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Autore: fourty_seven    07/05/2014    2 recensioni
Se vi state chiedendo chi io sia... beh lasciate perdere non ne vale la pena. Tuttavia per coloro che sono ugualmente interessati posso dire che sono un ragazzo con dei "problemi".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Non ho sentito la sveglia. È il secondo giorno che vado a scuola e già inizio a non sentire la sveglia. È proprio vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Due anni fa quando si presentava una situazione come questa, cioè praticamente ogni giorno, mi scaraventavo giù dal letto, mi vestivo in un picosecondo, scendevo in cucina, afferravo una fetta di pane tostato, che avrei mangiato sull’autobus; uscivo di casa con la fetta di pane in bocca, mentre mi sistemavo lo zaino, poi correvo fino alla fermata per non perdere l’autobus.
Ora invece me ne frego. Esco lentamente dal letto, scendo tranquillamente a fare colazione, poi vado con calma a scuola.
Arrivo con quaranta minuti di ritardo. Busso e apro la porta; alla cattedra c’è una donna, che mi guarda con un’espressione omicida appena metto piede nell’aula.
“Cosa vuole?” mi chiede in modo brusco.
“Seguire la lezione?” rispondo, mentre vado al mio posto. E penso che capisca chi sono, perché la sua espressione cambia: l’ostilità cede il posto alla pietà.
“Ah, sì. Lei è lo studente appena trasferito, si accomodi” mi dice, poi riprende a parlare.
“Ce l’hai fatta, cominciavo a disperare” mi sussurra Sarah.
“Scusa, non ho sentito la sveglia”.
“Uhm, crediamoci”.
“Quella chi è?”. Lei fa uno strano sorriso: “La professoressa di letteratura”.
“No! Dimmi che è uno scherzo!”, lei scuote la testa sorridendo divertita.
“Maledizione, devo imparare a leggermi l’orario prima di venire a lezione”.
Sono costretto a sorbirmi due ore di letteratura. Una vera tortura, beh non così insopportabile come quelle là.
L’ora successiva è quella di matematica; seguo Sarah e le sue amiche che si sono presentate, anche se ho già dimenticato tutti i loro nomi.
Entriamo in un’aula completamente diversa dalla precedente; se in quella, come in ogni altra, ti sembra di essere in prigione, qui no. È luminosa, in primo luogo, così tanto luminosa, che forse converrebbe indossare degli occhiali da sole; poi è piena, ma piena, di poster, non c’è nemmeno un centimetro di parete libera. Do un’occhiata generale e capisco che l’argomento principale dei poster è matematica; ci sono scritte formule, oppure compaiono ritratti di illustri matematici del passato.
“Oh, ben arrivati miei prodi! Sopravvissuti anche oggi all’ardua sfida letterale! Complimenti!” e parte un applauso, mentre i miei compagni si mettono a ridere. Guardo chi ha parlato, e rimango di sasso. È stato il professore, di matematica ovviamente, che, ovviamente, sta seduto alla cattedra, la quale non assomiglia per nulla ad una cattedra, così come lui non assomiglia per nulla ad un professore.
Innanzitutto al momento è stravaccato su una sedia a sdraio e ha i piedi appoggiati sulla cattedra; piedi a cui sono infilati un paio di infradito, le quali si accompagnano alla camicia a fiori stile Hawaiano e ai boxer da mare; in più porta un paio di occhiali da sole e al polso ha il braccialetto di una discoteca. La cattedra invece; innanzitutto sul bordo esterno, rivolta verso la classe, c’è la tipica statuetta Hawaiana, che al posto della collana di fiori, ha al collo un cartello, con scritto: “Qui il capo sono IO”. Poi attorno a questa ci sono un po’ di pile di fogli, di natura varia; nell’angolo in basso a destra vi è una serie di bicchieri vuoti, che sicuramente NON contenevano semplice acqua e, per finire, nell’angolo in basso a sinistra c’è una pantegana impagliata, sul cui piedistallo è inciso:
 
Mr. Cheese   Born 11-04-2037   Dead 02-21-2045.
