Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
Segui la storia  |       
Autore: ___Ace    30/04/2014    3 recensioni
Piccola Raccolta riguardante la vita incasinata di Ace, studente universitario, e quella ordinata di Marco, ragazzo all'apparenza pacato e normale, entrambi incontrati per caso durante un'anonima, ma fatidica, giornata in un'accogliente caffetteria.
*
1. Una bella giornata: Quando il suo sorriso si aprì e divenne più ampio, decisi che quella era senza dubbio una bella giornata.
2. Quel ragazzo dell'altro giorno: Sghignazzai fiero, mentre dentro di me mi sentivo lusingato dall’aver scoperto che si ricordava del nostro incontro. Voleva dire che gli avevo fatto una certa buona impressione, tutto sommato.
*
Ace/Marco.
Genere: Comico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Marco, Portuguese, D., Ace
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 54. Una ciurma di sbandati.

 

Era stata una lunga ed estenuante battaglia, quella mia e di Marco, una lotta continua sia di giorno che di notte. Beh, forse la notte era più un intricato e contorto groviglio di lenzuola e frecciatine lanciate a mezza voce di tanto intanto, ma comunque sempre di una discussione si trattava, qualunque fosse il modo in cui si svolgeva. Alla fine la guerra l’aveva vinta lui, purtroppo, che di diplomazia, oratoria e corruzione ne sapeva più di me, così era riuscito a mettermi nel sacco e a convincermi a concedergli almeno una possibilità.
Ecco perché, in quel momento, mi trovavo seduto in macchina con lui nell’attesa che un enorme cancello si aprisse per lasciarci libero ingresso ad un vialetto in ghiaia che portava dritto dritto di fronte all’entrata della una casa, se così poteva chiamarsi una costruzione a dir poco enorme, dove risiedeva la maggior parte della famiglia di Marco. In poche parole stavo per affrontare quell’incontro che tutti i fidanzati temevano, ovvero la conoscenza dei parenti più stretti della propria anima gemella, una tradizione, a detta mia, barbara e crudele. Insomma, pazienza io che di fratello ne avevo uno, ma Marco vantava la bellezza di una numerosa cucciolata di orfani alle spalle, nonché un genitore leggendario in città, e praticamente io, povera anima pia, dovevo fare attenzione a non suscitare le antipatie di una ventina di persone o poco più.
Mentre Marco avanzava lungo la via con un sorriso incoraggiante stampato in faccia, più per convenienza che per altro, perché sapevo che anche lui era nervoso per qualche arcano motivo che non voleva rivelarmi, io pensavo a quante possibilità avevo di svignarmela da quella prigione. Forse, se avessi inscenato un malore o un improvviso infarto di mio nonno avrei potuto darmela a gambe, ma avevo come la sensazione che nessuno, oltre a non credermi, mi avrebbe permesso di evitare quella cena.
La testa d’ananas parcheggiò poco lontano dall’entrata, accanto ad un altro paio di auto e, con un sospiro, spense il motore per poi voltarsi verso di me. «Siamo arrivati» comunicò pacato, scrutando attentamente la mia reazione.
Torturandomi un labbro non mi preoccupai nemmeno di smettere di fissare un punto indefinito davanti a me e, passandomi freneticamente una mano tra i capelli che nemmeno avevo tentato di pettinare per farli apparire presentabili, annuii leggermente con il capo. La verità era che stavo pianificando di scappare attraverso i campi che circondavano la tenuta.
Purtroppo per me il biondo intuì le mie patetiche intenzioni di fuga e, aprendo la portiera per scendere, mi dedicò un’occhiata ammonitrice. «Non provarci nemmeno».
Sbuffai, maledicendo lui e tutta la sfilza di fratelli e sorelle che aveva, soprattutto Thatch che mi aveva stressato per un mese intero, tessendo le lodi della famiglia e presentando tutti loro come se fossero stati dei principi e delle icone delle buone maniere. Non aveva capito che era bastato lui stesso a far crollare tutte le sue chiacchiere montate per aria.
