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Autore: Haromi4o    09/05/2014    0 recensioni
Si sa, la vita di un innamorato non è affatto semplice. Le fasi di corteggiamento in cui uno fa di tutto per non rendersi completamente ridicolo, le pene d'amore e le interminabili domande che ci si pone la notte senza essere in grado di chiudere occhio, ripensando tutto il tempo a quell'unico altro essere vivente che è in grado di farci battere il cuore. No, non è semplice. Se poi si aggiunge il fatto di essere grandi come un chicco di riso, avere un paio d'ali, sei zampette pelose e occhi come palline da golf catarifrangenti la situazione non migliora di certo!
Genere: Drammatico, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Conobbi Claudette attorno al 1700 in una florida tenuta della Francia meridionale.

La mia famiglia, come molte altre, lavorava la terra del signorotto del luogo, un certo Monsieur De Bonbonheur, un tipo vivace e pericolosamente amante del vino. Si raccontava che amasse le feste e la vita di città, per questo non si era quasi mai visto dalle nostre parti, nonostante l'enorme villa di campagna con immensi giardini, stalle, cavalli, laghetti, papere, cani, gatti e uno stuolo di servitù sempre pronta a riceverlo. Chi, nel corso degli anni, per strani garbugli della sorte era riuscito a intravederlo lo descriveva come un un ometto basso, pallido e tondo come una cipolla (anche se dopo un bicchierino o due ricordava più un pomodoro), ma dalla mente affilata e l'occhio lungo. Tanto lungo da non poter lasciarsi sfuggire la delicata bellezza della splendida Mademoiselle di Beaupaon, una giovane dalla figura slanciata e la pelle di seta incontrata alla festa di primavera di chissà quale ricca famiglia di Parigi e divenuta in seguito la sua più grande ossessione. Rimaneva comunque un totale mistero come Sua Signoria l'uomo-ortaggio fosse riuscito ad aggiudicarsi la mano della fanciulla.

Quando nacqui Monsieur De Bonbonheur si era già ritirato da tempo con la sua novella sposa in una locazione più consona alla loro sfrenata vita mondana, abbandonando la villa ad una servitù sempre più annoiata e striminzita. Crebbi dividendo un grande giaciglio di paglia con innumerevoli fratelli e sorelle mentre i miei giochi erano seminare il grano e spaventare i corvi. Passavo le giornate a scorrazzare nei campi prendendomi parole da tutti quanti e a osservare mia madre mentre preparava da mangiare nella speranza di ottenere un boccone in anticipo, perché quando arrivavano i fratelli più grandi il cibo non bastava mai. Solo ogni tanto spezzavo la routine quotidiana, quando in lontananza si scorgeva il verde boschivo dei giardini della villa. Allora mi infilavo nel granaio dove potevo osservarli indisturbato e nella mia mente di bambino sognavo di partire all'avventura per esplorarli e trovare chissà quali favolosi tesori.

Non dovetti aspettare molto perché quel sogno diventasse realtà.

Alla veneranda età di undici anni i miei genitori decisero che ero abbastanza grande perché uscissi di casa e imparassi a badare a me stesso. Monsieur aveva da poco preannunciato il suo ritorno assieme alla famiglia lietamente allargata e la deperita schiera di servitori aveva bisogno di nuove braccia per rimettere in sesto la tenuta. Mentre mi accompagnava alla villa mio padre cercò di incoraggiarmi con belle parole: mi disse che era una fortuna servire il signore, che la servitù mangiava e viveva meglio tra quelle mura di solida pietra che loro poveri contadini in balia delle tempeste e delle carestie. Io non risposi. Sapevo che la verità era un'altra, che nella mia famiglia eravamo troppi e con l'arrivo della sorellina più piccola non c'era abbastanza da mangiare per tutti. Eppure non mi lamentai e cercai di mostrarmi fiero e audace mentre lasciavo la mia famiglia per l'ignoto.

Ancor oggi ricordo che gran fregatura sia stata.

Dopo il momento di estasi e stupore iniziale alla vista di quella che a me pareva la reggia del Re di Francia in persona, un secondo sguardo rivelava il degrado di anni di abbandono e la prospettiva della mole di lavoro da fare faceva vacillare.