 
“Oh, e qui chi abbiamo? Una new entry?” dice alzandosi.
“Ehm... Sì” rispondo.
“Ma non sei un po’ più grande degli altri?” continua.
“Effettivamente ho perso un paio d’anni”.
“E come mai?”. Al che rimango spiazzato. Fortunatamente mi viene in aiuto Sarah: “Per principio né legge i giornali, né guarda i notiziari. Lui crede solo a ciò che vede con i suoi occhi e sente con le sue orecchie”. Ah, bene, ho idea che andremo molto d’accordo!
Gli sorrido: “Nulla di che; ho deciso di conoscere un po’ il mondo”. Poi vado a sedermi, sempre accanto a Sarah.
Devo ammettere che matematica mi è sempre piaciuta, più delle altre materie. Ma con lui è tutta un’altra storia. Le due ore passano in un lampo e quando suona la campana mi unisco anch’io alla protesta generale: nessuno ha voglia di andarsene.
“Dai ragazzi sparite, che ho voglia di tornare a casa!” ci dice, quando vede che nessuno si è ancora alzato dal proprio posto. Così la classe lentamente comincia a svuotarsi. Quando passo davanti alla cattedra, il prof mi ferma.
“Aspetta ragazzo”, lo guardo, “Mi piacerebbe ascoltare la tua storia, appena sarai pronto”, poi mi sorride e mi congeda con un gesto della mano. Io esco, un po’ sorpreso, perché non so come interpretare la sua frase.
“Non avevi detto che lui non è informato su ciò che succede nel mondo?” chiedo a Sarah, appena la raggiungo.
“Sì, è vero; ma a volte fa, o dice, cose che ti sorprendono. A volte ci da l’impressione di essere capace di leggerti l’anima” risponde. Sì, ha ragione.
Andiamo in giardino a mangiare, non fa ancora così freddo. Mangio in silenzio senza prestare attenzione a ciò che ho attorno.
“Ehi, sei con noi?” dice Sarah, scuotendomi per un braccio.
“Eh? Cosa?” dico tornando alla realtà.
“Hai sentito cosa ti ha chiesto?”.
“No, scusa ero perso nei miei pensieri”. Si mettono tutte e tre a ridere, poi un’amica di Sarah, che se non sbaglio si chiama Samantha, mi chiede: “Volevo sapere i tuoi progetti per questo fine settimana?” mi chiede dopo un po’
“Non ne ho idea, vivo abbastanza alla giornata” rispondo.
“Allora, se non ti capiteranno impegni più urgenti, sei invitato alla mia festa di compleanno!”.
“Sul serio?”.
“Sì, perché c’è qualche problema?”.
“No, nulla. Cioè mi hai un pochino sorpreso; ci conosciamo da appena un giorno”.
“Ma Sarah ti conosce da sempre e so che non sarebbe mai amica di uno psicopatico, e poi oggi è solo martedì, quindi abbiamo ancora quattro giorni per fare amicizia!” conclude sorridendo. Io faccio spallucce: “Se tu non hai problemi, ci sarò!”.
“Perfetto!” dice alzandosi dal tavolo, “Ah, non preoccuparti del regalo, non penso che tu possa permetterti ciò che vorrei avere!” aggiunge, poi scappa via, dato che non ha i miei corsi pomeridiani e i suoi stanno per iniziare.
“Sbaglio o mi ha appena dato dello straccione?” chiedo a Sarah, lei e l’altra sua amica scoppiano a ridere. “Sì, e lo farà ancora. Vuol dire che sta iniziando ad entrare in confidenza con te, quindi preparati a ricevere un trattamento simile almeno una volta al giorno!” mi spiega Sarah, poi l’altra aggiunge: “Non lo fa con cattiveria, semplicemente non ci arriva. Comunque a parte questo piccolo difetto è una bravissima persona, sempre disposta ad aiutarti”. Rimaniamo ancora qualche minuto, poi anche per noi giunge l’ora di andare a lezione.