Sbuffando affranto lasciai che Marco mi facesse strada e lo seguii con l’aria di un prigioniero diretto al carcere per scontare la sua pena fino alla porta principale dove si fermò a suonare il campanello e ad attendere che qualche ignoto venisse ad aprirci.
«Ehi» mi chiamò, alzandomi il mento con due dita visto che io non avevo dato cenno di averlo sentito, «Andrà tutto bene» disse, sorridendomi gioviale.
Se non fossi stato tanto ansioso e sul punto di svenire mi sarei soffermato a pensare a quanto bello fosse in quel momento e a quanto fortunato ero stato quel giorno di tanti mesi prima, quando avevo deciso di fermarmi in un bar qualsiasi a bere un caffè per dimenticare un’orribile giornataccia. Giornataccia che era cambiata in meglio.
Feci un respiro profondo, più che deciso a tirare fuori il coraggio e a dirgli che si, lo sapevo che non mi avrebbe ucciso nessuno, ma venni interrotto sul più bello perché la porta venne aperta di colpo e un baccano assordante mi arrivò alle orecchie facendomi impietrire. C’era così tanta gente?
«Finalmente!» urlò Thatch, sdegnando il fratello e imprigionandomi l’istante dopo in una morsa d’acciaio. Il suo braccio era guarito alla perfezione, buon per lui ma non per le mie ossa. «Forza ragazzino, ti stanno aspettando tutti!» affermò convinto, trascinandomi dentro senza badare ai miei tentativi di staccarmelo di dosso e lasciando Marco sulla soglia a sospirare con aria quasi disperata. Ero certo che quando mi aveva descritto i suoi famigliari avesse omesso di raccontarmi i particolari più inquietanti solo per tenermi tranquillo.
Continuò a parlare e a strattonarmi lungo un corridoio illuminato e arredato con mobili dall’aspetto eccentrico e particolare, come se fossero stati fatti per attirare l’attenzione. Mi lanciai qualche occhiata sorpresa e un po’ scettica: se fosse dipeso da me, avrei fatto un bel falò e avrei provveduto a rifare tutto l’arredamento, ma pazienza, la casa non era mia e grazie al Cielo non avevo quel tipo di problemi o pensieri, come decidere quale cassapanca comprare e quale no, quella era roba per coppiette vomitevoli. Insomma, stavo anche troppo bene nel mio appartamentino con i ragazzi, anche se con Law come coinquilino si rischiava spesso di ritrovarsi sedati o con un ago in vena e una siringa piena di chissà quale farmaco o antibiotico. Una volta aveva ucciso il nostro gatto con dell’arsenico, quindi c’era sempre un alto rischio di restarci secchi, ma pazienza, non era tanto male e ci avevo fatto l’abitudine.
A parte il gusto per il bizzarro, la collezione di foto appese alle pareti era fantastica e mi aiutò a farmi un’idea dei personaggi con cui avrei fatto conoscenza di li a breve. Ce n’erano tantissime e tutte rappresentanti ragazzi di varie età, ma anche alcune di recenti, come quella dove si vedeva l’inconfondibile capigliatura di Thatch scomparire dentro la tazza del water nel tentativo di…
«Uhm, Thatch?» lo chiamai, «Stavi per caso rimettendo anche il fegato?» chiesi, fermandomi e indicando la foto con un mezzo sorriso canzonatorio che fece ghignare sadicamente Marco, probabilmente memore della nottata in cui il fratello aveva fatto la cazzata rappresentata.
Il castano sembrò pensarci su, rispondendo infine che quella era stata la volta in cui aveva rischiato il coma etilico dopo essersi ubriacato fino a svenire in mezzo a una strada mentre cercava di convincere alcuni agenti della polizia a non fargli l’alcool test.
