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Capitolo 10 -
Passarono
diverse settimane da quando ‘Valerie’
si confidò con Tom e da quando, lui, si era riappacificato
con il suo migliore
amico, Andreas. Non ebbe più notizie del ragazzo che,
apparentemente, scambiò
per una ragazza; la ragazza dei suoi sogni; la ragazza perfetta. Forse
troppo perfetta
per poter essere reale. Non aveva alcuna intenzione di parlarci,
né di sapere
altro sul suo conto. Voleva metterci una pietra sopra e riprendersi la
sua
vita. Quella vita che, prima di conoscere Valerie, riteneva perfetta;
quella
vita che lo faceva sentire vivo; quella vita che non gli apparteneva.
Era la
vita di un’altra persona. Non era la sua. Non lo era mai
stata.
Ad
ogni modo, Tom e Andreas, ritornarono ad
essere grandi amici; ma nessuno dei due osò mai parlare di
quanto successe
nell’appartamento di Andreas. Si buttarono tutto alle spalle
e provarono ad
andare avanti; anche se Andreas notò che, da quando Tom non
aveva più contatti
con ‘Valerie’, non era più felice; non
era più lo stesso. Ma il sol pensiero
che lei, fosse un lui,
gli metteva paura. Come doveva
comportarsi? Eppure, quel giorno nell’appartamento di
Andreas, aveva fatto ciò
che non si sarebbe mai aspettato da se stesso. Mai. Cosa gli provocava
realmente timore?
L’unica
cosa positiva, se così vuol essere
chiamata, era che, da quando non aveva più contatti con
‘Valerie’, la voce era
scomparsa. Non l’udiva più. Non riusciva
però a capire se questo, fosse un bene
o un male. Gli mancava quella voce oppure era felice di non sentirla
più nella
propria testa? Due domande, a cui non aveva minimamente risposta. Era
certo,
però, che la presenza fisica di quel ragazzo, gli mancava
come l’aria. Aveva
paura ad ammetterlo, ma era così. Nella sua testa,
continuava a frullargli
l’idea di prendere il suo fottuto cellulare e di comporre il
suo numero; ma
poi, quando riusciva a prenderlo in mano, improvvisamente lo posava di
nuovo
sul proprio comodino. Codardo. Sei un
maledetto codardo! Ripeteva a se stesso. Delle volte, si
schiaffeggiava
copiosamente il viso come se volesse svegliarsi. Ma non c’era
nulla da fare. Il
terrore di affrontare una relazione con un uomo, era più
forte del desiderio di
rivederlo e di stingerlo nuovamente fra le proprie braccia,
più forte di poter
baciare ancora una volta quelle labbra così perfette e
rosse. Aveva paura ad
ammettere che, quasi sicuramente, era innamorato di lui. Ma chi era
veramente
‘Valerie’? Qual era il suo vero nome? La sua vera
storia l’avrebbe mai
conosciuta? Questo, spettava solo a Tom scoprirlo.
«Buongiorno!»
Tom si trascinò giù per le scale
sorreggendosi al muro. Era praticamente uno zombie. La sera prima si
era
ubriacato talmente tanto da non ricordare nemmeno di come fosse tornato
a casa
o, tanto meno, di cosa avesse fatto. Quando Simone alzò lo
sguardo dal giornale
che stava leggendo e lo posò sul proprio figlio,
tremò leggermente e strabuzzò
gli occhi. Tom aveva due occhiaie violacee, come se avesse ricevuto due
pugni
in pieno volto. Lo aveva visto diverse volte svegliarsi dopo il
post-sbornia,
ma quella volta, era davvero conciato male.
«Per
Dio, Tom. Che cosa ti è successo? Sembri
appena uscito da un film dell’orrore.»
Aveva
gli occhi incavati, due occhiaie violacee
che gli arrivavano fin sopra gli zigomi e un colorito a dir poco
pallido.
«Non
sono per niente in vena di scherzare,
mamma. Ho soltanto bisogno di una mega tazza di caffè extra
forte, di una
dozzina di waffles con lo sciroppo d’acero e di un quintale
di panna.»
Giunto
al tavolo, trascinò indietro una sedia e
si lasciò cadere su di essa come un sacco di patate.
Gettò la testa all’indietro
e, con la bocca semi aperta e gli occhi socchiusi, gemette.
«Cazzo, mi sento
peggio di una pezza strizzata e gettata con violenza per terra per
poter lavare
ore ed ore il fottuto vomito di un neonato dal pavimento.»
