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Autore: marani    13/05/2014    1 recensioni
La seconda parte della 'bilogia' sui miei. Ma tranquilli, è indifferente leggere prima l'uno o l'altro. Non sono comunicanti. In questo racconto, ho voluto giocare un po' col delicato argomento della scomparsa di chi ci è caro, e con la sconfortante sensazione di non aver potuto... o voluto... dire tutto quello che andava detto. Purtroppo, a differenza della mia fantasia, nella vita vera non sempre si ha una seconda chance.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci sarebbe ancora un piccolo particolare. Una sorta di frettolosa deviazione dal sentiero maestro del racconto, prima di
arrivare al nocciolo della questione. Quello che accadde nei brevi istanti prima di mettermi al posto di guida. Ve lo illustro
così come l’ho vissuto io, senza “agghindarlo” con particolari interpretazioni a mente fredda, di modo che possiate
(eventualmente) trarne le medesime sensazioni.
Lasciata la scalinatella, puntai deciso in direzione della mia auto, non degnando di uno sguardo le vetrate dell’osteria in
cui tutto ebbe inizio. Se quello che mi frullava nella mente aveva un senso, roteando come le pale di un frenetico
sbattitore da cucina, non sarebbe stata certo l’ultima volta in cui avrei avuto il piacere di.
Ero intento ad armeggiare con le chiavi (il praticissimo sbloccaporte a distanza è quanto mai all’avanguardia, come
tecnologia e comodità, sempre che uno si ricordi di sostituirne le batterie) quando un’auto si arrestò giusto dietro le mie
spalle. Diedi una sbirciata, per puro istinto. All’interno di una polverosa e scalcagnata Fiat Panda, intravidi una coppia,
anonima e di mezza età. La mia mente e i miei progetti futuri stavano già provvedendo a premere il tasto DELETE nei
confronti di quel particolare, quando l’uomo alla guida si affrettò a spalancare la portiera e scendere.
- Mi scusi - esordì, sbucando dall’altro lato dell’auto, bloccandomi a metà nel gesto d’infilarmi al posto di guida - lei…
è del posto? -
Mi raddrizzai, scuotendo la testa e cercando di sfoderare un sorriso modello Ponte Sezza:
- No, no… io - d’improvviso, agganciai il suo sguardo e qualcosa, che non riuscii a spiegarmi allora come in questo momento
che ne riparlo, tarpò lì il mio intento di una replica cordiale e articolata - sono solo di passaggio… - conclusi, affievolendo
il volume di voce come una radiolina le cui pile stessero per tirare gli ultimi.
- Oh - fece lui di rimando, atteggiando le labbra in un cerchio rugoso e stupito. Era un ometto quasi calvo, la testa incassata
nelle spalle gracili come se si attendesse da un minuto all’altro qualche devastante esplosione. I suoi occhi vennero
improvvisamente invasi da una luce di complicità mista a qualcos’altro, che in prima battuta non riuscii a inquadrare. Mi
occorse qualche attimo per leggervi una massiccia dose di speranza. Quello che m’inorridì, sollecitandomi a darmela a
gambe, fu l’assoluto contrasto di quell’espressione con l’onnipresente sgomento di chi è stato vittima di un dolore enorme
e straziante. La sua reazione alla mia frettolosa risposta, una semplice e breve sillaba priva di senso compiuto, sembrava
aver allertato in me ogni singola cellula del corpo. Non afferravo il motivo di quella disagevole sensazione, ma sapevo
che sarebbe stato il caso di analizzarla il più lontano possibile da lì. Lui ebbe il tempo di chiedermi ancora:
- Non mi dica che anche lei è qui per? Che ha preso la decisione di? -
Non avevo la minima intenzione di rispondergli, e difatti non lo feci. Snocciolai lì un confuso commiato, cacciai la testa
dentro l’abitacolo e chiusi la portiera dell’auto. Pur non volendolo, probabilmente con un po’ troppa energia. Dopodiché
innestai la retromarcia e mi allontanai dal piazzale, prendendo la strada di casa. Infilai un cd a caso nell’autoradio,
facendolo partire ad un volume decisamente allegro, mi concentrai nella guida, mettendo esagerata attenzione in
ognuno dei dodici agevoli tornanti che mi accompagnavano verso la pianura, e mi misi d’impegno nella risoluzione dei
vari problemi che si sarebbero presentati di lì a un paio d’ore.
