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Autore: Willows    10/05/2014    1 recensioni
Ci sono io che sono ubriaco e ci sei tu, che non sei mai stata così bella.
Non te l’ho mai detto, ma l’ho sempre pensato, dalla prima volta che ti ho visto.
Sei bella Judith, bellissima. E lo sei sempre, di prima mattina con gli occhi gonfi di sonno e i capelli scompigliati o dopo una giornata di lavoro, con il sorriso stanco di chi non si arrende mai.
Questa notte non fai eccezione, il vento ti scompiglia i capelli biondi mandandoteli sul viso, hai gli occhi lucidi e le guance rosse. Sei bellissima, lo giuro.
«Non te ne andare» biascico contro la tua guancia. Ho provato a baciarti sulle labbra, ma vuoi che te ne eri accorta e ti sei girata, vuoi che i miei riflessi da ubriaco non sono dei migliori, non ci sono riuscito.
Hai smesso di ridere.
«Tu fra tre mesi ti sposi e mi chiedi di restare?» mi chiedi a bruciapelo, diretta come sempre.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Slow dancing in a burning room.
It's not a silly little moment
It's not the storm before the calm
This is the deep and dying breath of
This love that we've been working on




C’è la luna questa sera, che brilla alta nel cielo e ci sono i tuoi occhi che sono ancora più luminosi. C’è il mare calmo, tocchi leggeri e guance arrossate. Ci sono le mie mani che danzano soavi sul tuo viso e sul tuo corpo. Ci sei tu che mi guardi e ridi, buttando la testa all’indietro per lasciare scoperto il collo diafano. Pelle di seta e occhi di perla.
«Sei ubriaco» mi dici danzandomi attorno, il vestito che volteggia insieme a te, scoprendoti le gambe lunghe.

Ci sono io che sono ubriaco e ci sei tu, che non sei mai stata così bella.
Non te l’ho mai detto, ma l’ho sempre pensato, dalla prima volta che ti ho visto.
Sei bella Judith, bellissima. E lo sei sempre, di prima mattina con gli occhi gonfi di sonno e i capelli scompigliati o dopo una giornata di lavoro, con il sorriso stanco di chi non si arrende mai.
Questa notte non fai eccezione, il vento ti scompiglia i capelli biondi mandandoteli sul viso, hai gli occhi lucidi e le guance rosse. Sei bellissima, lo giuro.
«Non te ne andare» biascico contro la tua guancia. Ho provato a baciarti sulle labbra, ma vuoi che te ne eri accorta e ti sei girata, vuoi che i miei riflessi da ubriaco non sono dei migliori, non ci sono riuscito.
Hai smesso di ridere.
«Tu fra tre mesi ti sposi e mi chiedi di restare?» mi chiedi a bruciapelo, diretta come sempre.
L’hai detto con dolcezza però, niente risentimento o rabbia nella voce. Solo dolcezza e una rassegnata tristezza.
«Sposo lei però amo…»
«Non lo dire» mi zittisci mettendomi la mano davanti alla bocca, come quando eravamo bambini e non volevi sentire le storie sui fantasmi che ti raccontavo, perché poi te li sognavi la notte, dicevi.
Hai paura anche stanotte?

Ci sono io che sono troppo ubriaco per stare zitto e ci sei tu, che hai paura. C’è la luna, sempre alta nel cielo, una canzone di Jhon Mayer in sottofondo e i tuoi sospiri pesanti.
«Non è colpa mia» dico bevendo l’ultimo sorso di birra.
«Non è colpa di nessuno» concordi sedendoti di fianco a me, la testa poggiata alla mia spalla, gli occhi rivolti al mare e la testa chissà dove.
«Cosa abbiamo sbagliato?» ti chiedo, sperando che tu abbia una risposta da darmi.
Perché quando hai davanti l’amore della tua vita, ma tra nemmeno tre mesi ti sposerai con un’altra, ti viene naturale pensare di aver sbagliato qualcosa.
«Quale volta?» domandi scoppiando a ridere. Rido anche io, nonostante non ci sia un cazzo da ridere, ma proprio niente.


Ci conosciamo fin da bambini, tu abitavi nella casa gialla di fianco alla mia, quella con il giardino poco curato e la staccionata rotta. Eravamo amici, tu venivi a casa mia a giocare per scappare dalle urla dei tuoi genitori e dalle loro litigate infinite. Passavamo le ore in camera mia, tu stavi zitta e io parlavo, ti raccontavo storie di fantasmi, di mostri ed esseri immaginari.
Era bello. Alcune volte ti fermavi anche la notte, allora dormivano stretti l’uno all’altro, fingendo che quel letto fosse troppo piccolo per noi. Eravamo bambini e le cose erano semplici.