Tom era serio,
moribondo e sfinito; Simone, invece, a quella frase, si
lasciò sfuggire un
risolino.
«Okay,
straccio per pulire il vomito di un
neonato, adesso ti preparo la colazione. Sono avanzati quattro waffles.
La
panna spray e lo sciroppo d’acero ci sono ancora. Il
caffè è caldo, nella
macchinetta. »
«Se
non fosse per la mia dignità ed il mio
orgoglio, ti chiederei di imboccarmi.» Tom sorrise
leggermente e Simone lo
seguì a ruota.
Tom
ripulì con l’indice il piatto ancora sporco
di panna e lo leccò con nonchalance, una, due e tre volte,
fino a quando Simone
non lo rimproverò. Un
po’ di contegno,
per Dio!
«Lasciami
in pace!» sbottò poi, alzandosi di
scatto dalla sedia e allontanando con arroganza il piatto oramai vuoto
e
pulito. Simone si meravigliò. Tom non era mai stato
così scontroso con lei;
insomma, era arrogante e brusco delle volte, ma non le aveva mai
risposto male.
Chiese che cosa avesse. Lui rispose nuovamente di lasciarlo in pace e
che non
aveva alcuna voglia di parlare.
«Sei
mio figlio ed ho il diritto di sapere se
c’è qualcosa che non va. »
«Ti
ho già detto che non ho nulla. Ho ancora i
postumi di ieri. Mi sono strafatto e ho bevuto fino a sentirmi male.
Poi ho
scopato come un dannato con due ragazze, contemporaneamente. Insomma,
devo
raccontarti tutti i cazzi miei? Eh?» alzò
notevolmente il tono di voce. Quel
giorno, Tom, non era affatto di buon umore.
La
situazione era decisamente degenerata da
quando non aveva più notizie di
‘Valerie’. Chiamare quel ragazzo così,
faceva
troppo strano. Non era il suo vero nome. Doveva almeno conoscerlo. O
no? Qual
era la cosa giusta da fare? Chiamarlo? Dimenticarlo? Eppure, ogni
fottuto
giorno che passava, sentiva sempre di più la sua mancanza.
Simone
lo guardò con gli occhi sbarrati, allontanarsi dal tavolo e
a rifugiarsi nella
sua stanza – capì che andò
lì perché sentì sbattere violentemente
una porta, e
Tom sbatteva solo quella della sua stanza. –
«Vaffanculo!
Vaffanculo!» cacciò un urlo, quasi
da graffiarsi la gola. Batté i pugni sul tavolo. Si fece
male. Improvvisamente
cominciò a piangere. Ora era la porta a subire. Calci,
pugni, urla. Sentiva un
vuoto dentro di sé, un vuoto che solo quando stava
con… Lui, riusciva ad
essere colmato. Era dura da ammettere, ma era
così. Era innamorato. Per la prima volta, quando pensava a
qualcuno, gli
batteva il cuore, come non gli era mai capitato prima
d’allora.
Si
lasciò cadere di petto sul letto e, con il
volto sul cuscino, sfogò la sua collera, piangendo.
Ehi.
La
voce. La sua voce. Era tornata.
Lasciami
in pace.
Perché
ti comporti in
questa maniera?
Non
ho voglia di
parlare. Cristo sembro un pazzo!
No,
non sei pazzo.
Sei solo innamorato.
Dimmi
se è normale
sentire nella propria testa una voce che, a parer mio, non esiste.
Io
esisto, Tomi.
Esisto eccome. E sai perché riesci a sentirmi?
Non
voglio saperlo.
È
il legame, Tomi. È
il legame che c’è tra me e te. Si chiama
telepatia.
Non
so che cosa mi
leghi a te. Non mi interessa saperlo.
E
invece sì. Lo
scoprirai, ben presto.
I
suoi pensieri vennero interrotti
improvvisamente dalla vibrazione del cellulare. Gli era arrivato un
messaggio,
molto probabilmente. Si mise seduto sul letto sfatto e prese il
cellulare posto
sul comodino accanto a lui. Pigiò sul tasto in modo tale da
illuminare lo
schermo. Erano presenti due messaggi:
Andreas:
visualizzato alle 14:57
Ehi
imbecille, dormi
ancora? Possibile che tu ti sia distrutto così tanto ieri?
Chiamami appena ti
svegli.
Tom
sorrise e rispose al messaggio:
Mi
sono alzato poco
fa. Più tardi ti chiamo.
