Texas, Houston
– 6 Maggio 1991
Il
sole stava lentamente calando.
All’osservatorio
NASA situato laggiù, un gruppo di studiosi e militari aveva
letteralmente mandato in subbuglio l’intera sede.
Un’improvvisa pioggia di meteoriti aveva appena distrutto un
shuttle, uccidendo l’intero equipaggio e danneggiando
seriamente il satellite in prossimità
dell’atmosfera del pianeta Terra.
Uno
dei più grandi astrofisici del mondo, Jeremy Garrad, un uomo
dai capelli oramai brizzolati e con enormi occhiali da vista dalla
montatura scura sul naso, dopo l’accaduto, attraverso un
semplice telescopio, rivelò un corpo celeste di proporzioni
mastodontiche della stessa traiettoria dei piccoli meteoriti, che nel
frattempo si avvicinavano a gran velocità.
“Professor
Brockley, venga a vedere!” esclamò Garrad senza
distogliere lo sguardo atterrito dallo schermo circolare del rivelatore
elettronico. Barnaby Brockley, un esperto in comunicazioni radio
castano e dall’aspetto piuttosto giovane si
precipitò verso Jeremy, mentre il colonnello Andrew Eartha,
incuriosito dal nervosismo con cui i due sussurravano fra loro si
avvicinò, esigendo di metterlo al corrente della situazione
reale. Era un uomo inflessibile, che si arrabbiava molto facilmente, e
che solo raramente dimostrava di avere una natura umana come gli altri.
“Colonnello!
C’è un asteroide molto, molto più
grande che si muove verso il pianeta Terra, signore!”
C’era
paura negli occhi di Garrad, osservò Eartha. Sapeva che lo
scienziato aveva parlato in modo semplice per evitargli incomprensioni
imbarazzanti, ma lo disse come se avesse voluto attenuare il peso della
paura della morte che sembrava aleggiare sulle loro teste.
Ebbe
paura anche lui. Eppure la sua mente era convinta che non sarebbe mai
riuscito a comprendere la gravità della situazione
finché la fine del mondo non si fosse presentata dinanzi ai
suoi occhi cerulei.
“Siete
riusciti a mettervi in contatto con lo shuttle?”
domandò poi il colonnello rivoltosi a Brockley.
“No,
sono tutti morti.”
Un
silenzio di tomba calò sui presenti. La tensione, mista al
dolore della perdita dei ragazzi, si stava facendo sempre
più insostenibile. Sicuramente non era dovuta solamente alla
loro dipartita, ma anche alla consapevolezza che nell’arco di
pochissimo tempo la Terra come la conoscevano loro sarebbe
andata in frantumi, cancellando per sempre umanità, animali
e vegetazione.
Ogni
piccolo barlume di speranza sembrava vana contro una catastrofe di
quelle proporzioni.
I
tre uomini, dopo aver gettato affranti lo sguardo a terra, si
osservarono, ognuno in cerca di consolazione da poter leggere negli
occhi degli altri.
“Cosa
possiamo fare?”
La
risposta a quella domanda arrivò esitante, ma senza
alternative.
“Niente,
signore.”
La
maschera contrita e abbandonata a se stessa del colonnello fece ora
spazio ad una severa ed incollerita. Persino il suo respiro divenne
più ansante per la furia che stava crescendo dentro di lui.
“NIENTE,
SIGNORE?” tuonò Eartha, afferrando con
violenza Brockley per il bavero del camice bianco.
“È solo questo che sai dire? Sei un cazzo di
scienziato, no? Allora prova a far funzionare quel dannato
cervello!”
Per
la veemenza, Barnaby strizzò le palpebre prendendo a
piangere convulsamente, mentre l’altro, paonazzo in volto e
con numerose vene che gli pulsavano sulle tempie, lo strattonava ad
intervalli regolari per ricevere una qualsivoglia replica, soprattutto
per farlo smettere di singhiozzare.
La
scena andò avanti per qualche secondo ancora,
finché un altro rappresentante della NASA avanzò
verso di loro per dividerli. Theobold Ralston, il pilota di shuttle con
più missioni spaziali alle spalle di tutti; e uno dei pochi
che ancora conservava un animo disinteressato ed estremamente paterno
all’interno di quel dipartimento. Aveva un vago accento
tedesco, che testimoniava la sua permanenza in Germania dalla prima
infanzia fino alla fine dell’adolescenza.
“Su,
forza! Finiamola con le scenate!” disse, prendendo con
docilità l’avambraccio del colonnello
affinché mollasse la presa sul collega. “Litigare
non serve a nulla. Per ora urge la massima calma, se vogliamo trovare
un modo per salvarci.”
