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Autore: Tomi Dark angel    08/05/2014    6 recensioni
Mi chiamo John Watson e vivo a Londra. È dodici giorni a nord di disperazione e pochi gradi a sud di piogge torrenziali. Si trova esattamente sul meridiano della miseria. La mia città, in una parola è… solida. (...) L’unico problema sono le infestazioni: in alcuni posti hanno topi o zanzare. Noi invece abbiamo… i draghi.
Johnlock
Genere: Generale, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La guerra è una creatura capricciosa. Non sta agli ordini di nessuno, non ascolta il grido dei moribondi né il pianto dei vivi. Semplicemente, essa fa ciò che più gli interessa fare, sta ai suoi stessi comodi e nessun mortale sa piegarla al proprio volere. Fu così allora, è così anche adesso.
Quando la terra comincia a tremare, è notte fonda. John leva lo sguardo sul soffitto, studia senza timore il vibrare spaventato della terra sotto i suoi piedi. Questo non lo preoccupa, lui della guerra non si preoccupa mai. Eppure, ci sono persone all’esterno che la temono, gente che non sa respirarla, che da essa si sente avvelenata. Il suo pensiero trova conferma nell’istante in cui un unico grido, un’unica parola, ha il potere di scatenare il caos.
-DRAGHI!!!-
Di nuovo. È passato troppo poco tempo dall’ultimo attacco. Non va bene, non va bene per niente.
Fuori, oltre la finestra, la porta e le mura del palazzo, esplode il panico. La gente comincia a urlare, si scaglia per strada, sviene, si immobilizza. Altri ancora cadono in ginocchio, si coprono la testa come se questo potesse fermare le fiamme delle bestie o addirittura respingerle.
Il primo assassino dell’uomo, si conferma infine l’uomo stesso: non sono i draghi a calpestare i caduti tra la folla fino ad ammazzarli. Le prime vittime, le mietono gli uomini, e il panico che essi non sanno controllare.
John afferra la pistola, infila la giacca appesa allo schienale della poltrona ed esce. La gente cerca di travolgerlo, non guarda in faccia nessuno che non sia una vana ancora di salvezza. John li schiva tutti, li oltrepassa, balza oltre i corpi massacrati dei caduti. In strada, che cerca di sfilare tra le auto impazzite, vede un bambino: sta attraversando, ma i pochi stupidi che hanno scelto di cercare di allontanarsi dalla città in macchina, non rallentano davanti a niente. È per questo che quando un’auto corre incontro al bambino, tamponando gli altri mezzi di trasporto, John si sorprende già fisicamente pronto ad aiutarlo.
Si getta in strada, afferra il piccolo per i fianchi e scatta di lato, ruotando su se stesso per sottrarre il piede alla morsa delle ruote stridenti sull’asfalto accidentato. Sono azioni precise, moderate, da soldato. Sa bene cosa fare e sa come farlo.
John si ferma, volta le spalle all’auto che sbanda e va a schiantarsi contro un muro.
-Vai a nasconderti.- ordina al bambino,e  per un attimo si sente nuovamente soldato. Non ne è felice. Essere soldati è sbagliato. Uccidere è sbagliato. Combattere un’inutile guerra è sbagliato.
Il bambino scappa e la sua piccola figura si oscura, sparisce insieme al resto della strada mentre un’ombra si propaga sulla città, la soffoca di buio e la inghiotte senza fatica.
John solleva lo sguardo, fissa senza timore le bestie gigantesche che calano sulla città. Le vede sfrecciare raso terra, brillanti di squame preziose più dei diamanti, per poi risalire aggraziate, padrone del loro cielo, della loro battaglia senza senso. John li ammira tutti, osserva i draghi incantato dalla loro fluidità, dalla loro grandezza. Ma sono sempre stati questo, dopotutto. Hanno sempre vinto loro, hanno sempre spezzato vite. Sono stati padroni una volta di troppo… e adesso che John li conosce, sa cosa fare. Non combatterà per assoggettarli, ma per respingerli.
Scatta agile, balza sul tettuccio di un auto e lo oltrepassa. Sopra di lui, un lampo vermiglio che ammicca e poi scompare. Irene?
Più veloce, John.
