricordati solo che lui ti adora. Ti ha sempre adorato e anche se non sa dimostrarlo, ti vorrà bene per sempre, quindi se puoi, abbi pazienza con lui, aiutalo e… fai in modo che ogni tanto gli scappi qualche sorriso, va bene? -

Sentì le lacrime rigargli le guance, senza che avesse modo di fermarle o ricacciarle indietro. Gli occhi erano completamente appannati e il cuore faceva male. Si gettò tra le braccia della madre, singhiozzando disperatamente. Non gli importava di essere un uomo, non gli importava di essere per metà un demone, non gli importava di chi fosse figlio, del cognome, dell’orgoglio, dell’onore o di altre parole che al momento gli apparivano totalmente prive di significato.

In quel momento c’era solo lei, la persona che amava di più al mondo e lei stava per andarsene via, per sempre.

- Keiichi… non so dirti quanto sia felice di aver potuto trascorrere questi anni con te. Essere tua madre è stato il regalo più grande che la vita mi abbia fatto e sono felice… sono così felice di averti conosciuto… - gli disse con la voce incrinata, - grazie, grazie davvero, per tutto. -

Rin lo strinse a sé cullandolo con dolcezza, come quando era piccolo, continuando a sorridergli incoraggiante, mettendo in quel semplice abbraccio tutte le parole che avrebbe voluto dire, ma che era troppo difficile pronunciare. 
Rimasero abbracciati per ore, ignorando ogni cosa che non fosse il loro reciproco calore, finché alla fine Keiichi non crollò esausto, addormentandosi in quell’abbraccio, sentendosi in pace per la prima volta, da quando l’ombra della morte si era affacciata nelle loro vite.

Fu Sesshomaru a portarlo in un’altra stanza, per lasciarlo riposare tranquillamente, mentre prendeva il suo posto accanto a Rin. E non disse una sola parola, per tutto il tempo. Né ci sarebbe stato niente di strano in questo, se non fosse che Rin era sempre stata in grado di vedere oltre la sua scorza di gelida indifferenza e in quel momento riusciva a vedere chiaramente che il demone, che aveva davanti, era diverso da quello che negli ultimi anni le era stato accanto. 
Non gli chiese di tornare ad essere la persona che amava, non le importava che lui la stesse allontanando. Lo conosceva troppo bene ormai e poteva capire ogni ragione, ogni perché, dietro i suoi comportamenti.

- Ti amerò per sempre. – gli disse semplicemente, dando voce a tutto ciò che si dicevano continuamente in silenzio.

E avrebbe voluto dirgli altre cose, alcune stupide, altre importanti, ma la realtà era che non poteva dire altro. Semplicemente perché tutte le parole del mondo non avrebbero avuto alcun significato, non in quel momento, non con lui che si era richiuso in se stesso, tornando la persona di quel passato lontano che non aveva conosciuto, solo per la speranza di proteggersi.

Gli sorrise e Sesshomaru abbassò lo sguardo.

Per la prima volta in tutta la sua vita fu debole e come un qualunque essere umano si spezzò, ma non gli importò.

 

 

 

Quel giorno pioveva, così come continuò a piovere per i tre giorni successivi. Il sole sembrava esser diventato ormai un lontano ricordo, mentre i campi si allagavano, distruggendo il raccolto e i fiumi si inondavano.

Si chiedevano, sperando e pregando, se sarebbe mai tornato ad illuminare i loro volti stanchi e sofferenti, portando con sé magari un flebile sorriso, ma il sole restava nascosto e le lacrime solcavano il viso, fondendosi con quelle gocce di pioggia che le facevano scivolare veloci fino a terra.

