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Autore: chiaretta85_    04/05/2014    11 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
Eppure ora era diverso. O forse erano i miei occhi ad essere cambiati. Quel bosco mi intimoriva e mi affascinava in ugual misura. Perchè ora quelle stesse fronde, quegli stessi colossi silenziosi, avevano per me un altro significato. Io sapevo. Sapevo cosa potevano nascondere, io sapevo cosa potevano raccontare se fosse stato concesso loro il dono della parola, io sapevo i loro segreti. E loro conoscevano i miei. E mi aiutavano a custodirli. A loro avevo sussurrato il mio amore, il mio cuore e la mia gioia e avevo gridato il mio dolore, il mio tormento, il mio castigo.
Sospirai.
«Sei pronta?»
Sobbalzai, voltandomi verso la porta. Due lucenti occhi color ambra mi guardavano sereni, cercando di nascondere la ruga di apprensione che si stava formando al centro della stessa fronte del volto dal quale mi osservavano.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Un po' tutti | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon, Più libri/film
Capitoli:
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Ancora noi

Capitolo 3 - Cuore

Bella

 

Tutum, tutum, tutum...

Il rumore del battito del mio cuore si confondeva a quello delle mie dita, che da ore ormai tamburellavano sulla mia gamba in un ritmo incessante e nevrotico. L'intero abitacolo era riempito da quel suono. La Mercedes sfrecciava a tutta velocità sull’autostrada quasi deserta. Era il secondo giorno di viaggio. Il giorno precedente avevamo percorso metà della strada che ci divideva da Denali in metà del tempo necessario: ventiquattro ore di viaggio ridotte a meno di dodici. Normale velocità di crociera per un vampiro.

Quando il buio era tornato a ricoprire il paesaggio, che si faceva via via sempre più bianco, Carlisle aveva abbandonato l’autostrada, fermando la macchina all’entrata di un Hotel.  Aveva insistito perché dormissi in un letto vero e perché facessi i miei esercizi per favorire la circolazione come da programma. In tutti questi mesi non mi aveva mai permesso di saltarli. Mai. Secondo il centro di riabilitazione di Seattle, la mia condizione non era necessariamente permeante. Immaginai che, se anche fosse stato possibile un miglioramento, ci sarebbero voluti anni, considerando che ero rimasta mesi in ospedale – guarire da fratture multiple in quasi ogni osso del corpo era un processo lungo e doloroso.

Avevo iniziato la riabilitazione da meno di un anno, ma, sempre secondo gli onnipresenti camici bianchi, pur non potendomi dare certezze, con molto esercizio e tanta, tanta tenacia e buona volontà, avrei avuto buone possibilità di recuperare gran parte delle mie capacità motorie. Evitai di spiegare loro che le mie capacità motorie non erano molto sviluppate già prima dell’incidente, non credo avrebbero capito. Ma nonostante le infinite ore di fisioterapia a cui sottoponevo le mie gambe, i miei arti inferiori non davano cenno di voler collaborare o, forse, come sosteneva il mio padre/medico/vampiro, era la mia mente che non trovava la giusta motivazione. Non lo sapevo. Ma avrei comunque continuato a provare, più per non deludere Carlisle che per vero personale desiderio di riuscita.

Carlisle avevo scelto un lussuoso Hotel, a sei ore dal confine tra il Canada e l’Alaska. Inutili le mie proteste o il tentativo di spigargli che non era necessario spendere centinaia di dollari per permettermi di dormire una notte sola, inutile cercargli di fargli capire che un motel sarebbe stato lo stesso, considerando che ero così stanca che avrei potuto dormire anche in auto senza il minimo problema.  Avevo tenuto a fatica gli occhi aperti mentre mi obbligavo a ingurgitare ciò che lui aveva ordinato per me con il servizio in camera, dopodiché ero letteralmente crollata in un sonno tormentato. Quella mattina mi ero svegliata tra le braccia di Carlisle che mi scrutava serio. L’aria più preoccupata del solito. Non c’era bisogno che dicesse nulla, sapevo esattamente cosa era successo, anche se non ne avevo memoria, se non sprazzi di immagine buie e confuse. Succedeva di continuo, ancor prima dell’incidente, ma dopo la morte di Charlie, ero anche peggiorata: crisi respiratorie notturne, attacchi di panico, convulsioni, urla. Ad ogni risveglio le braccia di Carlisle a circondarmi, nel vano tentativo di darmi conforto. Lui li chiamava: terrori notturni.