«E guarda qui! Quello è Vista che cerca di battere Jaws a braccio di ferro. Che facce da fessi che avevano!». Thatch mi indicò due tizi dall’aria seriamente concentrata in uno scontro all’ultimo muscolo e, a giudicare dalle condizioni precarie del tavolino, la cosa non doveva essere finita bene. Poi fu la volta di una ragazzina minuta che brandiva una spada di legno, seguita a ruota da un ragazzo con degli strani capelli bluastri che brindava allegramente con un altro più o meno della stessa stazza e con dei capelli rasta.
«Oh, e qui siamo io e il pennuto da piccoli!» annunciò Thatch ad un certo punto, saltellando vivace davanti ad un quadro piuttosto grande dove riconobbi la buffa capigliatura di Marco e i capelli già ribelli e castani di quell’irrefrenabile pazzo.
«Dimmi, non era un frugoletto anche allora?».
«Thatch» lo freddò il biondo, superandoci e avviandosi verso una porta socchiusa dalla quale proveniva il baccano che avevo sentito in precedenza e che faceva da sottofondo alla nostra conversazione. Se non fosse stato il solito, apatico e riflessivo Marco, avrei detto che si sentisse in imbarazzo.
«Che c’è? Tanto abbiamo recuperato l’album dalla soffitta. Ti vedrà comunque e il babbo si divertirà un mondo a raccontare simpatici aneddoti sulla tua infanzia» lo sfotté bellamente, poggiando le mani sui fianchi e guardandolo con aria fiera di sé anche se l’altro non poteva vederlo. Poco prima che ci intimasse di muoverci, si abbassò verso di me per sussurrarmi all’orecchio, facendomi sudare freddo per lo sconcerto.
«Tranquillo ragazzino, le foto più spinte le teniamo per quando il vecchio va a dormire» ammiccò.
Non potei ribattere solo perché un gran vociare attirò la nostra attenzione e Thatch si volatilizzò nella stanza illuminata dove intravidi qualche faccia a me sconosciuta. Sul ciglio della porta, Marco mi fissava mordicchiandosi un labbro e con l’aria di chi voleva scusarsi per il disagio. Fu solo per togliergli un peso che mi costrinsi a sorridere mestamente e a raggiungerlo fino a compiere i fatidici passi che mi introdussero in un enorme salone dove era stata imbandita una tavolata di cibo e pietanze varie, attraverso cui volava qualche pezzo di pane e, di tanto in tanto, una bottiglia di birra che veniva afferrata al volo da qualche mano alzata.
Si trattò di qualche secondo di smarrimento e poi tutti si voltarono verso di noi, anzi, verso di me, puntandomi i loro occhi addosso e sondandomi da capo a piedi per un tempo interminabile in cui non feci altro che trattenere il respiro, pregando Dio che quella tortura finisse presto.
Qualcuno si schiarì la voce ed ebbi l’impressione che le fondamenta tremassero.
«Ben arrivato, figliolo» tuonò il padre di Marco, la ragione per cui, quando mi ero svegliato in ospedale, avevo desiderato di ritornare in coma, «Vi stavamo aspettando».
«Ciao papà» fece il ragazzo con la sua solita calma, come se non stesse presentando il suo fidanzato, maschio per giunta, al proprio genitore con un piede nella fossa, secondo il mio modesto parere, nonostante bevesse birra come un quarantenne. Mi passò accanto, sfiorandomi la mano senza farsi notare, un modo per dirmi di farmi avanti senza timore. Me l’aveva ripetuto mille volte i giorni precedenti che nessuno mi avrebbe mangiato, ma non ne ero così sicuro e continuavo a deglutire a vuoto, avanzando fissandomi i piedi e gettando occhiate fugaci attorno a me mentre cercavo di nascondermi dietro alla stazza di Marco e Thatch.
Ad un certo punto la testa d’ananas ebbe la grande idea di spostarsi di lato e lasciarmi senza barriere di fronte al sindaco in persona che, con un sorrisetto beffardo, e leggermente inquietante, mi squadrò in modo sfacciato, porgendomi la mano e fissandomi negli occhi. Sembrava quasi che volesse sfidarmi a scappare a gambe levate, cosa che mi diede parecchio sui nervi dato che non ero affatto un codardo. Così, serrando le labbra e drizzando le spalle in un gesto di superiorità, gli strinsi quell’arto grande tre volte il mio con sicurezza, scatenando una risata cavernosa da parte sua e quelle divertite del resto della famiglia.