Arriviamo nell’aula di biologia; la cara vecchia aula di biologia, con la cara vecchia Miss Witchcraft, vecchia megera. Seguo Sarah, ma vedo che il posto accanto al suo è già occupato da un altro ragazzo.
“Ah già, mi ero dimenticata di dirti che io ho un compagno fisso di laboratorio, quindi penso che dovrai...” inizia.
“Non c’è problema; inoltre qui siamo troppo vicini alla vecchia per i miei gusti”. Mi allontano, lanciando un’occhiata al tipo: capelli corti a scodella, occhiali grandi come il suo volto, apparecchio ai denti, acne ovunque, maglioncino da nonno, insomma il classico cervellone. I tipi come lui non mi sono mai stati antipatici, anzi trovo la loro compagnia interessante, soprattutto perché imparo più cose sentendoli parlare che studiando, questo perché, ovviamente, non studio. Tuttavia questo non mi fa una bella impressione; non mi piace per niente dove guarda, e soprattutto come guarda, Sarah. Però non sono affari miei, quindi tiro dritto e vado verso l’ultimo bancone, l’unico con un posto libero e, quando arrivo, capisco perché è libero. Con i gomiti appoggiati al tavolo, c’è un ragazzo di colore, ad occhio deve essere più grande di me, un bel barbone gli copre metà viso e una bella cicatrice gli attraversa l’occhio sinistro. Mi rivolge una rapida occhiata, poi torna a farsi gli affari suoi; io mi siedo, facendomi gli affari miei. Sicuramente saremo ottimi amici.
Passo, come ero abituato a fare, tutte e due le ore dormicchiando e scarabocchiando sul quaderno. Mi piacerebbe moltissimo fare biologia, ma purtroppo non la si fa! Non con lei. Dopo che una decina d’anni fa un suo studente ha rischiato la vita durante una sua ora, perché ha maneggiato sostanze che non doveva, lei ha deciso di smettere di fare laboratorio e le sue ore sono solo teoriche. In più ogni anno che passa è sempre peggio, lei ormai è così malandata da non riuscire più ad alzarsi dalla sedia, poi è quasi sorda e, a furia di urlare per sentirsi, sta perdendo la voce. Insomma le sue lezioni non sono mai riuscito a sopportarle.
Ad un certo punto mi accorgo che il “ragazzo” di fianco a me si sta studiando con molta passione il libro di biologia, lo ha quasi finito. Lancio un’occhiata al suo zaino aperto ai miei piedi e lo vedo zeppo di libri, chissà per quante ore al giorno studia. Ciò dimostra quanto le persone siano ignoranti a volte.
Appena suona la campana questo si alza ed esce di corsa, io, invece, raggiungo con calma Sarah, che è ancora seduta a chiacchierare con il tipo occhialuto. Cerco di fare più rumore possibile avvicinandomi, così da costringerli ad interrompersi.
“Ehi, come hai trovato la lezione?” mi chiede Sarah.
“Esattamente uguale a quelle che seguivo due anni fa: molto riposante”. Mi guarda un po’ incerta.
“Nel senso che come sempre ho dormito per tutte e due le ore”.
“Ah” poi sorride titubante, rivolgendo un’occhiata al suo amico, per vedere la sua reazione. L’ho messa in imbarazzo.
Okay, promemoria: smettere di essere così capra e cercare di farmi una minima cultura.
Poi il tipo, sentendosi escluso dalla conversazione, interviene. Si alza in piedi: “Devi essere quello nuovo” e mi tende la mano “Piacere io sono Richard”.
“Io no” dico, stringendola. Ritrae la mano un po’ imbarazzato, mentre io lo guardo con un sorriso, appena accennato, di scherno.
“Uhm, così ti sei seduto al banco con Jason” continua. Assumo un’espressione interrogativa e Sarah mi spiega: “Il ragazzo all’ultimo posto”.