Come sempre dopo i miei risvegli in quelle mattine, mi accarezzava i capelli, mi dava un bacio sulla fronte e mi depositava nuovamente sul letto scomparendo nel nulla un istante dopo. Nessun commento, nessuna parola, nulla. Solo il mio senso di colpa a farmi compagnia, che cresceva a dismisura proporzionalmente con la sua preoccupazione.

Oggi era un nuovo giorno. L’ultimo giorno di viaggio verso la nostra famiglia.

Tutum, tutum, tutum...

Sobbalzai quando la mano fredda di Carlisle sfiorò la mia, nel tentativo di calmarmi.

«Scusami, ti sto facendo impazzire» mormorai lasciando che la vergogna per la mia ostentata incapacità umana di controllare il nervosismo si palesasse sulle mie guance.

Sorrise, con quel suo modo che sembrava illuminare la stanza, facendomi sentire subito al sicuro e meno sola.

«No, ma sono preoccupato per te, sei troppo agitata»

Sospirai affranta. Come dicevo, sempre più preoccupato.

«Lo so» Eccome se lo sapevo. Sentivo il cuore premere prepotente contro la cassa toracica pronto a esplodere da un momento all’altro, il piede - in realtà completamente immobile - nella mia mente si muoveva incessantemente contro lo zerbino dell’auto sotto i miei piedi, in un ritmo veloce, eco di quello della mia mano sudata ma dai polpastrelli gelati, che ancora insisteva nel suo incrollabile tamburellare.

Tutum, tutum, tutum...

«Potrei darti un calmante se vuoi...»                                                                                                                                

Storpiai il naso al solo pensiero. Altri medicinali. Ne avevo presi talmente tanti negli ultimi mesi, che avrei potuto richiedere una laurea a honorem causa in farmacologia. No, decisamente non ne volevo altri.

«No, grazie Carlisle. Sto bene» mentii.

Non sembrava affatto convinto ovviamente, ma annuì lo stesso. Sapevo non avrebbe insistito. Il suo rispetto per le mie decisioni – per quelle di chiunque in realtà - era disarmante, anche se il suo istinto naturale di risolvere i problemi lo spingeva a convincermi ad ubbidirgli, rimaneva sempre composto e silenzioso. Tenendo per se la sua frustrazione. Mai una volta mi aveva fatto pressioni per accettare un idea che non condividevo rispettando con educazione e pazienza le mi decisioni.

«Certo, come vuoi» Appunto.

Sospirai tornando a guardare la strada che scorreva veloce. Eravamo in macchina da ore ormai - era pomeriggio inoltrato, solo tre brevi soste di pochi minuti per le mie necessità umane avevano interrotto il pressare costante del piede di Carlisle sull’acceleratore - e considerando la sua guida, che non era diversa da quella del resto della famiglia, non doveva mancare poi molto.

Forse un paio d’ore.

Strinsi le labbra, nervosa, cercando di non mettermi a urlare. Tra poco avrei dovuto rivedere tutti i Cullen. Non ero pronta, semplicemente non ero pronta. Ma lo sarei mai stata? Probabilmente no.

La mano di Carlisle riprese posto sul volante, lasciando la mia, che si unì di nuovo al mio cuore, riprendendo subito il suo tamburellare.

Tutum, tutum, tutum...

«Ci saranno tutti vero?» Il labbro mi doleva per quanto forte lo stavo punzecchiando, non osavo nemmeno immaginare in che condizioni dovesse essere a quest’ora. Non era proprio quello che volevo chiedergli comunque.

Carlisle non si scompose: «Si, tutti»

Strinsi di più i denti. Pregai di non sanguinare eccessivamente, non sarebbe stata proprio una buona idea.