«Mi chiedevo se avessi avuto il coraggio di farti rivedere, moccioso» fece il vecchio, accomodandosi meglio sulla sedia di dimensioni piuttosto larghe e improbabili.
Ignorando la risatina di Thatch e deciso a non farmi impressionare dall’autorità dell’uomo e dal fatto che non fossi nel mio ambiente e del tutto a mio agio, pensai bene di rispondergli per le rime. Magari si era fatto una cattiva impressione di me e non gli andavo molto a genio, ma se pensava che mostrandosi restio nei miei confronti mi avrebbe allontanato da suo figlio si sbagliava di grosso.
Alzai il mento e gli sorrisi sprezzante. «Sorpreso, vecchio?».
Potei quasi sentire il gelo calare nella stanza e ghiacciare ogni anima vivente, Thatch e Marco compresi, mentre io stringevo i pugni attendendo il verdetto finale senza azzardarmi ad abbassare lo sguardo, combattendo una guerra privata con gli occhi scuri e duri del famoso Edward Newgate.
«Ma senti questo» sbottò un ironico Thatch, sghignazzando a quella scena.
La tensione si allentò subito dopo, quando l’uomo scoppiò a ridere fragorosamente, affermando che il ragazzetto presuntuoso, testuali parole, gli piaceva.
Avevo superato la prova più ardua, ovvero ingraziarmi il vecchio. Almeno era quello che credevo, ma dovetti riconsiderare la questione dato che, dopo Barbabianca, venne il momento di conoscere tutti i fratelli del pennuto.
«Haruta, piacere». Una ragazza dai capelli corti e l’aria furba mi sorrise cordiale, un balsamo per i miei nervi tesi davanti a facce poco amichevoli e strette di mano fatte per testare la mia forza, tanto che le mie dita stavano perdendo sensibilità.
«Felice di rivederti, fiammiferino».
Mi ritrovai poi davanti al tizio che avevo scambiato per l’amante di Marco e mi sentii incendiare le guance. Non dovevo aver fatto una bella impressione quella volta.
«Ehm, p-piacere» mormorai, pregando di non essere arrossito.
Izou sorrise e, lanciata un’occhiata alle mie spalle, mi parlò con malcelata malizia. «Marco ha davvero scelto bene il suo ragazzo, non c’è che dire».
Rimasi spiazzato e senza sapere bene cosa dire davanti a quell’affermazione tanto schietta e chiara, ma poi sentii Marco ridere per poi afferrarmi una manica della maglia e trascinarmi verso il resto dei suoi fratelli.
«Ti giuro che io non ho fatto niente» chiarii prima che potessero nascere equivoci.
«Lo so, non ti preoccupare. Izou è fatto così» mi rassicurò, rivolgendomi un piccolo sorriso prima di ricominciare le presentazioni. Scoprii che quelli che avevo visto brindare nella fotografia erano Namiur e Rakuyo, poi fu la volta di Blamenco e Fossa, il quale rischiò di farmi soffocare quando soffiò il suo nome in risposta, accompagnandolo con una boccata di fumo proveniente dal suo sigaro. Vista fu uno dei più cordiali, mentre Jaws rischiò seriamente di staccarmi una mano con la sua forza. Curiel indossava un paio di occhiali da sole e aveva l’aria di un ufficiale dell’esercito, mentre Atmos faceva impressione per via della sua corporatura.
Alla fine ebbi modo di conoscerli tutti e, grazie un po’ alla mia fortuna sfacciata e alle buone e inopportune parole messe da Thatch, nessuno si dimostrò ostile o antipatico.
Mi fecero sedere accanto al padrone di casa, in modo tale che potesse divertirsi a pormi le domande che più gli aggradavano. Thatch prese posto affianco a me e Marco finì per piazzarsi davanti a noi con un’espressione rassegnata al peggio.