Ricordo il giorno in cui hai capito che tuo padre non sarebbe più tornato. Avevi quattordici anni e non eri più la bambina con cui giocavo ai lego, eri cresciuta. I capelli biondi erano lunghi e sempre sciolti sulle spalle, di rado li legavi perché ti piaceva il modo in cui ti nascondevano il volto.
«Non tornerà più» mi hai detto con gli occhi lucidi, in piedi al centro della mia stanza.
Ti sei morsa il labbro, gli occhi rivolti al soffitto, le mani che si sfregavano fra di loro, tutti sistemi per non piangere, per non mostrarti debole di fronte a me.
«Cosa?» ti ho chiesto confuso ed allarmato, perché non ti avevo mai visto così distrutta e non avevo idea di cosa stesse succedendo.
«Mio papà, lui non tornerà più. Ci ha abbandonato» mi hai detto atona, ma i tuoi occhi ti tradirono. Mi era bastato uno sguardo nei tuoi occhi azzurri, infatti, per capire quanto dolore stessi provando, quanto quell’abbandono ti stesse segnando. Ti ho abbracciato mentre tremavi dallo sforzo di non cadere a pezzi, poi ti ho baciato sulle labbra, perché, anche se distrutta, eri bellissima Judith. Ti sei scostata, mi hai guardato sconvolta e sei uscita dalla stanza.
Avevi quattordici anni e avevi capito che, a volte, le persone che ti vogliono bene se ne vanno. E l’avevo capito anche io.


I was the one you always dreamed of
You were the one I tried to draw
How dare you say it's nothing to me?
Baby, you're the only light I ever saw




Avevi sedici anni ed eri incazzata con il mondo, eri incazzata con tua madre, con il suo compagno, con la scuola e anche con i tuoi amici. Ma non eri incazzata con me.
C’erano i tuoi capelli violetto, diventati bianchi dopo nemmeno tre lavaggi, il piercing al naso e i jeans strappati. C’erano le tue converse bianche tutte rovinate e le mie vans nuove di zecca. C’eri tu che non eri più la ragazzina distrutta dall’abbandono del padre e c’ero io che pendevano letteralmente dalle tue labbra. Eri cresciuta e avevi imparato ad erigere un muro per respingere le persone, per non farle entrare e rischiare, poi, di affezionarti, che l’avevi imparato da bambina che, a volte, le persone che dovrebbero amarti e proteggerti sono quelle che ti fanno soffrire di più. Che poi, magari, non lo fanno neanche apposta, però fa comunque un male cane.
Stavamo insieme anche se non ufficialmente, non c’era stato nessun appuntamento o dichiarazione, semplicemente un giorno, dopo quasi due anni che ci parlavamo a mala pena, avevi ricominciato a presentarti a casa mia. Bevevamo, fumavamo e ci baciavamo. Le nostre giornate consistevano in questo. Tu uscivi tutte le sere, bevevi molto e tornavi tardi, non che a tua madre importasse, lei aveva il suo nuovo compagno a cui pensare, ma a me si. Per questo litigavamo così spesso, perché io volevo salvarti, ma tu di essere salvata, proprio, non ne avevi bisogno. Di solito mi urlavi contro che non ti capivo, poi mi spingevi e scappavi, che se c’era una cosa che avevi preso da tuo padre era quello. Quando la situazione si faceva complicata, tu scappavi, sperando che in qualche modo si risolvesse da sola, convinta che non fosse più un tuo problema.
Non ti vedevo per qualche settimana, durante le quali mi giungevano voci che ti eri baciata con Shane o Liam, ma poi tornavi. Capitava che, a volte, ti trovassi direttamente nella mia stanza, entravi dalla finestra come quando eravamo bambini, e mi aspettavi seduta sul letto con una cartone di pizza, le mani fredde e delle scuse che facevano schifo. Eri troppo orgogliosa per scusarti in maniera decente, eppure andava bene così, le accettavo e dopo neanche un’ora tutto era come prima. Allora eri tu a parlare e io stavo zitto ad ascoltarti con occhi sognanti. Mi raccontavi di come volessi andartene da questa città, che ti era sempre stata troppo stretta e io ti guardavo e non avevo mai visto tanta determinazione nei tuoi occhi. Ero certo che tu saresti riuscita a scappare, solo pensavo che anche io ti avrei seguito. Mi sbagliavo.