«Ehm...anche, anche Edwa...» il suo nome mi si strozzo in gola, insieme all’ondata di dolore che portava con se. Carlisle mosse quasi impercettibilmente gli occhi verso di me. Un occhiata veloce, discreta, paterna «...anche lui? Ne sei sicuro?» continuai, appena mi sembrò di aver riacquistato una briciola di controllo sulle mie corde vocali. Mi aveva già detto che sicuramente lo avrei rivisto, aveva cercato di prepararmi. Eppure speravo ancora di sottrarmi a quel confronto. Non avrei sopportato di vedere il disgusto nei suoi occhi. O peggio…l’indifferenza. Rabbrividii.

“...tu non sei la persona giusta per me...”

“...il mio mondo non è fatto per te...”

«Hai freddo?» chiese evitando di rispondere. Scossi la testa ribattendo alla sua domanda e allo stesso tempo cercando di scacciare i ricordi. Tornai a guardarlo. Tornai a guardare mio padre. Il volto angelico di un uomo appena sbocciato, strappato la vita prima ancora di riuscire a trovare il tempo di vivere la sua maturità, intrappolato per sempre in una pelle morta ma dalla bellezza incantatrice. Un uomo in grado di distruggerne un altro con una semplice carezza, ma che a dispetto della sua natura potente e mostruosa regalava amore, dolcezza, comprensione e speranza a chiunque ne avesse bisogno: a una madre che aveva perso il suo bambino e la voglia di vivere, a un ragazzo orfano, dimenticato, morente, in un letto di ospedale, a una ragazza nel fiore degli anni spezzata dalla brutalità animale dell’uomo e a una bambina con il cuore spaccato da un amore impossibile che piangeva sola invocando un padre che non avrebbe fatto ritorno.

Carlisle. Mio padre.

Strinse leggermente il volante, anche se la sua espressione rimase immutata. La compostezza che lo distingueva sembrava staccarsi un pezzo alla volta dal suo corpo, man mano che l’auto macinava chilometri. Mi chiesi come ci si dovesse sentire sapendo di essere diretti verso l’amore della propria esistenza, una amore con il quale fino a diciotto mesi prima si divideva ogni cosa, ogni gesto, ogni pensiero, ogni bacio, ogni attimo di vita rubato a un mondo mortale, troppo stretto per un amore che non ha fine. Mi chiedevo che suono avrebbe avuto il suo cuore se avesse potuto battere ancora, solo una volta. E che suono avrebbe avuto il mio se si fosse fermato? E perché non si era fermato? Quale cosa mi era rimasta in questa vita, per la quale valesse la pena lottare, per quale cosa il mio cuore si ostinava a vivere, giorno per giorno, palpito dopo palpito?

Per chi batti ancora stupido cuore? Lui non ci vuole più…lui non ci ama più…

“…sono stanco di fingere un identità che non è mia…”

“… è l’ultima volta che mi vedi. Non tornerò…”

Tutum, tutum, tutum...

«Sei nervoso?» chiesi per spezzare il silenzio e il filo dei miei pensieri che stavano per portarmi violentemente verso mete che non volevo esplorare.

Mi fece un sorriso stanco, poi i suoi occhi fuggirono. Mi sembrò strano, come se ci fosse qualcosa che non voleva dirmi o non poteva. Se c’era una cosa che sapevo di Carlisle era che odiava mentire alla sua famiglia, odiava mentire a me. Un pensiero fuggevole mi investì in tutta la sua potenza crudele e distruttiva. Boccheggiai, aggrappandomi con ferocia al bracciolo dell’auto. La voce allarmata di Carlisle mi arrivò ovattata alle orecchie un istante dopo.

«Bella?»

Serrai gli occhi sgranati e deglutii rumorosamente, mentre l’eco di un ricordo lontano si aggirava indisturbato nella mia mente.

“…a quelli come me basta poco per trovare una distrazione…”

Trovare una distrazione…

Distrazione.

Tutum, tutum, tutum... Tutum, tutum, tutum... Tutum, tutum, tutum...