Sesshomaru guardava quel piccolo cumulo di terra con occhi vitrei, totalmente inespressivi. La cosa più preziosa se ne era appena andata e niente avrebbe più potuto portarla in vita.
Non seppe di preciso come o perché, ma si ritrovò a pensare al passato, al suo passato e un sentimento di odio lo colse impreparato. Da quanto tempo non provava odio? 
Era cambiato, si era lasciato cambiare, scegliendo di vivere una vita diversa, piena, forse felice e ora che tutto era tornato come prima, ora che era nuovamente solo, non ricordava più come fosse la sua vita prima di incontrare Rin.

Come era riuscito ad andare avanti, a vivere, a camminare? Che cos’era che lo avevo spinto? Possibile che non lo ricordasse? E se non fosse riuscito a ricordarlo, come avrebbe fatto ad andare avanti?

Si odiava per questo, per essersi permesso di cambiare. E odiava Rin. In quel momento odiava Rin, perché aveva stravolto il suo mondo e il suo modo di essere: lo aveva cambiato e lo aveva lasciato solo, a fare i conti con una coscienza con cui solo lei era mai stata capace di andare d’accordo.

Sentì la presenza degli altri dietro di sé e lasciò che il suo sguardo si posasse sulla foresta e poi vagasse oltre, fin dove riusciva a vedere, verso i territori dell’ovest e i luoghi da cui proveniva. Lontano da quel villaggio, dagli esseri umani, dai legami e da tutto ciò che era stato semplicemente trasformato in un cumulo di terra e pietre.

Mosse un primo passo verso quella nuova vita, che aveva l’amaro retrogusto del passato - la vita senza di lei. E sentiva di non aver guadagnato niente, ma di aver perso tutto, mentre muoveva un secondo passo e poi ancora un terzo.  

- Papà… - sussurrò Keiichi, non distogliendo gli occhi da lui e subito il suo cuore sembrò volersi arrestare, mentre si sentiva sprofondare, trascinato a fondo nelle profondità dell’oceano, dove l’unica cosa che poteva fare era continuare ad annaspare, cercando di combattere inutilmente quella forza che voleva a tutti i costi impedirgli di risalire e respirare.

- Papà. – lo chiamò di nuovo, con una nota di urgenza nella voce, ma Sesshomaru non la avvertì o non volle fermarsi.

Sentì le gambe tremargli e allora gli corse incontro, sentendo il panico crescere ogni secondo di più.

- Keiichi. – tentò di richiamarlo Inuyasha, ma non gli importava.

- Papà! Aspetta! – lo raggiunse bloccandogli il passaggio, - Dove stai andando? Perché? Io non… -

Rimase a specchiarsi nei suoi occhi, senza trovare il coraggio di aggiungere altro, sicuro che anche una sola parola lo avrebbe fatto andare in pezzi. 
E Sesshomaru continuava a guardarlo, ma in realtà non era lì. Non era più lì da quando Rin si era ammalata. Non c’era dolore, non c’era rabbia, non c’era tristezza o dispiacere in quegli occhi che avevano perso improvvisamente tutta la loro profondità. C’era solo il vuoto, un immenso e terrificante vuoto. Sesshomaru stava annegando, proprio come lui, veniva trascinato a fondo, ma non opponeva resistenza, lui ormai non combatteva più, lasciava solo che fosse la corrente a condurlo nell’oscurità più intensa.

- Keiichi. – sentì Inuyasha che lo affiancava preoccupato e come lui ora guardava Sesshomaru, incapace di dare voce ad uno qualsiasi dei pensieri che gli affollavano la mente.

Sesshomaru li superò, ignorando le mille domande che leggeva nei loro occhi.

Keiichi guardò il profilo delle sue spalle allontanarsi e il pensiero della sua famiglia, di loro tre insieme, gli arrivò forte come una pugnalata nel petto.

Se ne stava andando. Anche lui lo stava abbandonando, proprio come aveva fatto lei. La sua perfezione, la sua casa, il suo mondo, tutto era in pezzi.

- Ti prego. – sussurrò e nella sua mente urlò e implorò che si fermasse, che sua madre lo aiutasse, che impedisse a Sesshomaru di andarsene e lasciarlo solo. Ma Sesshomaru non tornò indietro. Guardò solo Inuyasha, per l’ultima volta.

