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Autore: A Modern Witness    04/05/2014    1 recensioni
- Avanti, perché stai mangiando i miei biscotti? Che c’è? – La conosceva troppo bene, per non sapere che lei si dava ai cibi che lui riteneva salutari (mentre per i resto del genero umano erano immangiabili) solo quando c’erano problemi nell’aria.
Audrey si morse una guancia – Niente .-
Mancava ‘solite cose’ e allora il cantante le avrebbe potuto credere. Forse.
- Hai le pantofole addosso – Le fece notare, indicandole – Tu non fai mai le scale con le pantofole, se non quando hai altro per la testa .-
Maledetto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Tutti i fatti narrati non sono reali ma pura invenzione, i personaggi non mi appartengono e non scrivo a scopo di lucro.

.5.

Quella notte, non sarebbe riuscita a prendere sonno, così era scesa al piano di sotto alla ricerca di qualcosa di orribile da mettere sotto i denti. C’era chi era meteoropatico, mentre c’era lei (forse l’unica caso in tutto il globo) ad essere cibopatica, non sapeva se esistesse davvero un parole per questa sua peculiarità. Ovvero magiare cibi che rispecchiassero come si sentiva, ad esempio una persone normale per riprendersi da un momento di depressione si strafogava in un vasetto di nutella, invece, Audrey, si dava ai cibi spossati, come li definiva lei. Ad esempio il sacchetto di biscotti che aveva appena trovato: biscotti alla farina di farro,con cinque cereali, zucchero di canna e zenzero.
Urgh. Quello era un cibo spossato. Spossato, perché gli era stata tolta ogni bontà e data la consistenza della segatura, un po’ come una persona che torna in palestra dopo mesi di pigrizia e volendo strafare, si prosciuga tutte le energie e, una volta a casa, si sente talmente a pezzi che se si buttasse a letto si ridurrebbe in polvere.
Il che li rendeva perfetti per lo scopo di Audrey, li agguantò dalla mensola e lì aprì, appoggiandosi al ripiano della cucina.
Era passata una settimana da quando Jared era stato male, fortunatamente era durato poco e lui si sera ripreso velocemente. Non erano più ritornati sulla questione dell’appartamento, anche se lei aveva iniziato a sfogliare qualche offerta mentre era a lavoro. Però, a causa di questo e altri impegni, come la festa per Manuel, non aveva mai avuto occasione di prendere un appuntamento con un agente mobiliare.
Stava iniziando a illudersi e quei biscotti facevano davvero schifo. Aveva in testa la conversazione con Shannon a rallegrarla un po’, anche se non sapeva di doversi crogiolare troppo in quella parole. In fin dei conti poteva averle dette tanto per  rincuorarla, no?
No, non Shannon.
Tuttavia il problema non era nemmeno quello.
Sbuffò, addentando il  biscotto.
- Sono i miei biscotti quelli? -
Audrey alzò gli occhi, con il biscotto ancora appoggiato sulle labbra e annuì.
- Annuisci e basta? – Le chiese Jared, frugando dentro il sacchetto e prendendone uno anche lui.
Audrey sembrò pensare ad una risposta, mentre masticava.
- Beh, potrei rovesciarti il sacchetto in testa, fammi dire il numero della cassaforte e scappare con i soldi e… tagliarti i capelli – Ok, non glie avrebbe mai tagliati i capelli, ma l’ultima frase le serviva solo d’effetto, d’altronde rovesciare un sacchetto di biscotti in testa a una persona non era poi così utile a tramortirla.
Jared la inchiodò con lo sguardo – Osa soltanto – La minacciò.
Lei fece spallucce e ritornò all’altra metà del biscotto, chiedendosi cosa sarebbe potuto cambiare se…niente, non ci sarebbe stato un se.
- Avanti, perché stai mangiando i miei biscotti? Che c’è? – La conosceva troppo bene, per non sapere che lei si dava ai cibi che lui riteneva salutari (mentre per i resto del genero umano erano immangiabili) solo quando c’erano problemi nell’aria.
Audrey si morse una guancia – Niente .-
Mancava ‘solite cose’ e allora il cantante le avrebbe potuto credere. Forse.