Inviò
il messaggio e quando andò a visualizzare
il secondo messaggio, gli si bloccò il cuore. Era lui. Il
numero era ancora
salvato con il nome ‘Valerie’. Il messaggio era
secco, breve, freddo, privo di
significato.
Valerie:
visualizzato alle 14:59
Io
li ammazzo.
Inizialmente
non capì. Non aveva senso quel
messaggio. Non voleva girare intorno al discorso, per questo, decise di
chiamarlo.
Uno,
due, tre squilli. Al quarto rispose una
voce tremante, arrabbiata e singhiozzante. Stava piangendo.
Oddio,
Tom. Oddio!
Era
praticamente disperato.
Io
li ammazzo, Tom. Li
ammazzo.
Tom
continuava a non capire.
Val..
Fanculo! Non so
nemmeno come cazzo ti chiami. La smetti di piangere. Cosa cazzo vuoi?
Sono
io, Tom. Sono
Bill.
Silenzio.
Tom?
Tom dimmi che ci
sei ancora!
Sì,
Tom era ancora in linea. Era rimasto
pietrificato. Quel nome, quel nome gli ricordava qualcuno. Gli
ricordava
qualcuno di speciale. Qualcuno che, tempo fa, per lui, era di vitale
importanza. Ma chi era realmente?
Lasciami
spiegare.
Vieni da me.
Cosa
vuoi, ancora?
Tom
continuava a non capire.
Smettila
di sprecare
tempo così. Cazzo, vieni!
Urlò
e, subito dopo, terminò la chiamata. Il
telefono di Tom, ben presto, fece un viaggio contro la parete beige
della sua
camera, finendo in pezzi. Si mise le mani fra i capelli e si
accasciò sul
letto. Subito dopo, giunse le mani in preghiera e le portò
vicino le labbra:
«Non
ho scelta.» disse. «Non ho scelta, devo
andare!» si alzò rapidamente dal letto e, una
volta fattosi una doccia
rapidissima, prese i primi vestiti che gli capitarono in tiro e
uscì di casa, senza
nemmeno salutare Simone.
In
macchina stava letteralmente tremando. Le
mani non riuscivano a tener fermo il volante. Fortunatamente, quella
mattina,
Berlino non era trafficata come lo era solitamente. Il piede premeva
contro
l’acceleratore in maniera del tutto incontrollata; stava
sfrecciando per la
strada come se stesse gareggiando con qualcuno, su di una pista da
rally. La sua mente
era completamente vuota. Vagava
soltanto un nome, in quel momento: ‘Bill’. Forse,
dopo anni di buio, una luce
stava cominciando ad apparire nella sua vita. Quella vita che, prima di
incontrare
Bill, era vuota e priva di senso. Aveva capito che, molto
probabilmente,
l’essere innamorato di un ragazzo, non era poi
così sbagliato. Ma chi era
davvero Bill? Cosa centrava lui nella sua vita? Perché gli
aveva detto: ‘Sono
io. Bill! ’ La sensazione di averlo già visto,
quindi, non era del tutto
errata. Perché allora non ricordava né chi fosse,
né come l’aveva conosciuto. E
perché Bill, soltanto dopo il litigio, gli aveva svelato la
verità? Nemmeno lui
allora ricordava con esattezza chi fosse? La risposta a tutte queste
domande
che si stava ponendo, era unica e sola; la risposta era proprio lui,
Bill.
Soltanto lui avrebbe potuto colmare i vuoti di memoria; e forse,
avrebbe potuto
dare un senso a tutti quei flashback che continuavano a perseguitarlo.
Quei due
ragazzini. Quei due ragazzi potevano essere loro due, forse?
Sì, doveva essere
così. Non c’era nessun altra spiegazione logica.
Poco
dopo arrivò a casa di Bill. Lui
l’attendeva seduto sui gradini che conducevano al proprio
portone. Stava
fumando la quarta sigaretta, probabilmente – visto i tre
mozziconi spenti che
giacevano accanto ai suoi piedi. – voltava il proprio sguardo
a destra e a
sinistra. Stava forse aspettando Tom?
Parcheggiò
poco lontano dalla sua abitazione,
spense l’autovettura, mise la sicura e si avviò
verso casa del ragazzo. Ogni
passo che faceva, era una morsa allo stomaco. Non si era mai sentito
così. Come
le chiamavano le ragazzine innamorate? A sì; in quel momento
era perseguitato
dalle cosiddette farfalle nello stomaco.