“Ragazzo! Altro che ragazzo, quello è una bestia, basta vedere la cicatrice che ha sull’occhio” dice ancora Richard, credendosi simpatico; infatti fa anche una risatina, tanto fastidiosa. Io lo guardo serio: “Molto probabilmente è più istruito lui di te; senza dubbio è stato educato meglio, dal momento che non insulta persone che non conosce” e questo lo smonta completamente. Abbassa lo sguardo e, dopo un paio di tentativi infruttuosi, rinuncia a cercare di ribattere e se la squaglia, salutando a bassa voce Sarah.
Appena se ne è andato esclamo: “Come puoi stare nello stesso banco di quell’idiota!”, ma penso di aver detto qualcosa di sbagliato, perché lei mi guarda male.
“Di solito non è così. Comunque anche tu non ti sei sforzato molto di essere gentile!” dice seria, mentre si alza dal banco.
“E perché avrei dovuto?”.
“Mah, non saprei, forse per fare amicizia?” ribatte con tono ironico.
“Con quello? Ma neanche per idea! Te l’ho detto, mi sto chiedendo come tu abbia fatto a sopportarlo per un anno!”. La sua espressione cambia, da arrabbiata diventa triste; solleva una mano e l’appoggia sulla mia guancia: “Cosa ti è successo? Prima non eri così...”, non finisce la frase, forse perché non trova le parole adatte. Ma l’aiuto io: “Così freddo, distaccato, incurante degli altri? Semplice: sono stato in guerra”. Poi mi volto e me ne vado. Esco dalla scuola e prendo una direzione a caso.
Cammino, continuo a camminare anche se i miei occhi non vedono più l’asfalto.
 
 
Non posso, non riesco più a resistere. Eppure sembro l’unico, gli altri continuano ad andare avanti, senza guardarsi indietro, come se tutto ciò non fosse mai accaduto. Come se nessuno notasse che manca qualcuno, proprio alla mia destra; è accaduto tutto troppo in fretta, nessuno si è reso conto dell’attacco se non quando William è caduto a terra, morto. Aveva ventuno anni solo tre più di me. Era sempre ottimista, certo che saremmo riusciti ad uscire da quest’inferno, anche se è da più di un mese che vaghiamo senza meta.
Ora è morto, e sembra che nessuno se ne interessi.
Tom ordina di fermarsi, siamo abbastanza lontani dal luogo dell’imboscata e alcuni di noi sono feriti; io no, dopotutto non ho partecipato molto. Mi avvicino a Tom. “Come fate...” inizio, lui si volta a guardarmi, “Come potete continuare come se niente fosse? È appena morto un nostro compagno e sembra che non vi interessi minimamente!” esclamo.
“Cosa pretendi. Un rito funebre? Che rimaniamo qui a pregare per lui tutto il giorno?” ribatte Tom.
“No, certo che no. Però un minimo, sono l’unico che è dispiaciuto dalla sua morte!”.
“Chi lo dice. Guardati attorno”.
Faccio come dice: guardo gli altri, guardo i volti degli altri e mi accorgo che anche loro stanno soffrendo, che anche loro sentono il vuoto lasciato da Will. “Non sei l’unico. Non puoi capire quanto sia stanco, quanto tutti noi siamo stanchi, quanto vorremmo poter fermarci e piangere per lui, per lui e anche per tutti gli altri morti. Ma non possiamo. Non possiamo perché farlo significherebbe smettere di lottare per sopravvivere, e la sopravvivenza è l’unica cosa che conta in guerra, kid. Sicuramente qualcuno potrebbe criticare le mie parole, molto probabilmente qualcuno potrebbe dire che un vero uomo, un vero essere umano, lo si riconosce in situazioni come questa, perché continua comunque a mantenere intatta la sua umanità. Probabilmente è la verità, ma io ho una mia personale idea su chi sia un vero uomo. Un vero essere umano lo si riconosce dal fatto che non arriverebbe mai a compiere azioni simili, un vero uomo è colui che non muoverebbe mai guerra contro un suo simile. Noi ormai non lo siamo più e, di conseguenza, non possiamo più permetterci certi lussi”. Io rimango immobile a fissarlo, scioccato, quasi incapace di accettare le sue parole. Ma una voce, una voce flebile, che cerco di non ascoltare, mi dice che ha ragione e prima lo accetterò, più alte saranno le possibilità che io riesca tornare a casa, vivo.