- Prenditi cura di lui. – disse. E se ne andò.

Il silenzio li avvolse completamente. Nessuno aveva più la forza per parlare o semplicemente per credere – credere che le cose sarebbero andate meglio, che tutto in un modo o nell’altro si sarebbe aggiustato. Erano tutti troppo stanchi.

- Andiamo Keiichi. Torniamo a casa. – lo chiamò Inuyasha, posandogli una mano sulla spalla e aspettando di sentirlo muoversi.

Keiichi camminò, per la sola forza di inerzia, strusciando i piedi e sentendo ad ogni passo di più la sua coscienza farsi lontana. Sentì distrattamente la presenza di Sango e Daisuke affiancarlo, poi più nulla. Ogni suono, ogni rumore era completamente scomparso. Intorno a sé l’oscurità più totale e nella testa il martellare insistente di un unico, logorante pensiero.

Avrebbe ancora avuto una casa?

 

 
 

 

 

 

Rin, 1588 – 1625

 

 

 

 

 
 

 

 

Angolino di Aredhel

 

 

Tutte le volte che ho letto il capitolo per correggerlo, questo finale mi ha lasciato leggermente scossa e con le lacrime agli occhi, quindi immagino che anche per voi sia stato un po’ una mazzata in pieno stomaco.

Potrei dirvi tante cose su questo capitolo, ma non dirò niente, per lasciarvi digerire con calma la suddetta mazzata e perché sono profondamente curiosa di sapere l’effetto che ha avuto su di voi: ascoltare le vostre opinioni, lamentele, critiche, minacce di morte o magari apprezzamenti (ma dove?! -_-)

Vi dirò soltanto che mi dispiace di averci messo tanti mesi per scriverlo, ma la verità è che questo capitolo non era previsto: Rin sarebbe dovuta morire subito e Keiichi sarebbe dovuto essere già grande. Invece semplicemente mi è venuta voglia di immaginarlo da piccolo e di regalare a tutti loro tredici anni pieni di gioia, prima di distruggere le loro vite. Inoltre, come potete notare, è un capitolo chilometrico, il più lungo che abbia mai scritto a dire la verità, ma non mi era possibile in alcun modo spezzarlo in due parti.

Vi comunico, infine, che siamo ufficialmente a metà di questa strampalata storia, nata per gioco come one-shot (sì, la cosa mi sconvolge ancora). Il prossimo capitolo non arriverà prima di giugno purtroppo, ma vi anticipo che si intitolerà “Il figlio di un altro” e beh… che saranno passati cinque anni dalla morte di Rin.

Un bacio grande a tutti,

Aredhel *che vi vuole tanto bene e spera davvero di non morire* <3 <3 <3

  
Altre informazioni generali:

Keiichi - Figlio prezioso come un gioiello.
Daisuke - Grande aiuto
Hibiki - Eco, suono

Kouta - Grande pace
Hiroshi - Generoso, tollerante; prospero.

Tatami: ho scoperto che in Giappone, fino al 1800 inoltrato, non esistevano le culle per i neonati. I bambini dormivano, come tutti, su dei normalissimi tatami (da Wikipedia: un tipo di pavimentazione, composta da pannelli rettangolari affiancati, fatti con paglia di riso intrecciata e pressata), l’equivalente dei nostri letti, insomma. :P
Inoltre prima del 1600 il tatami era in uso solamente presso le abitazioni dei nobili, ma con lo shogunato Tokugawa, il loro utilizzo si è esteso rapidamente a tutti, quindi ho supposto senza troppi problemi che per Rin fosse più che normale averne uno dentro casa.

Vi avevo promesso un disegno di Keiichi appena nato, ma non riesco ad inserirlo su efp perché il formato è troppo grande. Chi di voi è sul gruppo di Vanilla91, avrà la possibilità di vederlo lì. :)

 

  
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