Un bruciore interno lo invadeva da capo a piedi. Non aveva nemmeno il
coraggio
di guardare diritto. Ogni passo, lo faceva con il capo chino,
guardandosi le punte
consumate delle proprie AirMax bianche. Qualche altro passo e si
ritrovò
difronte a lui.
Bill,
non appena vide la figura di Tom davanti
a sé, scattò in piedi. Gli vennero
improvvisamente le lacrime agli occhi. In
quel momento avrebbe voluto saltargli addosso e gettare attorno al
collo di Tom
le proprie braccia; ma rimase fermo lì, immobile davanti a
lui.
I
due ragazzi si guardarono per pochi attimi
senza dir nulla. Entrambi esitarono. Nessuno dei due riusciva a dir
qualcosa.
Solo dopo un interminabile minuto di silenzio, uno dei due si fece
coraggio e
proferì parola.
«Cosa
vuoi? Per quale motivo mi hai chiamato?» pronunciò
in tono freddo e distaccato il rasta; tenendo basso lo sguardo
dimodoché non si
trovasse ad incrociare lo sguardo di Bill.
Bill
fece un lungo sospiro. Chiuse gli occhi e
cercò di trovare le parole giuste per affrontare il
discorso.
«Mi
sei mancato da morire.» cominciò lui,
schioccandosi le dita delle mani in maniera decisamente troppo nervosa.
La sua
voce cominciò a tremare improvvisamente. Si sentiva un vero
e proprio stupido.
Ma doveva parlare. Doveva farlo.
«Sì,
okay. Ma perché mi hai chiamato?» Tom
continuava ad essere freddo e distaccato.
«Possibile
che non ti ricordi nulla? Nemmeno
dopo averti detto il mio nome?»
Tom
continuava a non capire. Che cosa doveva
ricordare?
«Senti,
non capisco dove tu voglia arrivare.
Comincio a stufarmi. Mi vuoi dire per quale motivo mi hai chiamato
oppure devo
girare i tacchi ed andarmene?» Finalmente, Tom,
posò lo sguardo sugli occhi
lucidi e tristi del ragazzo in piedi difronte a lui. Notò la
sua amarezza, la
sua tristezza. Si vedeva che doveva dirgli qualcosa. Molto
probabilmente non
aveva il coraggio di affrontare il discorso. Lui però, non
era per niente una
persona paziente. «Guarda, non voglio essere sgarbato, ma mi
stai davvero
facendo girare i coglioni!» Bill prese a singhiozzare. Per
quanto la voglia di
parlare fosse grande, la paura di essere giudicato pazzo, era di
più.
Tom
attese qualche altro attimo, ma quando notò
che dall’altra parte non c’era alcun interesse di
chiarire la situazione,
stizzito, lo mandò a quel paese, accompagnando il
‘vaffanculo’ con un bel gesto
della mano.
«Tomi,
non te ne andare!»
Il
moro lo afferrò inaspettatamente per un
lembo della maglia, trattenendolo ed impedendogli di andarsene.
«Non so come
dirtelo. Non so come tu potresti reagire.» continuò
«Almeno
provaci, cazzo! Provaci!» Tom si liberò
violentemente dalla presa, costringendo Bill a fare qualche passo in
avanti. «Sei
sparito. Non ti sei fatto vivo. E poi? Poi te ne esci che mi devi
parlare, e
non mi parli. Insomma, decidi te cosa devi fare. Non voglio perdere
altro tempo
con te. Mi stai facendo esasperare.»
Tom
si passò le mani sul viso, per poi portarle
sulla propria testa e afferrare con forza i propri rasta.
«Tom,
non è così facile come sembra. Non lo
è
per niente! »
«Provaci,
allora! Come faccio a giudicare o ad
esprimere un parere se non mi dici un cazzo di niente! Porco Dio,
Bill.»
Bill
cominciò a piangere. E cosa poteva fare se
non sfogarsi in quella maniera? Tom lo stava letteralmente uccidendo
con tutte
quelle domande. La colpa, però, era solo e soltanto sua. Era
stato lui a
chiamarlo per dirgli che doveva assolutamente parlargli. Era stato
così facile
informarlo per telefono. No avrebbe mai immaginato che, dal vivo,
sarebbe stato
così difficile. Era un argomento troppo delicato. Eppure,
nemmeno lui riusciva
a crederci. Finalmente tutto aveva un senso; anche se, per quanto
chiaro fosse,
non riusciva a trovare le parole giuste per spiegarlo. Come poteva
cominciare
un discorso del genere? Come poteva far credere a Tom ciò
che stava per
riferirgli se, stranamente, nemmeno lui ancora ci credeva.