- Hai le pantofole addosso – Le fece notare, indicandole – Tu non fai mai le scale con le pantofole, se non quando hai altro per la testa .-
Maledetto.
- Avevo freddo ai piedi – Mentì, consapevole che lui lo sapeva, ma fece finta di nulla  - E’ pur sempre febbraio… - Di male in peggio.
Il cantante alzò un sopraciglio, peccato che quando gli aveva spiegato che lei e le ciabatte non andavano d’accordo per fare le scale, fosse dicembre.
Audrey né saliva né scendeva le scale con ciabatte o pantofole ai piedi, perché si sentiva un’idiota. Di solito quel tipo di calzature anche se le comprava del suo numero, erano sempre più grandi e fare le scale con quelle cose addosso si sentiva una papera. Insomma si doveva concentrare ad ogni passo, per evitare di non sembrare una disabile e la infastidiva, perché le piaceva correre giù per le scale e salire di fretta, arrivando in cima senza più aria nei polmoni.
- Non ti credo – Ammise con noncuranza Jared, addentando un altro biscotto.
Audrey si girò a guardarlo. Aveva i capelli spettinati, segno che qualunque cosa stesse facendo prima di arrivare in cucina, l’aveva reso nervoso al punto di mettersi le mani tra i capelli.
- Cosa stavi facendo? – Gli chiese, non aveva voglia di rispondere.
Anche Jared la guardò. Cielo con tenebre, il buio assoluto in quegli occhi ora sprangati a sicurezza. Vuoti persino per lui, che li conosceva da anni.
- Provavo…-
- Cosa? – Domandò la ragazza, non voleva lasciargli il tempo di porre altre domande.
Il cantante la guardò con disappunto.
- Cosa stai facendo, Aud?-
Lei accartocciò l’inizio del sacchetto – Non chiamarmi Aud – Lo rimbeccò in un sussurro, mentre si alzava in punta di piedi per rimettere i biscotti al loro posto.
- Va bene – Concesse il cantante bonariamente – Posso sapere cosa c’è che non va? Cosa ci stai facendo qui in cucina alle tre del mattino? – Le domandò dolcemente, mentre lei tornava a guardarlo. Nel tempo trascorso lì, con loro, era riuscita a scrollarsi di dosso l’espressione turbata, quella sensazione di disagio dei primi giorni e lui non poteva che esserne contento; più tranquillo. Tuttavia quell’ombra più scura dello sguardo di Audrey era ritornata, a persuaderlo a non fare altre domande.
Lei si passò una mano sugli occhi, distogliendo lo sguardo e sorrise lievemente, non poteva chiederglielo in quel modo, così semplice, così disponibile ad ascoltarla, non in suoi miseri problemi di tutti i giorni. Non quella quotidianità comune a migliaia di persone.
- Stavo semplicemente… niente .- 
Jared si allontanò dal bancone per sistemarsi davanti a lei, stava iniziando ad infastidirlo quel distacco che Audrey tentava di mettere quella sera.
- C’è qualcosa Audrey – Le palesò.
Lei corrugò la fronte, prendendo tra le mani una ciocca castana dei capelli dell’amico
- Dove? –
- Qui – Le toccò una tempia.
Sbagliato.
- Già – Convenne lei – Ma non ne vale la pena parlarne -.
- Perché no?  - Insistette il cantante.
Lei fece spallucce – Non è rilevante .-
Il cantante sospirò – Per chi? Per i tuoi amici? -
Audrey scosse la testa – Per il mio migliore amico, presente si chiama Jared. Lui… diventerebbe paranoico – Lo apostrofò, lasciando la ciocca di capelli.
- C’è qualcosa che no so? – Le chiese dubbioso, pensava si fidasse.
Lei gli sorrise – Sì, però deve essere così. Se lo sapessi ne me faresti parlare, perché mi vuoi bene, ma otterresti l’effetto contrario, io non voglio parlarne, non è abbastanza importante da meritarsi un’intera conversazione – Specificò, sistemando un’inesistente piega sulla propria maglietta.
La stava piacevolmente soffocando, davanti a lei, anche se le mani erano serrate sul suo petto. Tuttavia era imbarazzante, era troppo intimo condividere quello spazio insieme.
Non era normale, perché ci avrebbe messo un secondo, se non di me, a sfiorargli le labbra sottili, lasciando cadere nel limbo la loro amicizia.
 