Fui felice di vedere che nessuno in quella casa seguiva le regole del galateo per mangiare, così non dovetti preoccuparmi di controllarmi per fare bella figura e fingermi educato, soprattutto quando li vidi rubarsi il cibo dal piatto e lanciarsi le pietanze. I gomiti bellamente appoggiati al tavolo, niente posate non necessarie, ma solo una forchetta e un coltello e suvvia Izou, mangia il pollo con le mani che ha un sapore migliore!
Purtroppo, però, arrivarono anche le note dolenti che mi fecero andare di traverso il boccone.
«Allora, Ace, come hai conosciuto il pennuto?» proruppe Thatch, a voce abbastanza alta affinché tutti potessero sentire la domanda. Un bel modo per mettermi al centro dell’attenzione. E in imbarazzo.
Provai a sviare l’argomento, ma lo sguardo insistente di Barbabianca mi obbligò a dire almeno qualche parola. «Un giorno. Al bar» mormorai sfuggente. E se volevano i dettagli avrei detto che non me li ricordavo.
«E non ti sei impressionato davanti ai suoi capelli?». Frecciatina rivolta al diretto interessato che rispose con un dito medio alzato nella direzione di Vista.
«Chi ha fatto il primo passo?» si incuriosì Haruta, poggiando il mento su una mano e sorridendomi gentile. Avevo come la netta sensazione dietro a quella facciata adorabile nascondesse una doppia identità, più scaltra e vivace.
Fissai Marco, indeciso su cosa rispondere. Ad essere sinceri l’idiota che si era esposto ero stato io quando l’avevo baciato sul retro di un locale, per giunta di proprietà del padre, ma non mi sembrava una grande idea sbandierarlo ai quattro venti, meglio mantenere un profilo basso.
«Beh, non saprei. E’ successo così, per caso».
«Io scommetto che sia stato il ragazzino, Marco è troppo pigro per certe cose» commentò Blamenco in fondo alla tavolata.
Prima che qualcuno potesse ribattere, l’idiota vicino a me che aveva dato il via a quell’interrogatorio pensò bene di riscaldare ulteriormente gli animi. «E quando vi siete scambiati il primo bacio?» chiese malizioso, dandomi delle leggere gomitate sul fianco in un gesto d’intesa, ma che stonavano incredibilmente.
Marco, che stava bevendo, rischiò di strozzarsi, mentre Barbabianca scoppiò di nuovo a ridere. Io sbiancai e Thatch ricevette un meritato scappellotto sulla nuca dal suo vicino, Jaws, che per poco non lo spedì con la faccia nel piatto. Il castano rispose insultandolo e la situazione degenerò in un litigio fatto di battutine acide, insulti, l’aggiunta di altri due elementi, una minaccia riguardante la marmitta di un’auto, sguardi assassini, risate in sottofondo, qualche bestemmia e altri insulti, un coltello piantato sul tavolo, un pollo allo spiedo lanciato in aria, Marco che si nascondeva il viso con una mano e, in conclusione, Thatch che rotolava a terra con tanto di sedia, piatto e posate.
Quella non era una famiglia, ma una ciurma di sbandati.
Dopo molti discorsi insensati, domande personali raggirate, battute irritanti e litigi tra fratelli, il Signor Newgate decise che era arrivata per lui l’ora, l’una e mezza del mattino, di andare a coricarsi. Non mi aspettavo, però, che mi chiedesse cortesemente di accompagnarlo lungo il corridoio fino alle scale che portavano al piano superiore, chiaro segno che gradiva rimanere solo con me. Ovviamente non avevo potuto rifiutare e avevo mascherato l’agitazione nel miglior modo possibile. Inutile dire che a calmarmi, in parte, era stato anche lo sguardo rassicurante di Marco.
«Sono stato molto contento che tu abbia accettato l’invito, Ace» disse Barbabianca una volta fuori dal salone, «Hai conquistato in poco tempo l’approvazione mia e di tutti i miei figli».