«Tomi..
Io…. Io sono.»
Forza
Bill. Ce la
puoi fare. Ce la devi fare. Dillo! Dillo!
Nella
sua mente, Bill, cercava di darsi quanto
più coraggio possibile. Quel coraggio che però,
non riusciva a trovare.
Dal
canto suo, Tom, cominciò a stizzirsi. Non
aveva mai avuto riconoscimenti per la sua pazienza.
«Senti,
Bill, se entro un secondo non mi dici
tutto quello che hai da dire, quanto è vero iddio, me ne
vado! »
La
rabbia cominciò a fargli ribollire il sangue
che, di conseguenza, schizzò dritto al cervello,
provocandogli un forte mal di
testa. Bill non volle sentire ragioni. Era più forte di lui.
Come poteva
raccontargli di una cosa così delicata? Lo avrebbe preso per
un pazzo paranoico
o peggio, per uno psicopatico. Ma cosa aveva ancora da perdere? Che
cosa poteva
accadergli di peggio? Niente. Tutto ciò che lo aveva ucciso,
era già capitato.
Adesso, però, non poteva permettere di essere soffocato
ancora una volta.
Doveva reagire. Doveva riprenderselo. Doveva riprendersi la sua vita.
La sua
vera vita. Ad ogni costo. Ma la paura di essere giudicato, era
più forte di
lui. Più grande di qualsiasi cosa.
«Cristo
santo! Basta. Non ti voglio dar conto! Mi
stai facendo perdere solo del tempo.» Tom stava per
andarsene. Ma,
improvvisamente, Bill lo afferrò per un lembo della t-shirt
e lo trattenne.
Poi, ciò che disse, venne tutto in maniera automatica. Si
era finalmente
sbloccato.
«
.. Sono tuo fratello, Tom.» Silenzio. Un
interminabile silenzio. «Tuo fratello.»
Ci
era riuscito. Ce l’aveva fatta. Aveva
finalmente vuotato quel magone che si stava portando in corpo; ma,
dall’altro
lato, non ci fu risposta. Restò muto. Con gli occhi quasi
spalancati e la bocca
semi aperta, continuava a guardare Bill. Sembrava un fantoccio privo di
vita.
Una bambola di pezza. Una statua di cera. Non ci fu reazione.
Improvvisamente
e, inaspettatamente, Bill gli gettò le braccia intorno al
collo. Cominciò a
piangere, bagnando il colletto della t-shirt, sporcandolo
involontariamente di
trucco.
«Dio
Tom. Ora mi è chiaro. Mi è chiaro
tutto.»
cominciò. «Per anni l’hanno tenuto
nascosto. Per anni. Ma adesso siamo… Siamo
di nuovo insieme. Tu ed io. Non permetterò a nessun altro di
portarti via da
me. Non questa volta. Ora capisco il sentimento che ho subito provato
per te.
Ora capisco per quale motivo non riuscivo a trovare la persona giusta o
non
provavo nulla per nessuno. Infondo all’anima, inconsciamente,
io sapevo di
appartenere a te. Ti sono sempre appartenuto. Noi ci siamo sempre
appartenuti.
Fin dall’inizio.» riprese fiato. Singhiozzava.
Tom
non proferì parola. Improvvisamente,
afferrò Bill per le spalle o se lo scrollò di
dosso. Lo guardò dritto negli
occhi. Cercava una risposta? Cercava la verità? Stava
dicendo solo un mucchio
di cazzate, oppure era tutto vero ciò che gli aveva appena
riferito. Continuò a
fissarlo in quegli occhi che, fin dal principio, sapeva di aver
già visto;
quegli occhi che, ora come ora, erano abbottati di nero, gonfi e rossi
per via
delle troppe lacrime. Bill si sentì morire. Quello
sguardo… Quello sguardo lo
ricordava perfettamente. Ogni qual volta si posava su di lui, gli
mozzava il
fiato; quasi come se stesse per morire. Gli bloccava il battito del
cuore per
un istante, congelandogli il sangue nelle vene. Lui, solo lui era in
grado di
dargli questo effetto. Nessun altro.
«Lascia
che ti spieghi com’è andata, Tom.
Lasciami raccontare. Mio... Nostro padre ha confessato tutto. Per anni,
Tom, per
anni ci hanno tenuti nascosti gli uni dagli altri. Mi ha mentito sulla
morte di
mamma. Mi ha mentito sulla tua
morte.