 
 
Mi ritrovo davanti alla mia panchina; ci sono arrivato inconsciamente.
Perché ho ripensato a quel discorso? Per ciò che ho detto a Sarah? È vero, là ho imparato a nascondere i sentimenti, ho imparato a pensare prima di tutto alla mia sopravvivenza, mia e degli altri assieme a me. Come mi aveva insegnato Tom; solo che ora sono tornato, non sono più in mezzo ad una giungla, non devo più lottare con tutte le mie forze per sopravvivere. Perché allora continuo a comportarmi in quel modo? Perché non riesco a tornare completamente alla mia vita di prima?
Perché in realtà non sono tornato, perché in realtà io sono ancora là in mezzo a quella maledetta giungla, esattamente come due anni fa. Anzi no, esattamente no, qualcosa è cambiato: ora sono solo, ora non ho più nessuno che mi possa aiutare, dato che tutti i miei compagni sono morti.
Mi lascio cadere sulla panchina, sorridendo; le conclusioni a cui sono appena giunto sono le stesse cose che mi sono sentito dire da tutti gli psicologi da cui sono andato. Solo che io ho capito una cosa in più, cioè che in verità io non voglio tornare. Non ancora, almeno.
Passo il resto del pomeriggio a fare ciò che ho sempre fatto: guardare gli altri vivere. Verso sera, forse le cinque, compare Fred tirando un carrello pieno di cianfrusaglie. Mi saluta, poi si siede sulla panchina affianco a me.
“Come va giovanotto?” chiede.
Mi stringo nelle spalle: “Potrebbe andare meglio” rispondo.
Lui sorride e aggiunge: “Certamente, ma potrebbe andare anche peggio. Guarda me ad esempio!” esclama, poi si mette a ridere e io lo imito.
Quando finiamo rimaniamo per qualche minuto entrambi in silenzio, a fissare il nulla; poi lui si volta e mi guarda negli occhi, con un’espressione seria: “Ragazzo, non sprecare la tua vita, finché ne hai ancora una. Qualunque cosa ti sia capitata, è successa nel passato e devi riuscire a superarla, per poter tornare a vivere nel presente”.
“Forse non voglio tornare a vivere nel presente, forse voglio continuare a vivere nel passato per non dimenticare”.
“Ma io non ho detto di dimenticare. Guai a te se abbandoni il tuo passato! Senza non saresti più nulla; io ti sto consigliando di cercare di guardare oltre, oltre il tuo passato, mantenendolo comunque ben visibile di fronte a te”. Ritorno a guardare il lago. Lui mi da una pacca amichevole sulla gamba, poi aggiunge: “Pensaci mi raccomando. Rifletti bene sulle mie parole, sarò pure un barbone, ma qualcosa della vita l’ho capita”; poi si alza e afferra il suo carrello, “Ti saluto figliolo; si è fatto tardi e ho ancora un po’ di faccende da sbrigare”.
“Certo Fred, ci vediamo domani”.
“No, domani no” dice, poi si incammina.
 
Al mattino mi risveglio riposato, per la prima volta non ho avuto incubi. Così bello rilassato mi preparo per andare al scuola. Prendo addirittura l’autobus! Anche se forse non avrei dovuto farlo, dato che un gruppo di piccoli mocciosi di prima passa tutto il viaggio gridando talmente forte, che ad un certo punto l’autista si ferma in mezzo alla strada e intima loro di stare zitti, altrimenti li avrebbe fatti scendere a calci dal mezzo. Dopo la sua sfuriata i bambinetti si siedono tranquilli, mentre parte un applauso generale rivolto all’autista, che prima di sedersi al posto di guida mima un mezzo inchino.