Rimasi di stucco a quelle parole e mi domandai se per caso non avessi capito male.
«Non ho mai visto Marco così partecipe» ammise, «Non che di solito sia distante, ma resta sempre un po’ sulle sue, invece è da un pezzo che non è più così e ne sono lieto. Sembrate davvero inna…».
«Ehm, l-la ringrazio S-signore» mi affrettai a dire, sicuro di non voler scendere nei dettagli e ritrovandomi a far ridere il vecchio. Di nuovo.
«Chiamami babbo e dammi del tu. Ormai sei di famiglia, non credi?». E, così dicendo, mi augurò una buona notte e salì le scale, scomparendo alla mia vista e lasciandomi in corridoio con l’animo in tumulto.
L’idea di fare parte di un qualcosa di grande, di una famiglia tanto numerosa in cui tutti erano pronti a dare la vita per gli altri mi faceva sentire dannatamente bene e assurdamente felice. Ripensandoci, quel vecchiaccio non era poi tanto male.
Quando ritornai in salone non tenni più lo sguardo basso, ma sorrisi a chiunque mi rivolgesse la parola, risposi alle battute con altrettanto divertimento, iniziando a scherzare e a prendere confidenza con tutti, ignorai Thatch come sempre e mi godetti ogni istante di quel nuovo calore che sentivo irradiarsi nel petto e scaldarmi dentro.
«Ehi, Ace, unisciti a noi!».
«Si, dai! Tieni, bevi questo e siediti qui!».
«Siete sicuri?» chiesi per precauzione, sedendomi su un enorme tappeto dove tutti si erano stravaccati, iniziando a rotolare o a darsi spintoni, mentre Thatch rovistava alla ricerca di qualcosa dentro una cassapanca li vicino. Ai suoi piedi si trovava un album di fotografie.
«Certo. Fai parte della famiglia ora» decretò Vista, lisciandosi i baffi di cui era orgoglioso.
Ero così felice in quel momento che la successiva vista di tutte le loro foto da adolescenti con gli ormoni imbizzarriti mi scandalizzò e, quando Marco mi baciò davanti a tutti dopo aver bevuto entrambi abbastanza da poterci permettere di farlo, neanche allora il mio umore venne scalfito. Probabilmente il giorno dopo tutti sarebbero stati troppo ubriachi per ricordarlo, perciò non ci sarebbero stati grossi problemi di imbarazzo.
Se solo Thatch non avesse fatto foto a insaputa dei presenti.
Quale modo migliore per concludere una cena in famiglia?
 
 
 
 
 
 
 
Oh, salve ragazzi, come vi va la serata? ^^
Sono giorni che guardo il pc, apro Word e rileggo le prime due pagine del capitolo, ritrovandomi poi davanti a un blocco, ma stasera mi sono imposta di finirlo perché, che diavolo, non posso lasciare che il tempo passi così, alla cavolo.
So che è tardi, ma dovevo raggiungere questo traguardo. Fate finta di essere felici e amatemi, vi prego.
Eh, lo so, sono parecchio in ritardo con molte cose, ma abbiate fede, verrà il giorno in cui mi rimetterò in pari e vi ringrazierò come si deve. Sappiate intanto che leggo qualsiasi commento mi lasciate e rotolo ogni volta per la felicità. Quindi grazie infinite a tutti, davvero.
Lo Special ve lo metto nel prossimo capitolo perché questo è già assurdamente lungo.
E poi ecco Thatch e Marco da piccoli, tesori belli: https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/t1.0-9/s403x403/10257695_609553585788855_3416049391323461335_n.png
Avviso di Servizio per chi segue le altre fiction: Portuguese D. Ace aggiornata, yeee; Chi non muore si rivede in fase di produzione (è un parto e mi vorrei sparare, ma continuate a sperare, Amen).
Detto questo buonanotte e andate in pace.
See ya,
Ace.
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio! / Vai alla pagina dell'autore: ___Ace