E tua… Nostra madre… Ti ha mentito sulla mia
morte o peggio. Forse non hai mai saputo della mia esistenza. Ma
adesso... Adesso
è tutto chiaro. Voglio solo aiutarti a ricordare, Tom. Ti
prego. Ricorda tutto.
Non chiedo altro!»
Singhiozzò,
intrecciando nuovamente le braccia
attorno al collo del fratello. Questa volta, Tom, non restò
impassibile.
Lentamente, avvolse l’esile corpo del ragazzo che si trovata
di fronte.
Socchiuse leggermente gli occhi e sprofondò nei suoi capelli
corvini. Inspirò
tutta l’aria che poté trattenere nei polmoni, in
modo tale da poter svanire in
quel profumo così fresco e delicato che emanava Bill. Un
profumo che, in fondo
al suo inconscio, aveva già sentito. Era così
famigliare. Tutto, di lui, era
così famigliare. Possibile che non se ne fosse mai accorto?
Sebbene ancora non
avesse capito del tutto la situazione, sapeva benissimo che non stava
raccontando
fandonie. Il modo in cui lo avesse messo a conoscenza della situazione
–
seppure in parte – gli aveva fatto capire quanta sofferenza
ci fosse nelle sue
parole e, se non fosse stato vero, non avrebbe mai avuto quella
reazione.
Lo
strinse ancora più forte. Ancora. E ancora. Quasi
come volesse far parte del suo corpo. Bill tirò su un
sospiro e si lasciò
andare fra le sue braccia, di nuovo.
«Siamo
insieme, ora. Tom, non ci separeranno
mai più. Mai!» per quanto forte lo stesse
abbracciando, provò a stringere
ancora di più la presa, come se si volesse fondere con lui.
Lo avrebbe fatto,
se solo fosse stato possibile. «Voglio che tu sappia
com’è andata! »
Bill
si allontanò, seppure svogliatamente, dal
sicuro abbraccio di Tom, per poterlo guardare negli occhi ed attendere
una
risposta. Dal canto suo, Tom, non sapeva né cosa fare,
né come comportarsi, né
cosa dire. Ancora non riusciva a capire. Non aveva ancora assimilato
quell’unica
informazione vitale che Bill gli avesse fornito, figuriamoci un intero
discorso. Ma doveva assolutamente sapere come fosse andata realmente.
Non
poteva accettare tutto così, su due piedi, senza venire a
conoscenza di tutto,
alla perfezione. Doveva ricordare, doveva ricordare ancor meglio. Anche
se,
finalmente, tutto aveva un senso.
Quella
voce. Quella voce era lui. Suo
fratello. Quando sentiva continuamente quel ‘sono
io, Tom’ era la sua voce.
Al sol pensiero, gli vennero i
brividi. Mi hai trovato, Tom. Ora devi
solo ricordare.
Stupido.
Era stato solo un grandissimo stupido.
Perché non riusciva a capire sin dall’inizio?
Perché? Quale era il problema?
Per quale motivo sua madre, Simone, gli aveva nascosto una cosa
così
importante?
«Dammi
questa opportunità, Tom. Dammi la
possibilità di raccontarti tutto. Per favore.»
Tom
non proferì parola per qualche istante;
dopodiché, sospirando e buttando fuori l’aria
accumulatasi nei polmoni, fuori
dal naso, annuì, socchiudendo leggermente gli occhi.
«Okay,
Tomi. Adesso dobbiamo solo andare via da
qui. Andiamo al parco, d’accordo? Ti spiegherò
tutto. Ogni cosa.»
Bill
gli tese la mano. Inizialmente, Tom fu
scettico. La guardò per qualche istante, senza afferrarla;
ma una volta che
Bill la protese ancora di più, sfoggiando uno splendido
sorriso, Tom si
tranquillizzò, ricambiò il sorriso e strinse
delicatamente la mano magra ed
affusolata del fratello.
«Sai…»
improvvisamente, un suono flebile uscì
dalla sua bocca. Bill lo invogliò a proseguire e a
continuare quella frase che
stava per cominciare. «…sono convinto che
ricorderò tutto.»
Non
appena sentì quelle parole, Bill sfoggiò un
meraviglioso sorriso smagliante. Gli davano sicurezza, quelle parole.
Lo
aiutavano ad accumulare fiducia sia nei suoi confronti che in quelli
del
fratello.