In
sintonia solo in parte con la proposta di Ralston, Andrew Eartha
lasciò andare Brockley, il quale si aggrappò al
tavolo di fronte agli schermi di rivelazione di segnali
elettromagnetici con un’evidente faccia rasserenata, sebbene
si potesse ancora scrutare l’ombra soffocante della fine
imminente.
“Il
mio team dice che abbiamo solo diciotto giorni prima che…
l’asteroide si schianti sul nostro pianeta.”
sostenne Garrad seriamente, ritornando da pochi metri più in
là, dove era seduta un’intera squadra di studiosi.
“A mio parere,” osò dire poi
“si potrebbe spaccarlo dall’interno con una bomba,
così da ridurlo in due corpi celesti minori che seguiranno
una traiettoria differente da quella attuale. C’è
la possibilità che sfiorino l’atmosfera terrestre,
ma oltre questa non ho la più pallida idea di cosa potremmo
fare…”
“Non
c’è la possibilità che si riduca a
più frammenti?”
“Sì,
ma secondo le leggi della fisica dovrebbero comunque sorvolare la Terra
senza causare danni.”
“Non
si potrebbe bombardarlo dal di fuori?” domandò il
colonnello Eartha, impaziente di agire di testa propria.
“Non
servirebbe a niente. Attaccando la superficie non si farà
altro che sprecare tempo prezioso.
Solo un’implosione sarebbe efficace.”
“Ma
per realizzare un’impresa del genere si dovrebbe atterrare
proprio sull’asteroide!” protestò un
altro.
“Sì!”
“E
si dovrebbe scavare finché non si raggiunge il
centro!”
“LO
SO!” gridò esasperato Garrad. “Ma
qualcuno deve farlo! Qualcuno che riesca in poco tempo a farsi strada
nella ferrite inscalfibile dell’asteroide.”
Proprio
in quel momento, un ragazzo entrò trafelato, annunciando che
alcuni degli asteroidi più piccoli avevano colpito alcune
città degli Stati Uniti e dell’Europa. Una notizia
che fece sgranare gli occhi anche al capitano in fondo che fino a quel
momento non aveva fatto altro che riderci su.
“Ma
come possiamo attuare tutto ciò? Non abbiamo i mezzi per una
simile eventualità.”
“Già,”
concordò Ralston “dobbiamo trovare alcune persone
nel mondo forti abbastanza da poter creare questo tunnel per
posizionare la bomba, un piccolo gruppo che sia capace di fare
miracoli.”
Tacquero.
Alcuni scossero la testa con rassegnazione, altri cominciarono a
mormorare qualcosa, forse delle preghiere. L’atmosfera cupa
che permeava l’osservatorio era così palpabile che
molti si meravigliarono di non aver ancora assistito a sintomi di
follia.
“Abbiamo
poche ore per trovarli, portarli qui e addestrarli per mandarli nello
spazio. Iniziate le ricerche, e non fatene parola con
nessuno.”
***
Tokyo, Nerima
– 7 Maggio 1991
“Avanti
pigrone, alzati!”
Dall’altra
parte del mondo, precisamente nel distretto di Nerima, Tokyo, Ranma
Saotome stava tentando disperatamente di coprire le sue orecchie
servendosi del cuscino del suo futon, in modo da attutire le urla di
Akane Tendo, che troneggiava su di lui con un’arcigna espressione
di disgusto e collera disegnata sul visino, le gambe divaricate (a
guisa di lottatore di sumo, come non mancava di evidenziare il ragazzo
con il codino) e le mani sui fianchi.
“Lasciami
dormire, Akane…” si lamentò il giovane
con il codino, raggomitolandosi sempre di più sotto le
coperte tanto da ridurre la sua sagoma ad una massa rotondeggiante e
leggermente informe. Indispettita più dai suoi atteggiamenti
che dall’orologio che quella mattina sembrava correre come un
matto, non ci pensò due volte a scostargli le coperte con
violenza, lasciandolo completamente in balìa
dell’arietta fresca di primavera che filtrava dalla fessura
della finestra semichiusa.
“No!
Non ti lascio dormire! Stamattina abbiamo la verifica di Biologia, e
non voglio assolutamente far tardi! Quindi” lo
minacciò la ragazza “o ti alzi subito o andrai a
scuola senza di me, prendendoti un bel voto approssimativo, come tuo
solito!”
Era
un tono che non ammetteva repliche, quello, che lo faceva sentire
troppo alle strette. Anche se era una consuetudine che Akane gli
parlasse in quel modo, quella mattina Ranma credeva di avere
già di per sé la luna storta.