Tutto, pur di evitare come la peste l’immagine rimastami impigliata in testa subito dopo essermi allontanato (essere fuggito)
dal piazzale dell’osteria. Al fine di sganciarmi dalla maschera angosciante e angosciata dello sconosciuto, avevo distolto
lo sguardo, lasciandolo vagare all’interno della sua vettura: la donna che era con lui… la moglie, senza ombra di
dubbio, spersa in un cappottino da bancarella di mercato rionale… era intenta a fissarmi con la stessa espressione annientata,
mentre le mani pallide tormentavano una fotografia di una ragazzina dai lunghi capelli scuri e il sorriso un po’ malinconico.

11_

Sei giorni dopo. domenica mattina presto, una di quelle mattine di metà autunno talmente limpide da sembrare stampate
su carta fotografica dalla risoluzione eccezionale. Sbucai nel cortile, affrettandomi a tirar su la zip del maglione. L’aria
era gelida e frizzante, un sospiro anticipato del Generale Inverno in agguato da qualche parte nel futuro, anche se ci si poteva
scommettere che di lì a qualche ora il tepore del sole avrebbe consentito di restarsene in maniche di camicia. Sollevai
il portellone del garage, immergendomi nell’antro tenebroso in cui sonnecchiava la fida Saab, lucida e scintillante dopo
l’accurato lavaggio del pomeriggio precedente. Le auto ti portano dove desideri, pulite o sporche che siano, ma una gita
domenicale riesce meglio dopo un vigoroso passaggio sotto le spazzole dell’autolavaggio. Mi accomodai al posto di
guida, annusando il piacevole profumo dell’Arbre Magique nuovo di zecca, cercando di pensare il meno possibile agli
eventuali sviluppi di quella giornata di festa. L’andirivieni dal paesino che conosciamo e, soprattutto, l’evolversi delle
mie ribollenti elucubrazioni mentali nei giorni precedenti, mi avevano definitivamente convinto che le cose, nella vita,
succedono perché devono succedere. E non sempre, ad esempio, per azione della volontà o dei desideri. Non tutte, perlomeno.
Se è destino che accadano, potete stare certi che capiteranno tra capo e collo senza neanche chiedere permesso.
E mai modo di dire si è rivelato più saggio di quello che pontifica su rotture di teste e fasciature avventate.
Portai l’auto all’esterno, strizzando gli occhi a causa di un violento riflesso di sole scaturito dal parabrezza della vecchia
Polo Wolkswagen del ragionier Dufour, l’inquilino dell’ultimo piano. E’ un garbatissimo signore di stampo antico che,
ogni qualvolta s’imbatte in Taddeo sul pianerottolo, immancabilmente gli fa omaggio di un biscottino. E il nostro ingordo
gatto di casa immancabilmente gradisce il prelibato pensierino. Ero convinto di dover scendere a dare una strapazzata al
campanello (mettersi a clacsonare allegramente nel cortile comune di un condominio, alle otto di domenica mattina, non
mi sembrava la più azzeccata delle genialate) ma, voltandomi verso il portone d’ingresso, dovetti prendere atto mio malgrado
che, ancora una volta, le convinzioni personali vengono smentite spesso e volentieri
(intendevo solo farle capire che, a volte… il più delle volte… quello che crediamo, o pensiamo o diamo per scontato…
non sempre coincide con la realtà dei fatti)
(Caro, vecchio don Bello, non me ne fa passare una, vero ?)
Ero rivolto in direzione dell’ingresso del condominio, vi dicevo, e quello che vidi mi provocò un piccolo tuffo al cuore
(uno di quei deliziosi “salti di battito” che ci accadevano molto tempo fa, e che la nostra presuntuosa dabbenaggine di
“uomini fatti e cresciuti” ci fa credere che non possano mai più capitare). La figura alta e snella di mia moglie Betta, assolutamente
incantevole nel suo maglione rosso e i pantaloni crema, i lunghi capelli ricci “domati” alla perfezione dietro
la nuca, attendeva che mi accorgessi della sua presenza. Il sorriso che aveva sulle labbra sembrava essere, se possibile,
ancora più accecante del pur sfavillante sole, e in quel preciso istante lei assomigliava in maniera toccante alla giovane,
affascinante ragazza conosciuta durante un stage lavorativo in Inghilterra. Più o meno una ventina d’anni prima.