Come previsto i primi mesi furono d'inferno. Mi alzavo all'alba e per tutta la giornata correvo da una parte all'altra svolgendo ogni tipo di mansione la mia età mi consentisse. Passavo da un servo all'altro ricevendo ordini su ordini e mai che a nessuno venisse in mente che anch'io ogni tanto avessi bisogno di cibo e non campassi di sola aria. Alla fine imparai ad arrangiarmi, intrufolandomi nelle cucine e fregando qualcosa per tirare avanti fino a fine giornata.

La situazione migliorò con l'arrivo di Sua Signoria con moglie e figlie al seguito. Il grosso del lavoro era fatto, rimanevano le mansioni di genere quotidiano e si poteva finalmente tirare il respiro. Ma solo con la definitiva assegnazione alle stalle come garzone, dopo aver girato per più di tre volte l'intera villa prestando servizio in cento e più diversi compiti, riuscii a crearmi una routine con la concessione ufficiale di pause per i pasti.

Il lavoro era lungo e faticoso, ma semplice. Consisteva fondamentalmente nello spazzolare e nutrire i cavalli, lustrare adeguatamente i finimenti e tenere pulita la stalla, il che presupponeva una serie di operazioni che vi risparmierò. Neppure l'odore era dei migliori a vivere a contatto con quei bestioni, ma alla lunga ci si faceva l'abitudine.

 

Fu un giorno come un altro in cui ero intento a muovere montagne di foraggio dal fienile alla stalla e poi ancora, avanti e indietro con il solo ausilio di una carriola di legno cigolante, che scorsi la nobile famiglia in libera uscita nel parco della villa.

Doveva trattarsi di una normale passeggiata all'aria aperta ma aveva più l'aspetto di una processione, con la nobildonna al primo posto tutta vestita di pizzi e ricami di un bianco abbagliante seguita da una fila di mini copie in ordine del tutto impeccabile. Ricordava molto un'anatra con la prole a seguito. Ed ecco poco distante, il brutto anatroccolo della situazione.

Si distingueva subito dallo sguardo felino e l'indole tutt'altro che composta, nonché dal fatto che fosse l'unica ad aver gettato all'aria il parasole ed essersi messa a correre come una matta tra le pozzanghere lasciate dall'ultima pioggia suscitando gridolini scandalizzati e rimproveri dal resto del gruppo. La più piccola delle figlie De Bonbonheur aveva capelli scarmigliati e schizzi di fango che arrivavano fino alla vita del bel vestitino una volta candido, ma sopratutto una risata incurante e cristallina che sovrastava le voci delle sorelle e si fondeva col cinguettio degli uccelli e i suoni della natura.

Nonostante la spossatezza del duro lavoro mi ritrovai a sorridere alla scena e con ancora quel suono nelle orecchie tornai a spingere la mia carriola un po' più allegro.

 

Non dovetti aspettare molto perché Mademoiselle De Bonbonheur tornasse ad allietare le mie giornate. Scene di selvatichezza e irriverenza avevano cominciato a susseguirsi sempre più frequenti nelle settimane primaverili, in cui la famiglia spesso si concedeva pranzi e passeggiate all'aperto, puntualmente stravolte da quel piccolo uragano che di nobile aveva solo il cognome. Dalla mia postazione io avevo una discreta visuale sul tutto e non erano rare le volte in cui sgusciavo dalla stretta sorveglianza dello stalliere per godermi lo spettacolo con un po' più di calma.

Certo, ritenendo che sarebbe stato alquanto sconveniente attirare l'attenzione di Sua Signoria ridendogli in faccia, mi mantenevo sempre a debita distanza dalla mia intrattenitrice preferita. Questo almeno fino al giorno in cui la madre non la perse di vista e me la ritrovai accovacciata nella stalla, intenta ad osservare da MOLTO vicino gli zoccoli di una cavalla non esattamente tranquilla.

Passato il momento di shock iniziale districai le mani che si erano automaticamente andate a infilare nei capelli e mi lanciai sulla ragazzina, proprio mentre l'animale caricava il colpo.