Aveva
sognato cose spiacevoli, riguardanti la sua maledizione. Aveva sognato
di provare una bottiglia di Nannichuan dopo l’altra,
ottenendo comunque risultati differenti. Si trasformava in qualsiasi
essere vivente, dal più grosso al più piccolo,
senza riuscire a tornare uomo. Superfluo dire che si era svegliato di
soprassalto, madido di sudore e con una gran voglia di fare a botte con
suo padre per fargliela pagare un’ennesima volta di averlo
trascinato a Jusenkyo qualche tempo addietro. Sfortunatamente, la preda
dei suoi istinti omicidi lo aveva preceduto alzandosi prima del
previsto forse per avventarsi sulle pietanze mattutine di Kasumi.
Sicuramente per mangiarsi anche la sua, di colazione.
Ma
non era finita qui. Il giorno prima aveva combattuto contro
un'instancabile Ryoga da casa fino a decine di isolati più
avanti, gli stessi che portano alle vie commerciali della
città (ed infatti ci stavano quasi arrivando), finendo come
sempre in una fontana stracolma di acqua fredda.
Akane
aveva preso le difese del porco, convinta com’era che fosse
Ranma il bruto che aveva iniziato a malmenarlo, e si era rintanata con
lui in camera da letto, dove chissà cosa aveva visto il
suino del corpo della sua fidanzata.
Meno
male che quella scema patentata non l’aveva portato con
sé fino alla stanza che condivideva con il padre. Non lo
vedeva nei paraggi, infatti. Almeno il buonsenso di andarsene subito
l’ha avuto, il maiale.
Pensando
a tutto questo, non poté fare a meno di vomitare tutta la
sua frustrazione sulla persona che le stava davanti. Poco importava se
era Akane, Nabiki, Kasumi, Happosai o quei due ubriaconi
organizza-matrimoni-al-più-insignificante-momento-opportuno
che non erano altro.
Si
sollevò dalla sua posizione prona, voltando lo sguardo verso
di lei ed osservandola con furia. “Va’ pure da
sola, stupida! Con la forza erculea che ti ritrovi non hai mica bisogno
di una guardia del corpo!”
Era
un insulto come un altro a dire il vero, ma detto con così
tanta foga da far sobbalzare dallo stupore una già
accigliata Akane. La sensazione di rabbioso caldo che fluiva
velocemente nelle vene della ragazza salì a livelli
vertiginosi, facendole ribollire il sangue come poche volte le era
capitato. Lì per lì non riuscì nemmeno
a formulare un’offesa di rimando, tanto era infuriata, e
l’occhiataccia di fuoco del ragazzo con il codino che
continuava a persistere imperturbabile sulla sua faccia da schiaffi non
era di grande aiuto, tutt’altro. Improvvisamente si rese
conto di essere arrivata sull’orlo delle lacrime, ma non
lasciò loro il tempo di scorrere via. Sferrò un
calcio non troppo forte sul fianco di Ranma, ascoltandolo soltanto
gemere per la sua soddisfazione personale e voltandosi per correre in
direzione del Furinkan.
***
Era
già passata la prima ora, e Ranma non ancora si era fatto
vivo a scuola. Ukyo era sul punto di domandare ad Akane cosa gli fosse
successo, ma qualcosa, una forza repulsiva sembrava volerla fermare.
Si
vedeva da lontano che Akane non era dell’umore adatto per
chiacchierare. Era entrata in classe salutando le sue amiche
borbottando, per poco non sfondava la gabbia toracica del povero Kuno
pronto ad importunarla come da copione e sedendosi senza degnare di uno
sguardo Gosunkugi, rimasto pietrificato dal suo atteggiamento
eccessivamente scontroso al fianco del suo banco.
Durante
la lezione di giapponese antico non andò meglio. La cuoca la
sorprese almeno sette volte ad asciugarsi furtivamente il viso con un
fazzoletto tenuto per intero nella mano chiusa a pugno, molto
probabilmente per non dare al professore l’occasione di
riprenderla ed accorgersi che qualcosa non andava.
Non
era il caso disturbarla, si disse la giovane Kuonji. Se magari
l’avesse vista in condizioni migliori nell’arco di
quella giornata, forse si sarebbe fatta avanti per chiedere di Ranma.
I
suoi propositi non ebbero buon esito, però. Nel bel mezzo
delle spiegazioni del professor Yamashita, l’altoparlante
situato in tutte le aule dell’istituto si attivò,
troncando la voce del professore di netto e facendo rimbombare quella
fastidiosa al tempo stesso squillante del preside Koccho Kuno.