***
 
Iglesia de Nuestra Señora de Dolores, Santa Barbara, ci andava sempre da piccola… in verità si ricordava di esserci stata da bambina, ma se le avessero chiesto di descriverne l’interno, avrebbe parlato di qualcos’altro. In ogni caso lei in quella chiesa c’era stata.
Pobrecita, ecco forse avrebbe parlato di sua zia Maite, che le sgualciva le guance tutte le volte che la vedeva. Sì, sicuramente si sarebbe dilungata sulla parte messicana della famiglia, da cui però non aveva ereditato nulla di caratteristico, ma sulla quale correvano i ricordi migliori della sua infanzia.
Adorava quei parenti. Un po’ come tutti i bambini era sempre stata attratta dalle cose divertenti, rumorose e quelle persone, i suoi zii, sapevano come intrattenere una bambina. Anche solo sentirli parlare. Una lingua così lontana dall’inglese, più musicale, morbida, calda, emblema di quella cultura. Più rilassata, un turbine di vita e… un po’ di sana pigrizia.
La siesta, se la ricordava. In braccio a suo padre, seduta su un divano di vimini e cullata dell’odore di tabacco e il profumo di frutta, che variava secondo le stagioni: arancia per l’autunno, pera per l’inverno, albicocca per la primavera e pompelmo per l’estate.
Sorrise, spingendo la porta dell’ospedale.
Anche se non era l’uomo perfetto, fissato con la gerarchia patriarcale, non aveva mai negato a lei e a suo fratello l’affetto di un padre. Tuttavia non poteva dire che fosse stato un confronto per lei. Non si era mai potuta rapportare con lui come donna, il tempo, il ciclo della cita, la sfortuna con la vista di un aquila, glie l’aveva tolto quando era piccola.
Il motivo era fin troppo banale: cancro ai polmoni in stadio avanzato.
Si avvicinò al bancone, sorridendo ad una delle infermiere di turno.
- Buongiorno, la stanza di Marshall Suarez? – Chiese.
La donna la guardò. Non era la prima volta che veniva a trovare suo fratello, ci veniva più spesso di quanto ricordava, tuttavia loro due non si assomigliavano per niente.
- Buongiorno, lei è? – Domandò.
La mora sorrise affabile – Audrey Suarez, la sorella – Si presentò.
- Reparto di oncologia, quarto piano, stanza numero quattrocentoventisette – Le disse dopo aver controllato nel computer.
Audrey ringraziò e si diresse verso gli ascensori.
Dopo la morte di suo padre non c’era più stata una famiglia. Tuttavia non c’erano di mezzo figli drogati, dato che erano ancora troppo piccoli, o una madre alcolizzata. No, peggio: l’indifferenza. L’indifferenza era stata peggio dei ricordi. La recita ben interpretata da sua madre che nulla fosse successo, al punto di dimenticarsi della sua prole e ricominciare come se avesse avuto diciotto anni. Come se l’uomo che se n’era andato, non fosse stato il marito con cui aveva progettato una famiglia, ma solo una relazione di passeggio, da cui imparare cos’era l’amore. 
Sua madre non sapeva nemmeno come si scrivesse “amore”.
 