E a proposito di anni e secoli e tempo che passa (e se ne va), non riuscivo nemmeno a ricordare quand’era stata l’ultima
volta in cui mia moglie ed io ce n’eravamo andati da qualche parte assieme, nel sole di una domenica ottobrina (o primaverile
o di qualsiasi altro periodo dell’anno, a parte le canoniche vacanze estive). Sapete com’è: il matrimonio è una gran
bella istituzione, un mix quasi equo di delizie e rotture di, ma il più delle volte ha la sgradevole propensione ad “sedimentare”.
Neanche fosse il delicato filtro di qualche elettrodomestico, soprattutto dopo che il matrimonio medesimo ha accumulato un bel
po’ di Natali e Capodanni… beh, una delle tendenze meno affascinanti è quella di riuscire a incrostarsi…
o fossilizzare, se preferite… determinate situazioni. Nel nostro caso specifico, la domenica mattina standard veleggiava
su due fronti distinti e contrapposti: una scrupolosa tirata a lucido di casa da parte di mia moglie (con successiva,
conseguente preparazione del pranzo), occupazioni molto meno impegnative per il sottoscritto. Un buon libro sulla poltrona
della veranda, qualche lavoretto manuale sempre troppo rimandato, l’ascolto di qualche impegnativo cd di classica,
una capatina in centro per l’aperitivo con gli amici e un minuscolo cabaret di paste.
Fianco a fianco senza particolari interazioni, per capirci. Presenti nello stesso appartamento, ma non necessariamente in
comunione d’interessi. Certi (e rassegnati?) che le scampagnate e le escursioni dei primi tempi fossero state tacitamente
archiviate di comune accordo. Cose di gioventù, maneggi di fidanzamento e primi anni di vita in comune. Questo non
vuol sottintendere affatto catastrofici discorsi su assenza di coinvolgimento o assopimento di passioni, assolutamente no,
ma solo illustrare i normali binari di assestamento di due vite in comune.
Non è però delizioso scoprire quanto ci si sbagli, a volte, nella vita? in generale, dico. Non per incensare e prendere per
oro colato tutto quello uscito dalla bocca di quel pretino di montagna, ma… visto come vanno le cose…
In ogni caso, Betta si accomodò al mio fianco, intrecciando il suo buon odore vanigliato col profumo arrogante dell’alberello
appeso allo specchietto retrovisore, e dedicandomi una gradita appendice di quel suo sorriso d’esordio. Ingranai
la marcia e partimmo. Ben presto i viali poco trafficati e i semafori lampeggianti della città furono un ricordo dietro le
spalle, mentre la visione iperrealistica delle montagne screziate di verde e bianco ci veniva incontro attraverso lo schermo
cinematografico del parabrezza. Non le avevo precisato verso dove ci saremmo diretti, nè lei me l’aveva ancora chiesto.
Mi ero torturato per un paio di giorni e di notti, alla spasmodica ricerca del modo adeguato per invitarla a seguirmi e, proprio
quando le mie fosche previsioni sembravano aver preso il sopravvento con visioni di litigi e tensioni (e accuse di
“cedimenti di cervello”) la soluzione era sbocciata naturale e lineare come un fiore di campo. A metà della cena di giovedì
sera. Alzai gli occhi dal piatto, e le chiesi se le sarebbe andato di andare da qualche parte, a fare un giretto, la domenica
seguente. Mi rispose di sì. Che le sarebbe piaciuto molto. La semplicità della cosa mi lasciò quasi senza fiato e, ripensandoci
mentre mi lavavo i denti prima di infilarmi a letto, dovetti sorprendentemente reprimere uno sbocco di irrefrenabile
commozione.