Lo stridore dei freni mi risvegliò come da un brutto sogno. Sbattei le palpebre tornando lucida, mentre le lacrime scendevano silenziose, rigandomi il viso.

«Bella? Mi senti? Bella? Isabella, guardami.»

Mi voltai ritrovandomi davanti due occhi attenti che mi scrutavano. Allungò una mano sulla mia fronte, poi sul mio collo, un tocco veloce fugace, poi mi strinsero il polso, un istante.  Infine, si allungarono aprendo veloci il cassettino davanti alle mie gambe, e l’istante dopo un candido fazzolettino bianco accarezzò gentile le mie guance, portando via le lacrime.

«Ecco.» disse con un sorriso, infilandosi in tasca il fazzolettino. L’attimo dopo avevo un bottiglietta tra le mani. La guardai stupefatta, ancora un po’ intontita. Da dove era uscita?

«Bevi un po’ di succo di frutta bella, ti farà bene»

In un gesto meccanico svitai il tappo della bottiglia e me la portai alle labbra. Bevvi avidamente e la finii in un attimo. Carlisle sorrise. Il paesaggio intorno a noi era fermo, una distesa infinita di bianco. Ci eravamo fermati.

«Meglio?» mi chiese serafico. A volte avevo la sensazione che pensasse di parlare con una pazza. Le sue reazione erano troppo controllate.

Annuii e serrai le labbra. Le parole che premevano a uscire dalla mia bocca a formare una domanda scomoda, rimasero lì, ferme sulla punta della lingua. Ero incapace di dirle ad alta voce. Ero incapace di esprimere il terrore che provavo solo immaginando quell’ipotetico scenario. Eppure…eppure questo avrebbe spiegato molte cose: la ritrosia di Carlisle a parlare di lui in mia presenza, la capacità con la quale non rispondeva alle mie domande sul nostro incontro ormai prossimo, deviando il discorso in altre direzioni, il suo non riuscire a guardarmi negli occhi quando di notte mi ritrovavo ad urlare disperata il nome di suo figlio, pregandolo di tornare da me, pregandolo di non lasciarmi. E di nuovo quella parola vorticò nella mia testa: Distrazione.

«Che cosa è successo Bella?» Mi sentivo leggermente ferita dal suo comportamento. Mi stava praticamente portando alla forca. Non potevo pensare a quello che avrei trovato al mio arrivo. Possibile che Carlisle sapesse e avesse comunque insistito tanto per potami con lui? Il dolore mi colpì come una stilettata al cuore. L’immagine di Edward felice, con al braccio una ragazza immortale, bellissima, intelligente, forte, perfetta come lui, perfetta per lui, mi invase la mente appannandomi la vista come sale negli occhi. Edward e un'altra donna. Edward e una compagna. Edward e una vampira. Edward e la sua distrazione. Ignorai la sua domanda, ingoiai la mia codardia e puntai i miei occhi scuri e piccoli, nei suoi grandi e luminosi.

«Che cosa mi aspetta Carlisle?»

Silenzio.

«Carlisle. Per favore.» Dovevo sentirlo. Avevo bisogno di sentirlo, per sapere. Io dovevo sapere.

Ancora silenzio.

«Si tratta di Edward giusto?» Ancora silenzio. «Ha trovato una compagna vero? È questo che non hai mai voluto dirmi? È questa la tortura a cui Alice vuole sottopormi con questa messinscena? Perché? Non capisco? Spiegami. Cosa speri di ottenere così? È una trovata medica?»

Sempre silenzio. Mi guardava dispiaciuto, sofferente e impotente, occhi d’ambra liquidi per lacrime che non potevano essere versate, mi guardava come un padre che osserva sua figlia soffrire per un male troppo grosso, un male che nemmeno lui, con tutto l’amore che aveva da offrire, poteva guarire, mi guardava come il mio papà, mi guardava come Charlie. Lo sguardo sperduto, preoccupato, dopo l’abbandono di Edward, lo sguardo rassegnato di colui che sa che non può nulla per allievare un dolore troppo grande per essere capito, per essere guarito, troppo grande persino per essere vissuto.