“Ladies and gentlemen! Pay attention,
please!”
Alcuni
studenti saltarono sulla sedia per lo spavento; altri cominciavano a
pensare ci fosse in cantiere un altro tentative di tagliare i capelli a
zero; ed alcuni credettero che la causa dell’intervento del
preside fosse dovuto all’assenza del codinato. Solo un numero
esiguo di ragazzi presero ad ascoltare con attenzione fin
dall’inizio cosa aveva da dire.
“I
need urgentemente della presenza di Miss Akane Tendo e di Miss Ukyo
Kuonji. Sono richiesti also Tatewaki Kuno, Ranma Saotome
e Miss Nabiki Tendo, here in presidenza. Hurry,
guys!”
Nella
sua voce c’era una strana nota inquieta e confusa. Niente a
che vedere con la sua irritante e gioviale parlantina sciolta.
Akane
e Ukyo si osservarono per un istante pensando entrambe che avrebbero
dovuto giustificarsi per Ranma, per poi alzarsi con moderazione ed
avviarsi insieme verso la presidenza. Incontrarono la mezzana Tendo ed
il kendonista, ora più tranquillo e con
l’ordinaria divisa scolastica.
“Sai
perché il preside ci ha convocati?” chiese Nabiki
affiancandosi alla sorella.
“No,”
rispose quella “ma sicuramente sarà una delle sue
trovate idiote. Senza offesa, Kuno…”
proseguì rivoltasi al ragazzo dietro di lei.
“Non
so perché,” disse Ukyo fermando sul nascere la
replica di Tatewaki “ma mi puzza.”
Poco
prima di arrivare a destinazione, videro un trafelato Ranma correre con
un toast stretto fra le labbra, con la cartella che volava per i
movimenti troppo bruschi.
Quando
lo vide, Akane mancò di un battito. Non credeva di
incontrarlo nuovamente così presto, e non era pronta ad
affrontarlo ancora una volta: non ancora. Ancor meno era intenzionata a
farsi vedere sul punto di piangere. Troppe volte l’aveva
umiliata, sia in pubblico che in privato, perciò il suo
orgoglio le imponeva di nascondere il lato più debole di se
stessa, per fargli capire che lei era la tostissima Akane Tendo, forte,
tenace e invulnerabile.
Riuscì
per un soffio a deviare il suo sguardo carico di astio verso le scarpe
di Nabiki, sentendosi addosso quello blu cobalto del fidanzato,
probabilmente ancora furibondo. La scena fece sì che gli
altri si cucissero la bocca di loro spontanea volontà, chi
per paura, chi per senso di inadeguatezza.
La
tensione creatasi non sfuggì a nessuno; nemmeno a Nabiki,
che prese Akane per un braccio e la trascinò con
sé, riservando a Ranma soltanto una smorfia torva e
risentita. La più piccola si lasciò pilotare come
una bambola priva di forze, sebbene negli occhi nocciola ardesse una
spavalderia tutta nuova e prorompente.
Ranma
dovette lottare selvaggiamente con se stesso per non arrendersi alla
voglia di riappacificarsi, ma nell’istante in cui si decise a
far crescere la sua superbia a dismisura, udì una voce
cinguettante che per poco non gli sfondava i timpani.
“Oh,
Ranma! Sei arrivato!” esclamò la cuoca,
affrettandosi a piazzarsi fra lui e la piccola Tendo che si stava
allontanando. Gli spiegò dove erano diretti, siccome il
ragazzo le aveva fatto una faccia interrogativa, e che lui doveva
andare con loro.
“Ma
che ho fatto?” si lamentò, bloccandosi davanti a
Tatewaki che, inbufalito anche più di lui prima, gli
chiedeva gentilmente cosa avesse fatto alla
dolcissima ed eterea Akane Tendo per farla cadere in quella oscura
depressione. “Va bene, per ora ti concedo tregua. La
curiosità che nutro verso ciò che deve dirci mio
padre mi corrode l’animo.” si giustificò
con tono solenne. Ma abbandonò il suo metodo di espressione
teatrale per puntare l’indice contro Ranma e dire:
“Ma non finisce qui, sappilo!”
“Ehi,
siamo arrivati...” Acidamente, Nabiki li avvertì
silenziosamente di tacere, un ordine che venne eseguito da tutti.
Aprì la porta lentamente, ma non appena scrutò
dei capelli color lavanda smossi dal vento che proveniva dalla
finestra, Nabiki la spalancò, sgranando gli occhi.