Per un soffio, riuscii a sollevare Mademoiselle da terra un attimo prima che il calcio partisse e con litri di adrenalina ancora in circolo cominciai a controllare che non fosse ferita, chiedendole se stesse bene e se i suoi genitori sapessero che si trovava lì. Lei mi rivolse uno sguardo calmo come acqua stagnante, degno di un eremita dei boschi, e si limitò a chiedermi:

-Non fa male quel ferro attaccato al piede?- indicando con il dito lo zoccolo che l'aveva quasi centrata in fronte.

-Certo che fa male!- le risposi esterrefatto -Se la colpiva l'avrebbe anche potuta uccidere, Mademoiselle!-

Lei scossè la testa impaziente.

-Non a me, a lui!- replicò semplicemente indicando ancora la cavalla, del tutto incurante del pericolo corso.

Rimasi a fissarla interdetto per alcuni secondi, poi la tensione si sciolse in una risata e con calma (ma soprattutto a distanza di sicurezza dal quadrupede) le spiegai il perché e il per come dei ferri di cavallo.

 

Da quel giorno la giovane De Bonbonheur diventò un ospite abituale della stalla. Voleva sapere tutto sui cavalli, mi seguiva ovunque e non mi dava tregua finché non rispondevo alle sue interminabili domande. Dapprima volle sapere ogni cosa sui bestioni con cui lavoravo, poi cominciò ad interessarsi all'utilità degli attrezzi di legno e di metallo, poi volle sapere tutto sul fieno, sui corvi e i tempi di semina del grano, per non parlare dei cicli della natura e il viaggio del sole nel cielo, in pratica tutto quello che le veniva in mente. Mi aveva eletto a suo maestro di vita e non passava giorno senza che riuscisse ad eludere la sorveglianza materna per venirmi a cercare.

Sebbene all'inizio questa situazione non mi lasciasse del tutto tranquillo (non osavo immaginare la reazione di Monsieur all'idea della figlia bazzicatrice di stalle e frequentatrice di garzoni), dopo le prime settimane la straordinaria capacità della ragazzina di farla sempre inspiegabilmente franca mi rasserenò e cominciai ad apprezzare quelle adoranti attenzioni, divertendomi un mondo a inventare le spiegazioni più strambe e arzigogolate a domande che sinceramente non sapevo neppure come le venissero in mente.

Passarono i mesi e il nostro stare insieme divenne sempre più naturale man mano che le giornate si susseguivano. Lei appariva sempre all'improvviso dal nulla, silenziosa come un gatto e scompariva con altrettanta rapidità nel momento in cui qualcuno si avvicinava. Ricordo ancora ora come mi correva intorno mentre lavoravo, raccontandomi le comiche delle sue sorelle, con la sua risata di cristallo che riempiva l'aria, o i suoi grandi occhi nocciola che mi osservavano, ancora più enormi e attenti quando era il mio turno di parlare e spiegare i perché del mondo. A volte, quando l'eccitazione della giornata era stata troppa anche per lei, poggiava la testa sulle mie ginocchia e si addormentava immediatamente, bella e pacifica come un diavoletto tramutato per magia in angelo.

 

Poi arrivò la pestilenza.

 

Nei campi i contadini cominciarono a cadere come mosche e fin troppo presto il male superò le mura di cinta della villa mietendo le prime vittime tra la servitù.

Nessuno sapeva da dove venisse o come si trasmettesse, il panico cominciò a dilagare e Monsieur De Bonbonheur non perse tempo in investigazioni di sorta. Una mattina radunò la famiglia e partì veloce come la luce, probabilmente diretto in città o comunque il più lontano possibile dalla pestilenza, lasciando la villa e tutti i suoi abitanti al più completo sbaraglio.

Quella mattina vidi la carrozza sparire in lontananza sotto ad un cielo plumbeo e in quel momento seppi che era finita. Non più ordini da eseguire, non più tre piatti al giorno né un letto caldo in cui dormire. Anche la servitù superstite stava raccogliendo i pochi averi per andarsene il prima possibile. Il terrore di un futuro incerto e della malattia che strisciava subdola mietendo vittime attorno a me mi lasciò sconcertato e in quel vuoto l'unico pensiero concreto che riuscì a formulare fu che non avrei più rivisto la piccola Claudette.

  
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