«Carlisle…ti prego»

Chiuse gli occhi per un istante, dolorante. Come se stesse cercando di decidere quale decisione prendere e la scelta lo stesse dilaniando.

«Non dovrei parlartene.» mormorò roco, senza riuscire a guardarmi negli occhi. «Non spetta a me. Non spetta a me farti conoscere la verità. La sua verità.»

La sua verità? Non capivo di cosa stava parlando, quale verità? Lo guardavo ad occhi spalancati in attesa di uno sguardo, un sussurro, qualcosa, qualsiasi cosa potesse dare una conferma ai miei pensieri. Il mio cuore non osava sperare in una smentita.

«Carlisle, ti prego» lo implorai, udendo appena le mie parole, quasi nascoste dal frastuono del mio cuore. Le macchine sfrecciavano veloci accanto a noi, fermi, immobili, rinchiusi in quell’abitacolo trasformato in un confessionale, incuranti del mondo che andava avanti intorno a noi. Persi ognuno nel proprio dolore.

«Ho paura della sua reazione, della tua. Ho detto ad Alice di non intromettersi, di non forzare la mano del destino. Ma conosci tua sorella, quando si mette in testa qualcosa, non è possibile fermarla.» Parlava in fretta, concitato, senza curarsi di capire se lo stessi seguendo, sembra preso da una strana frenesia «Ma gli mancate tanto sai? Tutti e due. Tu e Edward, siete così importanti per lei. Come per me. È anche a me manca Edward. È mio figlio, ed è solo, da qualche parte…ha sbagliato, lo so, ma è mio figlio…e Esme, soffre così tanto…e Emmett…e Jasper, anche Rosalie…a modo suo.»

Carlisle continuava, perso in un fiume di parole. Sembrava le avesse tenute dentro per un tempo infinito ed ora, ora che la diga era stata spezzata, non poteva fare altro che lasciarle uscire, impetuose, indomabili, come un fiume in piena spazzavano via ogni silenzio, ogni segreto, ogni paura. Ma la mia mente vorticava insieme alla sua, cercando di dare un senso a quell’oceano di parole, cercando di collocarle al loro posto, senza impazzire dietro al loro significato. Ma qualcosa più di tutto aveva attirato la mia attenzione: “è solo, da qualche parte”.

Solo. Edward era solo. Come me. Solo. Da qualche parte.

Da qualche parte.

Continuavo a ripetere quelle parole, cercando di dar loro un senso, ma la mia mente non sembrava in grado di produrre nulla che avesse realmente un senso.

«Da qualche parte?» mi sentii chiedere, prima ancora di pensare di farlo. Carlisle si arrestò, immobile come una statua bellissima, come una pietra durissima, come una montagna maestosa, come un vampiro.

«Come?» chiese di rimando dopo un secondo. Puntai lo sguardo dritto nel suo. Un lampo di pentimento sul suo volto, subito seguito da uno di rassegnazione. Non avrei lasciato correre. Lo sapeva lui. Lo sapevo io.

«Bella, ti prego, è giusto che te ne parli lui. Lo vedrai tra poco. Te lo assicuro. Alice me lo ha confermato.»

«Hai detto che era da solo! Da qualche parte! Che significa?!» ero leggermente isterica, me ne rendevo perfettamente conto, ma la mia ansia era incolmabile. Cosa era successo al mio Edward? Cosa lo aveva spinto a starsene da solo…lontano, lontano abbastanza perché suo padre o la sua famiglia ignorassero la sua ubicazione? Conoscevo Edward, lui amava suo padre, amava la sua famiglia, cosa poteva essergli successo per rinunciare a loro.

«Bella calmati. Non agitarti.» mi liberai dalle sue mani che erano corse sulle mi spalle, in un vano tentativo di fermare i miei tremori.