Dopo aver abbassato il finestrino per ritirare il biglietto al casello dell’autostrada, feci sputar fuori all’autoradio un cd
che avevo dimenticato inserito
(mia moglie teneva d’occhio le mie mosse, un sopracciglio leggermente sollevato, non condividendo particolarmente…
e il termine va preso come un grosso eufemismo… le mie predilezioni in fatto di musica)
mi rovistai nella tascona anteriore del maglione sportivo
(più di qualche viaggio in auto si era trasformato in una poco simpatica schermaglia su gusti personali e “monopolizzazione”
della programmazione musicale)
estraendone una cassetta che mi affrettai ad infilare nell’autoradio. Qualche secondo di “bianco”, e di attesa nell’abitacolo,
poi partirono le note di una canzone. Lo sguardo scrutatore (e leggermente divertito, va detto) di Betta si aprì in un’espressione
assolutamente sbigottita:
- Ma? - borbottò, fissando il sorriso che m’invadeva il viso. Tenni gli occhi fissi sul nastro d’asfalto, deserto e dritto
come il fuso, sentendomi il padrone del mondo - e questa da dove salta fuori? -
Io le concessi un’occhiata fulminea, tipo quella che un imperatore potrebbe dedicare alla sua ancella preferita (guardandola,
mi venne l’impulso di arrestare l’auto sulla corsia d’emergenza, prenderla tra le braccia e baciarla sino alla fine dei tempi,
senza neanche mettere le frecce lampeggianti… ma si è sempre troppo stupidamente maturi per cedere a questo tipo di
stimoli) beandomi di esser riuscito nell’intento di sbalordirla:
- Bah… una cosa che ho trovato rovistando nei cassetti della scrivania… - il mio tono di voce era venato di deliziosa
nonchalanche. Quando voglio fare il faccia da emme, ci riesco benissimo - robaccia del secolo scorso, credo… -
Mi rifilò uno schiaffetto sul braccio:
- Che robaccia e robaccia! - protestò divertita - questa è quella cassetta! Ma dove diavolo l’hai trovata?!? Io la credevo
scomparsa ormai… - ci pensò su, aggrottando le adorabili sopracciglia - …da più di un secolo, hai detto bene! -
- Già, già… e invece eccola qua, nello splendore del fruscìo del nastro… - alzai di una tacca il volume della canzone -
…ed è proprio per questo che sono io quello che porta i pantaloni in casa… -
Schivai un secondo, e ancor meno bellicoso, colpetto sull’avambraccio, gongolando tutto per quell’impagabile attimo di
complicità. Betta aveva ragione, naturalmente. Il nastro in questione, un’artigianalissima compilation di brani zuccherosi
e sdolcinati al punto giusto, aveva costituito l’irrinunciabile colonna sonora per buona parte dei nostri primi anni. Situazioni
ed avventure di un tempo in cui entrambi pensavamo di avere il mondo tra le mani, e ci bastavano i baci e le chiacchiere
e un cappuccino in due, stretti ad un tavolinetto di un bar, per crederci. Prima delle incrostazioni e dei sedimenti di cui
sopra. L’avevo ritrovata una moltitudine di tempo prima (quando ancora Ponte Sezza e la sua allegra banda di mattacchioni
esisteva solo, probabilmente, nelle fantasie di qualche scrittore di fantasy) sistemando scartoffie e cianfrusaglie ammucchiate
in alcuni vecchi scatoloni, in una di quelle periodiche “chiusure per inventario” di questa nostra vita incasinata. E
già in quell’occasione il reperimento mi aveva stupito, convinto com’ero che l’inerme musicassetta fosse stata stritolata
dagli ingranaggi del tempo già da un pezzo, subito dopo la conclusione della sua fugace quanto meritevole carriera. Ed
invece eccola lì. Per ben due volte. infrattata tra vecchie riviste e cataloghi scaduti, prima, e ben nascosta sul fondo di un
cassetto poi. Come se mi stesse aspettando. Bella stupidaggine, no? Mi ha fatto molto piacere ritrovarla. al novanta per
cento la gita domenicale in “corso d’opera” sarebbe filata via comunque, ma le note conservate in quel minuscolo manufatto
plasticoso sembravano rappresentare… come dire… la ciliegina sulla torta. E non ho voluto spenderci più di tanto
tempo a considerare la stranezza di quel recupero proprio in vista di questa giornata. Se avete voglia di appiccicarvi
qualche particolare valenza voi, padroni di farlo. Dubito che l’operato degli abitanti di un paesino di montagna, per quanto
bizzarro, possa influire così a distanza (nello spazio come nel tempo). E, anche fosse, va bene lo stesso. In fondo non mi
hanno “inviato” una maledizione, o qualche rogna al motore dell’auto, ma solo una manciata di vecchie canzoni in grado
di procurarmi la pelle d’oca fin dentro il cuore.