Il corpo si sforza, le gambe gonfiano i muscoli. E d’improvviso, John si sente vento. Non ascolta più le grida, non vede più i feriti. Ora osserva soltanto il suo obbiettivo, lo persegue senza sosta, come schiavo che insegue il padrone. È agile, forte, preciso. Sa dove mettere i piedi, sa dove svoltare per raggiungere il palazzo ancora integro e più alto della città.
Scarta di lato, schiva un palo in caduta libera. È veloce come una pantera, assiduo come una iena, possente come un leone. D’improvviso, senza rendersene conto, è soldato un’altra volta.
Con un balzo oltrepassa il corrimano smantellato, sale le scale, sfila per i corridoi. Scavalca piani e piani, sale sempre più su finché non sfonda la porta del terrazzo con una banalissima spallata.
E adesso?
Non è una domanda semplice da affrontare, non davanti allo spettacolo che gli si pone dinanzi: i draghi stavolta, sono così tanti da oscurare totalmente il cielo, come immenso sciame di insetti. Alcuni sono piccoli come elefanti, altri giganteschi e con uno sguardo assassino negli occhi. Appaiono come bestie vendicatrici, dei di antica era pronti a punire i mortali per non averli adorati come dovevano.
D’improvviso, uno di loro cala, fa sgusciare l’immensa mole verso terra. A metà strada, piega le ali e si raddrizza, poi si lascia andare finché le zampe poderose, massicce come colline non si schiantano al suolo, annientando l’asfalto, le persone e qualsiasi ostacolo cerchi invano di intralciarle.
Il drago ha le ali che abbassandosi poggiano sui tetti delle case tutto intorno, il corpo muscoloso ricoperto di scaglie d’opale e la testa grossa come un palazzo, col muso ricoperto di creste e la parte posteriore del cranio ornata di membrane traslucide e punte acuminate. È bellissimo, terrificante. Appare agli occhi degli uomini come la più potente macchina da guerra mai concepita da madre natura.
Ma la parte più terribile, sono gli occhi: antichi, quasi bianchi, folli di una rabbia incontrollabile, apocalittica, senza freni né coscienza. Occhi immensi, che hanno visto e giudicato lo scorrere di ere, il nascere degli uomini.
Quello è un drago vero.
Quello è un drago nato e rimasto bestia, senza coscienza né principi.
John si immobilizza, per la prima volta dopo tanti anni sente la paura strisciargli sotto la pelle, attraverso i muscoli, fin dentro le ossa. Trema dinanzi al tempo racchiuso in quegli occhi. Trema dinanzi alla mole inarrestabile di quella bestia. Trema e basta, perché lui è poco più di un neonato, perché è debole, perché non merita di fronteggiare quella creatura. 
Il drago inarca il lungo collo longilineo, accosta il muso al corpo di John così umano, così piccolo, così insignificante. Alla bestia basterebbe uno scatto del cranio, un vibrare di mascelle, e John sarebbe morto.
“John?”
 John guarda in alto, distratto da un barlume arcobaleno. L’ha visto brillare per un istante oltre le nuvole, ne è certo. E quel brillio gli ricorda qualcosa, qualcuno. Ricordi felici. Profumo di vento. Libertà. Vita. Sherlock. Sherlock Holmes.
-Sherlock… Holmes…-
E d’improvviso, la mente di John si riattiva. Scuote la testa, indietreggia di un passo. Qualcosa gli urta il fianco, ticchetta lento e scoordinato contro la pelle.
Non distogliere gli occhi, mai. Se lo fai sei morto.
John mantiene il contatto visivo, lentamente fa scivolare una mano nella tasca del giubbotto. Le dita sfiorano qualcosa di duro e freddo, qualcosa di pulsante, come un glaciale cuore di metallo.
John ha appeso quel giubbotto allo schienale della poltrona… quando? Il giorno prima forse, quando è rientrato nel suo nuovo appartamento. Sì, è così. E la notte prima, Irene gli ha fatto visita, gli ha girato intorno come una gatta, si è piegata su di lui tenendosi alle sue spalle, non vista.
Gli ha fatto scivolare qualcosa in tasca. Assurdo, ma probabile. E se è così, allora John sa già di cosa si tratta.