«NO. NO. Dimmelo! Dimmelo! Voglio saperlo! Che significa!? Dimmelo!» Respiravo affannosamente, le lacrime scendevano senza che potessi far nulla per fermarli, il cuore mi batteva così forte che mi faceva male. Portai una mano al petto per riflesso, nel vano quanto stupido tentativo di alleviare il dolore. Carlisle inspirò bruscamente, sembrava terribilmente spaventato dalla mia reazione e terribilmente indeciso su cosa fosse giusto fare. Improvvisamente si passò le mani tra i capelli, esattamente come avrebbe fatto un umano sull’orlo di una crisi di nervi. In quel gesto mi ricordò così tanto Edward che fu quasi doloroso guardarlo. Si mosse di nuovo, veloce, afferrandomi ancora per le braccia impedendomi di agitarmi. Il movimento improvviso mi tolse il fiato per un attimo.

«Va bene Bella. Va bene. Ha vinto. Ti dirò quello che sta succedendo, ma prima tu ti calmi. È un patto che facciamo. D’accordo.»

Strinsi gli occhi e presi fiato, cercando di imprigionare l’aria nei miei polmoni abbastanza a lungo per permettermi di parlare.

«Da-da-d’accordo

 

Edward

Settecentoventi giorni, 21 ore, 31 minuti e 44 secondi.

Emicrania. Era quello che mi sussurrava la ragione in questo momento. Il dolore pulsante, la mente confusa, gli occhi neri nonostante la caccia, le membra stanche, la spossatezza. Emicrania.

Ero in Alaska da... da un po’. Il viaggio non era che una macchia confusa nella mia memoria. Corsa, corsa, caccia, corsa. Il tutto mischiato con parole, parole irricordabili, parole che non arrivavano mai ad essere assorbite dalla mia mente.

Alice.

Alice era con me. Un bacio sulla guancia. Un carezza sulla nuca. Ancora corsa.

Occhi tristi. Occhi di mia sorella. La pioggia. Il sole. La notte. Il giorno. Le nuvole. La neve. Casa. Mamma. Neve. Neve. Neve.

Aurora. Rosso. Bianco. Raggi rossi su neve bianca. Bianca come la pelle di una giovane donna dai capelli castani e gli occhi di cioccolato. Rosso come il liquido che scorre sotto le vene di una pelle diafana, sottile, fragile. Rosso come il sangue che le imporpora le guance dopo una parola sussurrata, dopo un bacio rubato.

“Il crepuscolo” sussurra la mente di mia madre. Aurora. Bella. Risponde, muta, la mia.

La mia mente.

Perforata da migliaia di pensieri, domande, preoccupazioni, preoccupazioni per me, da ore. Voci riempivano i vuoti lasciati tali da troppo tempo. Le loro voci. La mia famiglia.

Io. Chiuso in un religioso mutismo. Non volevo, non potevo, parlare con nessuno. Non ne avevo forza, né volontà.

La mia mente aveva registrato variazione innegabili nelle persone che mi circondavano. Cambiamenti avvenuti dopo quel giorno nel bosco. La mia famiglia era cambiata. Quando ero arrivato qui, in Alaska, nella nostra vecchia casa, avevo subito notato una mancanza importante, mio padre, Carlisle, non c'era. La mia coscienza, il mio pilastro, la metà buona del mio mostro.

Mi erano bastati pochi pensieri rubati, per capire che non era solo assente, ma mancava da tempo. Lo leggevo nei pensieri pieni di interrogativi dei mie fratelli, in quelli preoccupati e nostalgici di Esme. Tuttavia la mente di mia sorella, l'unica che avrebbe potuto darmi delle risposte, era stranamente...sfuggevole. Cercava di evitare di pensare a qualcosa, ma ero troppo apatico, e troppo disinteressato per impegnarmi a scoprire di cosa si trattasse.

Quella mancanza mi aveva scosso, sottraendomi per pochi secondi alla mia agonia, poi tutto era crollato di nuovo. Come prima. Peggio di prima.

Mi mancava la mia sofferenza, la mia solitudine, il mio purgatorio. Un purgatorio dove potevo vivere ogni istante nel ricordo dei suoi sorrisi, delle sue risate, del tocco delle sue labbra sulle mie.

Bella...