I'll make the most of all the sadness
You'll be a bitch because you can
You try to hit me just to hurt me
So you leave me feeling dirty
couse you can't understand


Avevi diciotto anni quando ci siamo lasciati. Era maggio e faceva assurdamente caldo per essere primavera, avevi deciso di tagliarti i capelli fino alle spalle, perché erano tutti rovinati a causa delle continue tinte. In quel periodo mi ricordo che le cose stavano andando stranamente bene, erano mesi che non litigavamo, tu avevi smesso di uscire ogni sera e anche con tua mamma il rapporto era migliorato. Non eravate di certo migliori amiche, ma riuscivate a parlarvi senza urlarvi contro.
Una sera hai bussato alla mia finestra, dopo una settimana che non rispondevi alle mie chiamate e non venivi a scuola. Avevo provato a suonare a casa tua, ma tua madre mi avevi detto che eri andata a trovare dei parenti, chiaramente era una cazzata, ma pensavo volessi solo stare un po’ da sola.
«Sono incinta» hai sussurrato una volta entrata nella stanza, senza lasciarmi il tempo di parlare.
«Cosa?» è stata l’unica parola che sono riuscito a pronunciare. Dopo qualche secondo mi sono seduto per terra, la testa che girava e gli occhi spalancati, sconvolti. Non poteva essere vero, avevamo solo diciotto anni e non eravamo pronti ad avere un figlio. Riuscivamo a mala pena a prenderci cura di noi, non saremmo stati in grado di occuparci di lui.
Tu avevi gli occhi chiusi la testa appoggiata al muro e le mani ti tremavano.
«Non lo voglio» hai bisbigliato stringendo i denti e io non ho detto nulla per contraddirti.

Mi sono presentato a casa tua tre giorni dopo, ci avevo pensato bene ed ero giunto alla conclusione che, in fin dei conti, non era una tragedia. Avrei lasciato la scuola e sarei andato a lavorare nel negozio di mio padre, tu ti saresti dovuta trovare un lavoro part-time forse, ma insieme ce l’avremmo fatta. Era nostro figlio e noi ci saremmo presi cura di lui.
«Sei completamente fuori di testa Zayn!» mi avevi urlato contro non appena avevo finito di parlare, eri incazzata, incazzata nera ed io non riuscivo proprio a capire il perché.
«Neanche a me fa impazzire l’idea di diventare padre a diciotto anni, ma non c’è niente che possiamo fare per cambiare la situazione tanto vale adattarci» ti ho risposto urlando, perché non eri l’unica ad avere paura.
«No, no, tu non capisci! Io non voglio vivere così, non voglio trovarmi bloccata in questa città di merda. Non voglio sposarmi a diciotto anni con uno che lavora nel negozio di pneumatici del padre, per poi ritrovarmi come mia madre. Io non lascerò che questo bambino mi rubi il futuro» hai urlato gesticolando, mentre camminavi per la tua piccola stanza.
«Sei proprio una stronza lo sai? Forse questa non è la vita che avevi sognato, ma svegliati bella, non c’è niente che tu possa fare per cambiarla» ti ho fatto notare, ferito dalle tue parole.
Siamo andati avanti a litigare per almeno un’ora e, ad un certo punto, è uscita la parola aborto e allora ho capito. Tu volevi abortire, sbarazzarti di quel figlio che era d’impaccio per il tuo futuro. Adesso so che non era questo il motivo per cui volevi farlo, volevi abortire perché eri giovane e spaventata, e non te la sentivi di prenderti sulle spalle una responsabilità così grande com’era il prendersi cura di un altro essere umano. Me ne sono andato sbattendo la porta, con te che mi mandavi a fanculo dall’altra parte. Dopo quindici anni che ci conoscevamo, due dei quali siamo stati fidanzati, questo è stato il nostro addio. Tre mesi dopo ho scoperto che non avevi abortito, ma che in realtà non eri mai stata in cinta. Era un falso positivo, a volte capita.