Betta si sistemò meglio sul sedile, prima mugolando la melodia della canzone, poi canticchiandola con un po’ più di voce.
occorre sempre un po’ di tempo prima di lasciarsi andare. Lo stesso accadde per la conversazione. Ribadendo ancora
una volta di stare più che bene assieme, non è che fossimo proprio una coppia di gran chiacchieroni. Ci beiamo dei nostri
silenzi più che dei fiumi di parole, per dirla alla Jalisse. Complice quel radioso mattino, o la voce roca e carezzevole di
Gino Paoli, prendemmo a scambiare qualche timida frase. Dapprima di rigoroso ambito pratico, alcune bollette da pagare,
un pezzo di lampada da far sostituire, poi via via allargando sempre più i confini. Ricordammo alcune cose passate, rivangando
episodi dimenticati e divertenti, e aiutandoci a vicenda per meglio richiamare alla mente nomi e volti di vari
conoscenti. Sparammo anche un bel po’ di stupidaggini, ridendone di cuore, anche se sono quasi sicuro che entrambi lo
ritenevamo strano, se non addirittura… come posso dire… inconsueto? Una parte di me stesso, ansiosa e trepidante,
sembrava trattenere il respiro, temendo forse che qualcosa di inopportuno intervenisse a spezzare quell’incantevole idillio.
Che so, il piede premuto un po’ troppo sull’acceleratore, qualche parola di troppo (la mia specialità), l’invidia da parte
del sole o del cielo o di chissà chi nel vederci così affiatati e
Ops ! Stava quasi per scapparmi fuori. Una definizione, un termine che, nell’ambito di un matrimonio vecchio quanto i
dinosauri, potrebbe risultare alquanto fuoriluogo. Quasi… blasfemo.
Stavo scherzando. Sembravamo felici, o perlomeno io mi sentivo tale. Non che sia in possesso di infallibili strumenti per
la determinazione dello stato di felicità, quando son più le rogne e i grattacapi a farla da padrone in una normale vita (non
volendo affatto prendere in considerazione squallidi surrogati tipo le vittorie della propria squadra del cuore o un inaspettato
rimborso delle tasse), ma in quella domenica mattina di festa il mio cuore, il mio cervello, tutto il mio essere, erano
pervasi da sensazioni e brividi che avevo scordato da tempo. E pur sapendo benissimo che a parlare per gli altri non ci
s’imbrocca mai, anche la mia dolce metà pareva essere più che a suo agio in quella bolla di chiacchiere e vecchia musica.
Perlomeno a giudicare da come le brillavano gli occhi, e la frequenza con cui la sua mano si puntellava sul mio avambraccio
mentre sussultava di risate.
Accaddero parecchie cose, durante quel breve viaggio. Mi verrebbe da etichettarle come strane e forse, per quanto riguarda
la famiglia Tosi, un po’ lo erano. O magari 'inusuali' rende più giustizia al concetto. Ci fermammo in un piccolo bar, usciti
dall’autostrada, per un caffè e una sosta ai box. Più di Betta che mia. Sorseggiammo i caffè leggendo assieme il quotidiano
su un minuscolo tavolinetto, commentando più o meno seriosamente le varie notizie. Tutto qui? Mi pare di sentir pronunciare
dal fondo della platea. Mmh. Già, tutto qui. Ma lasciatemi dire che io so bene cosa significhi. E non è finita qui.