Settecentoventi giorni, 21 ore, 33 minuti e 18 secondi.

E poi finalmente silenzio. Piano piano avevano smesso di fare domande, rassegnati al fatto che comunque non avrebbero ricevuto risposta. Li ringraziai mentalmente. Lasciando libera la mia immaginazione di richiamare ancora il suo ricordo a farmi compagnia.

Volevo toccarla ancora, anche solo una volta, per poter sentire il suo profumo, così dolce e così tentatore. La mia droga. La mia estasi.

Bella...

In piedi, in veranda, con lo sguardo perso nel paesaggio freddo e bianco dell'Alaska - lo stesso che avevo fissato a lungo per ore, quando ero scappato da lei, quel giorno, subito dopo la lezione di biologia più lunga della mia vita, lo stesso paesaggio che mi aveva mostrato la via da percorrere, lo stesso che mia aveva spinto di nuovo da lei – li immobile, osservavo il tempo passare.

Settecentoventi giorni, 21 ore, 39 minuti e 13 secondi.

In lontananza un rumore di pneumatici che sfrecciava sull'asfalto coperto di neve. Non ci badai, era un rumore come tanti, o almeno non ci badai finché non sentii i pensieri della mia famiglia martellarmi il cranio.

Erano in fermento. Sospirai seccato.

Finalmente, mi è mancato così tanto” Esme.

Quindi era Carlisle. Rimasi immobile, vedendo i membri della mia famiglia accalcarsi, uno dopo l'altro, sul ciglio della strada, in attesa, impazienti di un padre che faceva ritorno.

Un pensiero però, un pensiero volutamente rivolto a me, richiamò il mio interesse.

Edward...sta calmo” Alice.

Ansimai. Di che parlava adesso? Da quando ero arrivato ero rimasto qui, su questa veranda a fissare il vuoto. Non avevo mai parlato, non avevo mai mosso un solo muscolo, non avevo rivolto nulla a nessuno. Solo un sorriso, ad Esme, per farla felice. Era stata dura già solo fare quello, ogni relazione con il mondo esterno, con la realtà, la realtà in cui lei non c'era, mi infieriva un immenso dolore. Morte, ti aspetto. Mi senti?

Vidi nella mente di Alice formarsi l'immagine di me, che confuso le porgevo la mia domanda.

Capirai...solo cerca di...non fare...niente di stupido”

Ancora pensieri trattenuti.

Annuii appena.

Nessuno si accorse di nulla. Come sempre quando io e lei comunicavamo.

Non avevo la minima idea di quello che stava dicendo, ma annuii comunque sperando che mi lasciasse in pace.

Ovviamente avevo sperato troppo.

Avresti almeno potuto cambiarti, da quanto tempo indossi quei vestiti?”

Non risposi.

Alzò gli occhi al cielo. “Va non importa, non lo noterà nemmeno”

Alzai un sopracciglio. Come se a mio padre potesse importare cosa indossassi. Perchè era così insistente? Perché non mi lasciava solo?

Eccoli!”

Eccoli. Plurale. C'era qualcun altro? Non feci in tempo a finire il pensiero che un suono, un suono che avrei riconosciuto in mezzo a una folla di mille altri suoni, mi colpì in pieno petto. Era vita, era amore, era morte, era tormento. Era paradiso. Era inferno.

Tutum, tutum, tutum...

Il suo cuore. Il mio cuore. Bella.

Le forze mi vennero meno, tante erano le emozioni che mi attraversarono in quel momento, troppe per un vampiro. Le mie mani si artigliarono alla grossa trave di legno che reggeva il tetto della veranda, in un disperato tentativo di sostegno, per impedirmi di crollare a terra, in ginocchio. Scricchiolò sotto la mia presa.

Animata da una forza più grande della mia volontà, la mia testa si voltò lentamente, a seguire quel dolce suono ipnotico, in grado di riportare in vita il freddo cuore di un vampiro e di scaraventarlo all’inferno.

Profumo di fresia.

Bella.

 

 

 

 

 

                                                                                                                                             

 

 

   
 
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