Vederti questa sera è stata un sorpresa. Sapevo che eri tornata in città da qualche settimana, infatti tre anni prima avevi finalmente realizzato il tuo sogno ed eri riuscita ad andartene da questa città. Eri andata a vivere a Londra, città che non ti avrebbe mai potuto opprimere, nella quale saresti stata finalmente libera. Sapevo che avevi trovato lavoro come commessa in un negozio di abbigliamento, che era dura andare avanti, ma che te la stavi cavando bene. All’inizio ero incazzato con te, rabbia e risentimento che derivava dal modo in cui ci eravamo lasciati, noi eravamo fatti per stare insieme e non riuscivo ad accettare il modo in cui era finita. Era passato circa un anno dalla nostra rottura, quando mi sono reso conto che io ti stavo ancora aspettando, tu avevi preso in mano la tua vita, eri andata a Londa, avevi realizzato il tuo sogno e io ti stavo ancora aspettando. Come un fesso.
Proprio in quel periodo ho conosciuto Lucy, abbiamo iniziato a frequentarci e nemmeno due mesi dopo mi ero trasferito da lei.

We're going down
And you can see it too
We're going down
And you know that we're doomed
My dear, we're slow dancing in a burning room



Tre anni che non ti vedevo e ti ho incontrato per caso nel piccolo bar sulla spiaggia in cui andavamo sempre da ragazzi. Sei cresciuta, cambiata, non più una ragazzina, ma una donna. Indossi un vestito a fiorellini che ti arriva a metà coscia, uno che a sedici anni non avresti mai indossato. Mi hai sorriso, come se fossi solo un vecchio amico che non vedevi da tanto tempo, come se un noi non fosse mai esistito. Abbiamo bevuto e parlato, mi hai raccontato della tua nuova vita, di Londra e del tuo lavoro. Io ti ho parlato della mia, di Lucy e del matrimonio. Ad un certo punto ci siamo alzati e adesso siamo sulla spiaggia, che ridiamo quando invece dovremmo piangere.
«Sei felice con lei?» mi chiedi dopo che le tue risate si sono calmate, la tua testa sempre appoggiata alla mia spalla.
«Si… io sono felice con lei- rispondo dopo qualche momento d’esitazione- e tu? Sei felice a Londra?»
Ci pensi un attimo, alzi la testa e mi guardi negli occhi.
«Si, io sono felice a Londra. Non tutti i giorni tutto il giorno, ma sono felice» mi rispondi sincera. Sembri in pace con te stessa in questo momento, la ragazzina insicura e incazzata col mondo è sparita, per lasciare spazio ad donna matura.
«Resta» ripeto sottovoce, non rispondi, ma ti limiti a scuotere la testa.
«Vieni via con me» mi chiedi quasi scherzando, ma stavolta sono io a scuotere la testa.
Passiamo il resta della notte sulla spiaggia, quando torno a casa dovrò inventarmi una scusa decente da dire a Lucy, ma ne vale la pena. Ci meritiamo questa notte insieme, è l’addio che non ci siamo mai detti. Mentre la luna scompare nel mare, per lasciare spazio al sole ci alziamo. È il momento dell’addio, tu tornerai a Londra, alla tua vita e io da Lucy, alla mia.
Ci guardiamo negli occhi e di colpo non sappiamo più cosa dirci, abbiamo parlato tutta la notte, ma adesso nel momento più importante ci mancano le parole. Ti alzi in punta di piedi, mi baci sulle labbra e io ti lascio fare perché alla fine questo bacio lo voglio anche io, perché in questi quattro anni non ho mai smesso di amarti. Di colpo mi sembra di avere ancora sedici anni e di essere nella mia stanza, un cartone di pizza ai nostri piedi e i coldplay a tutto volume nello stereo.
Mentre ci salutiamo questa mattina di metà Agosto abbiamo entrambi un sorriso triste sulle labbra, forse ci apparteniamo, forse no, ma un cosa è certa, il destino ha altri piano per noi e non sarà mai ZayneJudith.





Hey ho.
Ciao! Ecco una breve one-shot a cui stavo lavorando da un po’ di tempo. L’inizio mi piace, ma non sono molto sicura della fine, sebbene l’abbia riscritta cinque volte, voi che ne pensate? Praticamente tutta la storia è incentrata su Judith e fino a metà non si capisce nemmeno che il protagonista maschile sia Zayn. È un po’ confusa e il finale è triste, ma a quanto pare sono incapace di scrivere one shot con il lieto fine :(. Il titolo è preso dalla bellissima canzone di John Mayer che secondo me si adatta benissimo a questa storia, andate ad ascoltarla se non a conoscete perché è fantastica!
Vi lascio il link per qualche altra mia storia se vi va di leggerle, grazie per aver letto:

Poison and Wine (one shot)
On the other side (long)
Ask

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