Lentamente, le dita accarezzano la catenella collegata all’orologio a cipolla, lo stesso che Sherlock ha fatto ondeggiare davanti al muso della stessa Irene quando tentava di sbranare John. Ora, l’umano lo riconosce. Ricorda quel ticchettio così rassicurante, che sa di salvezza. In effetti, si stupisce che le lancette girino ancora.
Davanti agli occhi attenti del drago, John estrae l’orologio e lo spinge di lato, tenendolo per un’estremità della catenella. Lo fa ondeggiare una, due, tre volte. Respira a fondo, prega un Dio nel quale non crede che funzioni, che un miracolo intervenga.
E il miracolo avviene.
Il drago posa gli occhi sull’orologio, fissa come ipnotizzato l’oscillare del corpo massiccio, ticchettante. La testa gigantesca di muove, ondula sincronizzata con esso mentre velocemente, gli occhi di John studiano l’ambiente circostante, cercano invano una via d’uscita. Sta guadagnando tempo, sta rallentando il tempo che la morte lascia scorrere nell’accostarsi all’umanità del suo fragile corpo.
Al drago basterà uno scatto della testa, una zampata, e John morirà lì, sepolto nella miseria di una guerra maledetta, antica e senza più volto.
Un lampo di luce, un sfrecciare di scaglie d’acciaio. Qualcosa piove dall’alto, una familiare sfera oscura intrisa di elettricità si schianta sulla schiena del drago e un’esplosione talmente possente da far vibrare la terra sotto i loro piedi si spande nell’aria, percuote il pianeta stesso, prostra i miseri umani alla potenza di creature ultraterrene, figlie del cielo.
Il drago s’inarca, ruggisce di dolore. La coda si dimena, abbatte tre palazzi in rapida successione con la facilità di miseri castelli di carte. Gli artigli, ancora arpionati al palazzo dove John rimane in precario equilibrio, dilaniano la pietra, stringono la presa fino a sbriciolarla.
Il palazzo trema, John cade carponi e leva lo sguardo sulla creatura. Farà a pezzi il palazzo, ne è certo.
Si rialza, affronta barcollando la realtà dei fatti, che lo vedrà sepolto sotto un mare di macerie. Non ha paura, non ha motivo di provarne. In effetti, se ci si perde ad osservare la reale bellezza dei draghi, le sfaccettature adamantine delle loro scaglie e la grandezza dei loro sguardi, non è poi così male morire.
-Che stai facendo?- chiede una voce alle sue spalle, e voltandosi, John incontra lo sguardo del piccolo Noah, fermo dietro di lui, con le teste inclinate e quattro occhi fissi sul suo volto.
Un’altra percossa, il palazzo comincia a cedere.
-Andiamo!- esclama Noah, battendo le mani con entusiasmo, e John conosce ormai così bene i suoi atteggiamenti, i suoi modi di fare, che non esita neanche un istante: scattano entrambi verso il drago, veloci più del vento, liberi più di un’aquila.
E saltano.
Oltre la gigantesca unghia del drago, oltre la fiammata che gli erutta dalla bocca schiusa di rabbia e dolore repressi. Oltre qualsiasi cosa, perché loro possono farlo.
John allarga le braccia, si abbandona al vuoto mentre al suo fianco, Noah spalanca le ali, cattura il vento con gigantesche vele violette e si solleva, sparisce in un battito di ciglia. John rimane da solo, ma di nuovo, non ha paura.
-Sherlock?-
E come in risposta a quella bassa quanto gentile chiamata, Sherlock compare. Schizza sotto di lui, lascia che John si aggrappi al suo collo senza ripetere l’errore di artigliare le squame taglienti come rasoi. Il corpo del giovane umano aderisce alla schiena del drago, ritrova familiarità e incastro perfetto tra l’attacco delle ali, sui muscoli contratti. È abbracciando quel calore che John si sente a casa, è annusando quel profumo di vento e aghi di pino che si sente libero.
Adesso però, entrambi si uniscono, reincarnano una perfetta macchina da guerra senza imperfezioni, senza guasti. Funzionano insieme e soltanto insieme sapranno lottare al massimo delle proprie forze.
John lascia scivolare un braccio intorno al collo di Sherlock e libera l’altro. Porta la mano al fianco, intorno all’impugnatura della pistola che non dimentica mai di legarsi alla cinta. È un soldato, e tale rimarrà fino alla fine.