Arrivo in classe abbastanza di buon umore. Tanto che, quando raggiungo Sarah e le sue due amiche, esordisco con un “Salve gente”, che scatena l’ilarità generale. Poi le due se ne vanno, lasciandomi solo con Sarah, che immediatamente si siede di fianco a me: “Volevo chiederti scusa per ieri, io...”, la interrompo alzando una mano: “Sono io che mi devo scusare. Mi spiace, non avrei dovuto comportarmi in quel modo”. Mi torna in mente l’ultima cosa che Fred mi ha detto ieri e mi viene un’idea. “E a proposito che ne diresti se ci vedessimo oggi pomeriggio dopo scuola per prendere un caffè?” chiedo; appena finisco di parlare le si illuminano gli occhi: “Dico che è una bellissima idea!”.
“Se vuoi possono venire anche...” dico indicando con un cenno le sue amiche.
“Samantha e Carol” mi suggerisce.
“Samantha e Carol, non mi li dimenticherò”.
“Sì, va bene, chiederò” mi risponde, anche se con un tono strano. Ma non posso indagare oltre perché entra il professore, uno degli ultimi due che non ho ancora visto.
Trascorro tranquillamente la mattinata, anche perché ho ancora matematica. Però mentre sto andando in mensa a mangiare con Sarah, ricevo una brutta notizia: al pomeriggio mi aspettano due ore di storia.
“Se vuoi posso saltarla anch’io, così ti faccio compagnia!” mi propone Sarah.
“Non se ne parla. Tu segui la lezione, non vorrei mai che i tuoi pensino che la mia compagnia ti faccia male! Non preoccuparti per me, andrò a casa a mangiare e a studiare qualcosa. Ci vediamo al solito bar per le cinque?”. Lei annuisce. Io mi volto e me ne vado. Mi incammino tranquillamente sulla strada per tornare a casa.
Non ho la minima intenzione di rivedere quel bastardo.
Sono a metà strada quando un pensiero improvviso mi attraversa la testa, un pensiero che mi fa scoppiare a ridere, così forte che mi devo fermare e appoggiami al muro di una casa per evitare di cadere a terra. Un uomo, che mi passa di fianco, si ferma preoccupato e mi chiede: “Tutto bene signore?”, io prima di vederlo bene in faccia, mi devo asciugare le lacrime dal viso, poi rispondo: “Mai stato meglio”, detto ciò mi volto e comincio a camminare verso scuola.
Non vedo il motivo per cui solo quello di storia si possa divertire.
Arrivo di proposito con un quarto d’ora di ritardo; apro la porta con un po’ di forza, faccio un passo in classe e mi fermo sbattendo i tacchi, mettendomi sull’attenti e esibendomi in un perfetto saluto militare: “BUON GIORNO SIGNORE! SCUSI IL RITARDO SIGNORE!” grido, come mi avevano insegnato a fare. E ottengo il risultato sperato: spalanca gli occhi talmente tanto, che rischiano i uscirgli dalle orbite, mentre un bellissimo colore rosso peperone gli colora la faccia. Io rimango fermo sull’attenti, per qualche istante, giusto il tempo che gli serve per riprendersi dallo stupore, poi mi intima: “Vada immediatamente al suo posto”.
“SISSIGNORE SIGNORE! SUBITO SIGNORE!” urlo ancora più forte di prima; questa volta, soprattutto perché la porta è rimasta aperta, mi ha sentito tutto il corridoio. Batto nuovamente i tacchi e mi muovo verso il mio posto con una camminata in perfetto stile militaresco.
Mi siedo, mentre lui cerca faticosamente di riprendere il filo del discorso, che ho interrotto con il mio intervento. Sarah, che sta a cercano a fatica di evitare di mettersi a ridere, mi sussurra: “Sei stato fantastico”, le sorrido, poi mi accorgo che molte altre persone mi stanno guardando, un paio mi alzano il pollice, altre mimano un applauso. Insomma ho fatto colpo.
Infatti alla fine delle due ore, quando il prof se ne va, alcuni mi si avvicinano. “Era ora che qualcuno gli facesse abbassare la cresta! Ormai era diventato insopportabile!” dice qualcuno.
“Beh, contento di essere stato utile” rispondo, mentre esco dalla classe assieme a Sarah.
Le ho promesso un caffè e non ho la minima intenzione di rimangiarmi la parola data.
  
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