Nella
presidenza c’erano anche Shan Pu, Kodachi e Ryoga in fila
davanti al preside comodo sulla sua poltrona e con l’ukulele
sulle ginocchia. Erano tutti seri. La Rosa Nera si contorceva le mani
sottili e si lisciava nervosamente la gonna della divisa: non era mai
stata chiamata da suo padre nel Furinkan, se c’era una cosa
che il papà doveva dire doveva essere estremamente
importante; Shan Pu, con ancora addosso il grembiule del Nekohanten,
aveva ancora una consegna da fare tra le mani, ammiccando non appena si
rese conto di essere nella stessa stanza con il suo “futuro
marito”. Ryoga non smetteva un secondo di tamburellare le
dita sul braccio incrociato all’altro, destando
l’interesse di Akane.
Il
volto rugoso di Koccho Kuno si illuminò alla vista dei
ragazzi, ma l’estasi che si era impadronita di lui si
trasformò in un piagnisteo istericamente vile e balbettante.
“Good
guys. Ci siete tutti, now! Pensavo non sareste venuti!”
“La
pianti con queste sciorinate!” inveì Ranma, in
posizione di difesa. “Se cerca di tagliarci i capelli a
tutti, beh, si sbaglia di grosso!”
“No,
Saotome. Non vi ho chiamati for this...”
“E
allora…?”
“Complimenti,
boys and girls!” esclamò, perdendosi in
un’ilarità in contrasto con la preoccupazione dei
giovani davanti a lui. “Siete stati scelti per fare un giro
intorno the world!”
“La...
parola?” chiese stranito il giovane
Saotome.
Ryoga
lo osservò con occhi canzonatori, esultando per la
figuraccia del suo rivale.
“Scemo,
world vuol dire mondo!” lo corresse con un
ghigno compiaciuto, incrociando le braccia e sfidandolo mostrando i
canini.
“Non
è questo il punto, maiale! Qualcuno vuol dirci che
succede?”
Stava
perdendo la pazienza, sempre se non l’avesse già
mandata in vacanza. Ranma non ne poteva più. Prima
l’incubo, poi Akane; adesso ci si metteva quel pazzoide del
preside che, con chissà quale nuova diavoleria, voleva farli
partecipare ad una cosa per la quale esitava a fornire le dovute
spiegazioni... Forse il mondo stava impazzendo, o forse era lui che
sarebbe finito al manicomio quanto prima.
“The National Aeronautics
and Space Administration also known as NASA
has selected you for a mission in the space, which...”
“Parli
in giapponese!” lo interruppe Ranma. “Non ci
capisco niente!”
“La
NASA vi ha reclutato per svolgere una missione nello spazio. Non so di
che natura sia, ma hanno inviato una lettera here, dicendo che verranno
a prendervi fra un giorno esatto e di farvi trovare davanti ai cancelli
scolastici con le vostre cose!”
Il
preside li guardò ad uno ad uno, tentando di trovare un
accenno a proseguire. Non ne ebbe. Ciascuno di loro si stava chiedendo
come mai la NASA aveva bisogno del loro aiuto per una missione
spaziale. Loro non erano astronauti; erano semplici studenti, anche se
abili esperti di arti marziali. Cosa dovevano fare? Combattere nello
spazio?
“È
uno scherzo, non è vero?” intervenne Nabiki per la
prima volta.
NDA
Salve!
:D
Ecco
che torno ad ammorbare questo fandom! xD
Dunque,
innanzitutto grazie per essere arrivati fin qui leggendo questa piccola
ingrata idea spuntata fuori solo ora, e che spero recensiate. Vi avviso
fin da ora che gli aggiornamenti saranno discontinui, perché
per me iniziare una ff multicapitolo proprio in questo momento (con
un’altra in sospeso, per giunta) è un azzardo di
proporzioni colossali, che sia breve oppure no.
In
secondo luogo, non darò niente per scontato. Coloro che
conoscono il film (lo spero, perché è un
capolavoro! *^*) non sono avvantaggiati circa alcune questioni salienti.
Per
chi non lo conosce, o non l’ha mai visto, assicuro loro la
visione appena possono perché è una meraviglia
cinematografica degna di esser nominata in qualunque Top 5
di qualunque classifica, e lo si apprezza anche se non si ama
particolarmente il genere catastrofico (testato dermatologicamente su
mia nonna, davvero, non scherzo!).
I
personaggi già esistenti appartengono a Rumiko Takahashi,
mentre i personaggi della Nasa sono inventati da me, seguendo comunque
le direttive generali del film. Perciò, non è
né una AU, né un crossover, ma soltanto una sorta
di movieverse.
Grazie
per l’attenzione.
Passo
e chiudo. :)