Si volta di scatto, punta al drago che lentamente si rialza, schiacciando mezza città con la sola forza delle zampe posteriori. Li guarda con odio, rabbia e dolore. Parla con gli occhi, è una creatura intelligente, che li capisce, che non appare tanto diversa da loro. E per questo, John esita a sparargli. Ferirebbe un altro essere umano? Ferirebbe un uomo che per semplice dolore agisce in maniera sbagliata? La risposta è no.
-Punta agli occhi.-
-No.-
Sherlock ammutolisce, sale di quota con un battito d’ali. Non pone domande perché lui le risposte le conosce bene. Sa di John, del suo senso d’umanità e lo rispetta. Sente che è la cosa giusta da fare, nonostante la ragione gli suggerisca il contrario.
-Sherlock!-
Noah li affianca, sbatte forte le ali per non farsi seminare. Il vento gli scompiglia i capelli e un solo paio d’occhi fissa Sherlock mentre l’altra testa rivolge tutte le attenzioni alla traiettoria da intraprendere.
-Ci verrà dietro!-
-Lo so.-
-Che facciamo?-
Sherlock non ha bisogno di rispondere. Piega un’ala, ruota a mezz’aria con tanta violenza da sballottare John di lato. Lo sente gridare, sente le sue dita graffiarsi contro le squame quando perdono la presa.
Noah lo afferra per un polso, sbatte faticosamente le ali per non perdere quota. Ma adesso Sherlock è fermo, dà loro le spalle.
-Dottor Watson, credo che a terra ci sia bisogno di lei.-
-Cosa?-
-Dovete atterrare, all’altro ci penso io.-
Ma John scuote il capo, si ribella. Non lascerà che Sherlock rischi di nuovo, non lascerà che gli accada qualcosa per un suo errore. Doveva sparare al drago quando poteva, e non l’ha fatto. Per rispettare la sua scelta, ora Sherlock paga.
-Non te lo lascio fare, Sherlock.-
-Non hai scelta.-
-Invece sì!-
Sherlock respira a fondo, John lo guarda meglio e nota nei suoi occhi qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era. Uno stralcio di debolezza, una scintilla di dolore. Sherlock soffre?
Plic, plic, plic.
Dall’alto, sulle loro teste, il cielo piange. L’acqua piove, si mescola al sangue degli uomini e alla rabbia delle bestie assassine. È un tocco gelido, ma gentile. Consola, accarezza, abbraccia di bagnato le loro vesti.
-Sherlock? Che è successo?-
Ma Sherlock non risponde, gli volta le spalle. Ha i capelli appiccicati alla testa, lucidi come piume di corvo e la pelle pallida, brilla di riflessi madreperla. Le squame, rilucono cristalline, limpide, brillanti.
-Andate. Adesso.-
E questo è un ordine fisso, perentorio, senza revoca. Noah indietreggia, allontana John da Sherlock mentre dal basso, l’immensa massa del drago si solleva, sbatte le ali immense, spazzando via mezza città.
-Sherlock… - mormora John, ma il resto delle sue parole cade nel vuoto, piove insieme alle lacrime del cielo, annega nel dolore di chi, in basso, ancora agonizza per le ferite.
Sherlock non lo guarda, non si azzarda. Ascolta il suo Mind Palace, cammina tra i corridoi nuovamente ordinati, bianchi di un candore pulito, ridipinto di logica e pace interiore.
Corridoio sessantaquattro, porte nove, undici, ventidue, quarantotto.
Sherlock le spalanca una ad una, rovista, assorbe. E intanto, osserva il drago innalzarsi con possenti battiti d’ali, gli occhi fissi sulle loro piccole sagome, grandi appena quanto una delle sue scaglie.
-Noah.-
E Noah, fedele e intelligente, risponde. Si allontana, stringe forte John che ormai conosce bene l’inutilità del divincolarsi tra artigli così resistenti. Semplicemente, l’umano osserva e in lontananza, scorge la sagoma di Sherlock sparire tra le nubi, oltre il creato, dove forse le stelle, sapranno dargli una mano.
 
-Insomma, mi rispondi?!-
Greg tamburella nervosamente un piede sulle macerie, le mani scorticate a sangue e una miriade di tagli sul viso. Ha profonde occhiaie sotto gli occhi e l’espressione esausta, ma John non si preoccupa: non è la prima volta che lo vede in quelle condizioni.