- Sospettavo saresti venuta – Iniziò Marshall distogliendo lo sguardo dalla Tv, mentre Audrey si fermava sulla soglia della porta.
- E’ la vecchiaia, mi rende prevedibile – Aveva scherzato lei, andando ad abbracciarlo.
Il solito profumo asettico da ospedale -  Come sta Lisa? – Gli chiese una volta sciolto l’abbraccio.
- Sta bene, è riuscita ad aprire lo studio – La informò entusiasta dei progressi della moglie, un promettente avvocato della zona.
- Tu, a lavoro come va? Tutto bene? – Le chiese di rimando il fratello.
Audrey annuì – Sta andando abbastanza bene. Savannah ha deciso creare la  pagina web dell’atelier, per farsi conoscere in giro. A fine mese devo partire per Rio a consegnare un costume .–
Il fratello la guardò sorpreso, completamente impressionato da quella bimba che lui ricordava pestare i piedi anche solo per fare un viaggio in macchina.
- Per il resto come te la passi? -  Le chiese passandosi una mano sulla testa ormai calva.
Audrey si sedette sul lettino, sorridendogli. Marshall aveva sempre avuto quella particolarità che si riscontra in poche persone: il coraggio, ma non di quelli pomposi di cui una persona si vanta, quello semplice adatto per la vita di tutti i giorni. Un coraggio lungimirante, troppo positivo a volte. Come quando gli era stata diagnosticata la stessa malattia del padre, un anno e mezzo fa. Fortunatamente aveva subito iniziato il ciclo di chemio, anche se non aveva portato a grandi risvolti, non l’aveva placato e non l’aveva nemmeno rallentato.
E poi c’era lei, che si sfracassava l’anima perché viveva sotto lo stesso tetto di Jared.
- Sto cercando un nuovo appartamento – Gli raccontò.
- Come mai? – Le chiese il fratello.
Audrey fece spallucce – Infestazione di termiti. Stavo a casa di Madison una decina di giorni fa, solo che a causa dei problemi di salute della madre ho dovuto lasciarle la camera libera – Fece un pausa distogliendo lo sguardo, perché anche suo fratello era per il partito Jared – Adesso sto allo studio con…Jared .-
Dalla bocca del fratello fuoriuscì un “oh” prolungato, di completo interesse sull’argomento.
- Queste belle notizie me dovresti dare con il sorriso sulle la labbra – La prese in giro il ragazzo, mentre lei girava gli occhi – Potrebbe portare a dei piacevoli risvolti…-
- Perché non sei una fratello normale, mh? – Gli chiese sarcasticamente – Uno di quelli che mi prenderebbero la testa e me la sbatterebbero contro il muro, pur di non sentirmi farneticare su un uomo che ha più di quarant’anni .-
Tuttavia lo sguardo che Marshall le rifilò era tutt’altro che disapprovazione – Non dovrei essere io a sbatterti contro il muro… -
Lo schiaffo sul braccio del fratello, partì involontario ad Audrey – Sei… fai schifo – Commentò imbarazzata e con un smorfia disgustata in volto.
Il fratello rise – Non deve per forza essere Jared… -
Un altro schiaffo sta volta più forte, mentre le risate del fratello aumentavo sotto lo sguardo febbrile di Audrey.
- Smettila – Berciò lei – E poi cos’è tutto questo apprezzamento per Jared? –
Marshall tornò serio e allungò la mano verso il telefono – Ho visto la foto che ha caricato su twitter .- Annunciò, mentre Audrey avrebbe voluto lasciarsi andare a un “Oh no”.
Sua fratello aveva un’ossessione, insana per gli sguardi delle persone.
 - Non sono venuta qua per parlare di Jared, ok? Me la cavo, sopravvivrò in qualche modo – Proferì calma, sfilandogli il telefono dalle mani – Tra un po’ sarò fuori dallo studio e quindi, spero tornerò ad avere meno tarli per la testa -.
Il fratello la guardò poco convinto, nonostante questo sapevo che la sorella ci stava già sbattendo la testa abbastanza addosso a quel “tarlo”, come l’aveva definito.
- Quindi…?-
- Hanno invitato Lisa al matrimonio? – Esordì guardandolo dritto negli occhi.
Marshall sospirò – No, ti pare – Negò l’uomo – Tu..?-
Lei scosse la testa – No, devo tornare a Los Angeles il prima possibile per lavoro. Credo andrò all’hotel per …vederla e basta .-
- Non starci troppo male, Audrey, sai che com’è fatta, non le importerebbe niente vederti lì, non ci vuole – Snocciolò con freddezza il fratello, poggiandole una mano sulla spalla, era pur sempre la sua sorellina. La piccolina che non si sarebbe dovuta prendere cura di lui, che non avrebbe dovuto vedere sua madre sposarsi due volte dopo la morte del padre, senza invitare i figli.
Lei si morse un labbro – E’ inutile, sai che… insomma, anche a te importa nella sua felicità no? – Odiava sentirsi così, triste e vulnerabile. Soprattutto detestava trasformare le visite a sua fratello in patetiche scenette melodrammatiche, ma poteva parlarne solo con lui.
Jared non sapeva nulla.
- No – Rispose secco Marshall – Audrey, nemmeno a te interessa – Le palesò.
- M’importa invece- Lo contraddette la mora -  E’ mamma, anche se lei non… sembra più volerci dimostrare il suo affetto, non è necessario seguire il suo esempio. Non voglio essere come lei – Gli spiegò, mentre si alzava dal lettino.
- Non esagerare però – Le consigliò il fratello, mentre lei gli lasciava un bacio sulla guancia, prima che si salutassero con la promessa di Audrey di tornare prima di ripartire per Los Angeles.
 