-John Hamish Watson!-
John sospira, stringe forte la fasciatura intorno alla gamba della donna. La sente gemere nell’incoscienza, preda di un dolore che da sveglia l’avrebbe fatta contorcere e urlare, ma deve bloccare l’emorragia ora, sul posto, o i soccorsi non arriveranno in tempo.
Va avanti così da ore, da quando i draghi si sono ritirati. John non ha perso tempo, si è gettato a capofitto tra la sua gente, tra le macerie di quella maledetta guerra. Ha stretto la mano ai moribondi, ha chiuso gli occhi ai morti, ha curato i feriti. Si è scorticato le mani, spezzandosi le unghie e mordendosi a sangue il labbro inferiore, ma non si è mai fermato, nemmeno per bere o mangiare qualcosa. Si nutre del sorriso di chi si sente meglio, beve i respiri di coloro che si sentono vivi e lo guardano con riconoscenza. È la sua ricompensa, il suo premio d’oro.
Adesso però, al peso della stanchezza, si aggiunge il mal di testa causato da Greg. Non gli dà un minuto di tregua, gli sta addosso da quasi un’ora. E John non può rispondere chiaramente senza tradirsi.
-John, ti hanno visto affrontare quel drago enorme. Gli hai impedito di attaccare e poi… chissà come, l’hai respinto. Voglio soltanto sapere se è vero e come hai fatto.-
John scuote il capo, si raddrizza e raggiunge esausto il ferito più vicino, un uomo di mezza età con un braccio ridotto a brandelli. Ha gli occhi socchiusi, lo sguardo stordito. Meglio così.
-La gente parla, John… io sono tuo amico, devo sapere se è vero.-
Ma John si prende il suo tempo, finisce di bendare con cura le ferite dell’uomo prima di alzarsi e fronteggiare Greg, eretto, fiero, soldato adesso più delle altre volte.
-Ti proposi la verità già una volta, Gregory. Ti dissi dei draghi, scrissi ciò che realmente ho vissuto, ciò che è stato e ciò che è. Non hai voluto guardare, né vedere. Dovrei quindi proporti nuovamente una verità che non accoglieresti? Sii mio amico quando ti chiedo sostegno, non solo quando ti necessita conoscere la realtà riguardo pettegolezzi che ti interessano.-
Detto ciò, John lo oltrepassa, gli rifila una spallata e procede la sua giornata: perché lì c’è gente che paga per la cecità di persone come Greg. Perché lì c’è dolore malato, di quelli folli che gridano all’intervento di un medico vero, che la pietà ancora la conosce.
Forse l’uomo non vedrà mai la luce del vero. Forse, tutti loro sono destinati all’estinzione.
 
Quando John tornò a casa, era esausto. Stava cominciando a diluviare e fortunatamente il suo buonsenso gli aveva impedito di continuare a lavorare sotto la pioggia, correndo il rischio di ammalarsi lui stesso.
Adesso, all’asciutto e abbracciato dal calore di casa sua, John si sente vuoto. Per la prima volta, ha paura.
Perché pensa a Sherlock e non sa se sta bene.
Perché lì è buio e ovunque si volti, vede i visi dei cadaveri che ha avuto il coraggio di toccare, di spostare, di accarezzare con dolce umanità. Gli ricordano la sua famiglia, e per questo li rispetta.
Si lascia cadere sulla poltrona, si copre gli occhi con una mano perché è stanco, perché si sente anziano.
Poi però, un fruscio. Un’ombra nera, dipinta di sottili cristalli di luce si dilata contro le pareti, sul pavimento, sugli oggetti sparsi in giro. John la riconosce perché è alta, slanciata, elegante.
Scatta in piedi, si volta verso la finestra e allora lo vede. A capo chino, grondante d’acqua che come diamante gli accarezza la pelle. Ha i pugni serrati, le corna e le scaglie scintillanti. Appare forte e bellissimo, creatura ultraterrena, intoccabile, lontana. Quando solleva lo sguardo però, Sherlock appare stranamente… fragile? Forse. Forse no.
Ha occhi luminosi, il viso contratto, cinereo di stanchezza mai dimostrata. E improvvisamente, Sherlock Holmes si rivela vivo, quasi umano nelle sue reazioni così difficili da trattenere, così soverchianti. John non ha intenzione di chiedergli come sia messo il Mind Palace perché sa che sarebbe una domanda sbagliata. In effetti, qualsiasi quesito lo sarebbe.
Perciò, John si avvicina, lo prende per mano senza domandare, senza aprir bocca. Sa che Sherlock ha bisogno di pace, silenzio, serenità. Ed è venuto da lui. Ha bisogno di lui.
John lo tira dolcemente verso il bagno, accompagna al ticchettare della pioggia il fruscio dei loro passi, lo strusciare delle ali di Sherlock contro le pareti.
Il bagno è la stanza più grande della casa, con la sua ampia vasca di ceramica e il pavimento di legno caldo sotto i loro piedi nudi.
John si ferma, non lascia la mano di Sherlock neanche quando si allunga per chiudere le tende a coprire il vetro della finestra, luminoso d’acqua. Adesso il mondo esterno non esiste, non ha bisogno di esistere. Ci sono loro, c’è Sherlock e la sua richiesta di aiuto.
Col calma, John gli lascia la mano, piega il busto per aprire l’acqua del rubinetto e cominciare a riempire la vasca d’acqua bollente.
-Ora devi fidarti di me, va bene?- sussurra mentre con mani tremanti fa scorrere le dita lungo gli avambracci della creatura, su fino ai bicipiti, le spalle, la nuca. Lì affonda le dita di una mano tra i ricci ancora umidi di pioggia, mentre l’altra scende sul petto, scorre con leggerezza di ali di farfalla sul fianco per poi risalire lungo la schiena, fino alle cinghie che legano il giubbotto a quel corpo così bello, così elegante.
-Fidati di me.-
La cinghia scatta, la mano di John scivola in una carezza verso il basso, alla base inferiore delle ali, dove è l’altro aggancio: fa saltare anche quello.
-Fidati di me.-
Con più azzardo di quanto abbia mai osato, John appoggia la fronte sulla spalla di Sherlock, fa scivolare il viso verso il suo collo e inspira il suo profumo che, mescolatosi al bagnato della pioggia, appare più forte e ammaliante che mai.
Le sue mani, insieme, scorrono in basso, al bordo sottile dei pantaloni classici. Glieli sfila senza sforzo, aiutato dalla coda della creatura stessa, che non si muove né si oppone.
John cerca di non guardarlo, cerca di non incantarsi fino a questo punto, perciò si distrae, gli afferra nuovamente la mano e lo conduce verso la vasca. Lo guarda scivolare nell’acqua, nudo, coperto di scintillanti gocce cristalline che come diamanti sfaccettati accarezzano la pelle di mille scie sinuose, morbide, lucenti. La coda sguscia invadente fuori dalla vasca, le ali ancora ripiegate ricoprono tre pareti su quattro, oscure e bellissime.
John guarda quel viso ancora inespressivo, ancora spento. Lo accarezza, ricerca in quegli occhi una luce dispersa, ma per lui pesantemente necessaria. Non è arrivato fino a quel punto per vederlo soffrire in silenzio. Non glielo permette.
Afferra una spugna, la bagna nell’acqua bollente, scottandosi la mano, e con calma e dolcezza adoranti, comincia ad accarezzare quella pelle, quel viso, quelle scaglie. Fa scorrere la spugna fin sopra le corna, lascia che l’acqua scivoli tra gli anelli fin dentro i capelli e giù, sul viso, sulle palpebre abbassate, per morire tra le labbra.
John non ha mai visto in vita sua qualcosa di così bello e prezioso. Ha davanti una benedizione, un angelo caduto dal cielo. Perché in realtà Sherlock, è più umano di chiunque altro. Lui la pietà, la ricorda bene, e l’ha dimostrato quando ha scelto di salvare Molly, di combattere un suo stesso simile per aiutare la gente che le sue gigantesche zampe mortifere calpestavano. Sherlock non appartiene a nessuno, perché aiuta incondizionatamente entrambe le parti. Lui non è guerra… lui è pace.