 
Calle.
Audrey le sfiorò, lasciandovi danzare sopra le dita, curiose di ritrovare la superficie familiare di quel fiore. Sua madre, Leah, amava ricevere calle in regalo e suo padre glie ne faceva sempre trovare un mazzo per il suo compleanno. E lei non le faceva mancare ai suoi matrimoni.
Allontanò la mano dalla corolla e si guardò attorno. Si sarebbe sposata in un hotel di Santa Barbara, e già c’era un po’ di gente. Tuttavia Audrey non riconosceva nessuno.
Gli anni lontano da quella città le avevano facilitato l’eliminazione di molti volti. Tuttavia, in quei momenti la considerava una sfortuna non riconoscere nessuno, dato che chiunque poteva ritrovare nel suo volto, il viso della figlia di Leah.
Stava bene così, nell’anonimato. Non voleva ritornare in quella bolgia per sentirsi superflua o solo una presenza a cui fare attenzione. Un essere piccolo, di cui ricordarsi quando cominciava a tossire o non mangiava.
Era sempre stata fragile con le persone, ma sua madre l’aveva indebolita maggiormente.
Ora aveva bisogna di punti fermi, sicuri…vicini. Le presenze passive non le bastavano, non era soddisfatta dalla lontananza, necessitava di fisicità, di un affetto sulla pelle. Una carezza in più, non sorriso di troppo.
Voleva esagerare con i sentimenti.
Voleva dare sé stessa.
Jared era imperfetto, sapeva che per lei non era giusto.  Avrebbe avuto troppo paura di non essere sufficiente, di non bastare abbastanza per fidarsi di lui. Shannon avrebbe potuto contraddirla per giorni interi, ma quella non era paura, era una fobia. Insidiosa, demolitrice, infetta. Abbassava ogni difesa, pungeva nel vivo e non lasciava vivere, tormentando nella realtà e nel sogno. Era fredda, tanto da far diventare le labbra bianche e tremare le gambe, anche se non riusciva a pensare a quel nome, perché quando una sentimento, una sensazione, trova il nominativo a lui più adatto diventa reale. Non te ne liberi perché esiste, perché ha un nome. Un po’ come una malattia quando trova la propria collocazione medica. Da quel momento ne conosci le cause e glie effetti e sai che uno di quelli toccherà anche a te.
Audrey non ci voleva arrivare a quel nome, che alleggiava pensate, come il fumo nell’aria. Pressante, denso, carico di tutto e niente, inconsistente e soffocante.
Si sarebbe violentata mentalmente, ma non avrebbe dato la possibilità a quel nome di farsi sentire. Partendo da quel fottuto appartamento che si sarebbe messa a cercare il prima possibile.
Il quartetto d’archi iniziò a suonare e Audrey si avvicinò alla piccola folla, rimanendo in disparte.
Sua madre entrò a braccetto di un uomo che Audrey non conosceva, eppure Leah sorrideva. Era radiosa, come tutte le volte che otteneva qualcosa, lontana dai figli.
Un sorriso allegro disteso comodamente sulle labbra sottili della donna, mentre camminava nel corridoio che la folla aveva creato. I suoi picchiettii, sul pavimento di marmo, erano accompagnati dal panneggio leggero di chiffon dell’abito bianco. La scollatura a V, che dolcemente risaltava le curve leggere di sua madre, a renderla sensuale. Il corpo sottile, che Audrey aveva ereditato, non l’avrebbe mai resa volgare, anzi sembrava leggera e fresca, sottomettendo i cinquantenni anagraficamente dichiarati.
Leah, guardava i volti che la circondava sorridendo di circostanza, mentre Audrey si allontanava, attutendo quella fuga con la suola delle converse che indossava.
Un magone alla gola, anche quella volta, come la precedente, ma era inutile doveva solo riuscire a mandarlo giù anche quella volta, ritornare nella consapevolezza di poter contare solo su se stessa, definitivamente. Coraggiosamente. 


NDA:
Buona domenica a tutte :)
Ieri sono riuscita a finire il capitolo così l'ho subito aggiunto, dato che la prossima settimana si prospetta incasinata, e anche perchè volevo lasciarvi con un pò di suspanse :P
Questo spccato di vita di Audrey è fondamentale e spero riusciate a congliere la "decisione" implicita che il viaggio a Santa Barbara le suggerisce. 

Con questo vi auguro una buona domenica,
alla prossima,
Blume.

 
  
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