-Sherlock, guardami.-
E Sherlock solleva il viso, lo fissa con calore ritrovato. Ha occhi brillanti, umidi di una luce nuova, serena, quasi felice. Lì, in quel piccolo anfratto di mondo, ha trovato la sua pace. Non l’ha mai cercata, ma è stata essa a venire da lui, con occhi di soldato e mani di guerriero.
Ed è per questo che nuovamente, quella porticina maledetta nel suo Mind Palace si schiude, forza la serratura che serra ogni rischio d’apertura. Ma Sherlock non può curarsene, non adesso. Di quella porta ora, gli interessa poco e niente. Perché è con John, perché guardare in quegli occhi ricostruisce in lui ogni brandello di pace, ogni scintilla di serenità.
Gli afferra un polso con dolcezza, ascolta il battito delle vene sotto le dita. È così fragile, così morbido. Quello è calore umano.
-Vieni.- dice soltanto, e per un momento teme che John si rifiuti, che fissando l’acqua bollente si tiri indietro. Sherlock si stupisce quando nota che non è così.
Con dolcezza, John si lascia trascinare nella vasca. Si sfila soltanto le scarpe, senza paura né timore. Semplicemente, lo segue, si affida totalmente a lui.
Quando affonda nell’acqua, John la scopre piacevolmente calda anziché bollente. Non c’è molto spazio, e non sa fino a che punto azzardare con Sherlock così vicino, così scoperto, così… bello.
Ma Sherlock non gli concede altre domande, non lascia spazio a parole. Lo fa voltare con dolcezza, lascia che la schiena di John aderisca al suo petto. Quando le mani artigliate scendono fino al bordo del maglione, John trattiene il fiato, si irrigidisce, non crede al miracolo che sta accadendo. Sente gli artigli penetrare la stoffa senza graffiarlo per aprire un unico, grande squarcio sul davanti.
-Mi piaceva, quel maglione.- sorride John senza riuscire a trattenersi. Se lo sfila con più calma di quanta realmente se ne senta addosso e getta il maglione fuori dalla vasca.
-A me no. I tuoi maglioni sono orribili.-
-Non è vero!-
-Sì che lo è. Lo pensa anche Molly, ma non te lo dice.-
-Come hai fatto a… non dirmelo, non ti darò questa soddisfazione.-
Nascosto agli occhi di John, Sherlock sorride appena. Stavolta lascia parlare i gesti, imita coloro che ha guardato tante volte da lontano, quando era bambino. Ricorda suo padre e sua madre, ricorda i loro gesti, i loro sguardi. E per la prima volta, qualcosa di nuovo accade, scuote il Mind Palace di un brivido profondo. Per la prima volta, tutte le porte sono chiuse.
-Sherlock?-
Sherlock passa un braccio intorno alla vita calda e solida di John, lo tira più vicino, incastra i loro corpi di una perfezione delicata, infrangibile, bellissima. Appoggia il mento sulla sua spalla ferita, fa scorrere l’altra mano su quella stessa cicatrice che tante volte ha immaginato, che poche volte ha osservato. E John rovescia il capo all’indietro, porta una mano ai suoi capelli per giocarci dolcemente, senza pretese, senza malizia.
-John?-
-Mh?-
-Grazie.-
 
Angolo dell’autrice:
Coff coff… in ritardo come sempre. Ma anche stavolta non è colpa mia.
Sherlock: che c’è? Stavolta non ho fatto niente.
No Sherlock, ma c’è un ritrovo di hobbit nella mia stanza. E vogliamo parlare dei nani che mi hanno sfrattato dal salotto?! Chi li ha invitati?!
Sherlock: non io. La Signora Hudson ha organizzato un casinò direttamente in casa tua. Se fossi stato io, non sarei bloccato CON TE nello sgabuzzino.
Oh…
Sherlock: già. Oh.
Ehm… torniamo a noi. Ringrazio come al solito gli splendidi draghetti recensori che hanno resto possibile il nuovo capitolo! Grazie alle vostre parole, io sono andata avanti, ho scritto più di quanto mi aspettassi io stessa e… be’, grazie di cuore. Davvero. Quindi, dedico il capitolo a:
Sonia_0911
Bbpeki
Kimi o Aishiteiru (rimettiti presto!)
FKk
Sparrow
Grazie ancora, e a prestissimo!

Tomi Dark Angel
 
  
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