Subito dopo esser ripartiti, mia moglie ha voluto a tutti i costi fare tappa presso una sorta di panificio-bazar aperto in
quella mattina di festa (c’ero già stato alcune volte per acquistare delle gomme da masticare o qualcosa da bere, durante
i miei lunedì ciclistici, ed era stata molto dura resistere alla sterminata offerta di brioche e krapfen in agguato al di là del
vetro del bancone). La forza di volontà messa in campo da mia moglie si rivelò ancora meno ferrea, e in un batter d’occhio
eravamo lì in piedi, con la parte inferiore del viso “impanata” di zucchero a velo, a masticarci in faccia con fare complice
e a contenderci un cartone da mezzo di latte. Latte intero, per amor di precisione. E tenete presente che la professoressa
elisabetta Tosi stava attenta anche alle due foglie d’insalata in più, di solito.
Ritornando all’auto, parcheggiata nel piazzaletto antistante il drugstore nostrano, avevo l’impressione che i piedi non toccassero
il suolo. Ci rimettemmo in strada, e il cartello stradale annunciante la serie di tornanti che ben conoscevo mi
riportò alla mente il motivo reale di quell’apparentemente innocua scampagnata. Da qualche parte davanti a noi, separato
da una manciata di chilometri in salita, il confronto con una storia incasinata e inaccettabile attendeva sornione e paziente
(e minaccioso?). Ci rimuginai su per alcuni istanti, mentre Betta era immersa nella lettura di un depliantino pubblicitario
trovato sul bancone del panificio, ma non ci trovai nemmeno l’ombra delle nubi minacciose e angoscianti che mi attendevo.
Non avevo idea di cosa sarebbe successo al nostro arrivo in quel paesino, ma il tepore suscitato in me da tutto quello che
avevo vissuto in quell’oretta di viaggio stava rapidamente acquistando vigore e vivacità. Instillandomi un senso di protezione
e… invulnerabilità, forse? …pari almeno a quella fornita dalla presenza della donna seduta al mio fianco. Proprio come
avevano previsto e anticipato (profetizzato?) le parole del mite don Giacomo. La mia riflessione si spinse ancora più a
fondo, in quell’attimo tra l’assorta lettura di Betta e il suo ritornare a chiacchierare e scherzare. Non avevo assolutamente
idea di cosa sarebbe accaduto, al nostro arrivo a Ponte Sezza (se qualcosa sarebbe accaduto) ma la volete sapere una cosa?
Lo so che è facile dichiararlo dopo, a giochi fatti, ma in quel preciso istante ero pronto ad accettare (più che volentieri)
l’eventualità che non succedesse un bel pippo di niente. E magari, sotto sotto, me lo auguravo pure. Arrivare lassù e scoprire
che mi avevano preso per i fondelli (non so come, ma in ogni caso i miei fondelli erano lì desiderosi di farsi prendere).
O che Ponte Sezza era annoverato nel Guiness dei Primati come il paesino con più matti del mondo, al punto da essere
rappresentati a tutti i livelli, cariche pubbliche ed ecclesiastiche comprese. O ancora che il titolare delle rotelle fuori posto
fosse il sottoscritto, altro che gli innocenti montanari, e in quel caso supplicai il Cielo che il mio grado di “mattitudine”
fosse lieve e stabile, così da potermi godere per il resto della vita la straordinaria riscoperta della complicità tra me e mia
moglie. Quello era l’eccezionale regalo elargitomi dalla tormentata frequentazione con il paesino del sindaco Cazzola e
don Giacomo. E, per quel che mi riguardava, le loro attenzioni nei miei confronti potevano tranquillamente terminare lì.
Qualcosa nel fondo della mia anima mi ripeteva, in ogni caso, che non sarebbe stato tutto. E l’unica cosa da fare, per dirla
con le parole del pretonzolo di frontiera, era di verificare.
Giungemmo alla sommità dei tornanti, e il muro delle Prealpi ci apparve in tutta la sua imponente bellezza, inondato dai
raggi del sole su uno sfondo di cielo turchese. Sentii Betta mormorare qualcosa in merito, ma i miei occhi e la mia attenzione
erano puntati sulla vetusta facciata dell’osteria.
- Uh, che caruccia! - commentò ancora lei, mentre arrestavo la Saab nell’ampio piazzale. Sfilai le chiavi dal cruscotto,
con dita leggermente intorpidite (niente a che vedere con i blocchi di ghiaccio dei miei precedenti viaggi, in ogni caso)
dedicandole un sorriso rassicurante:
- E aspetta di vedere dentro - dissi con voce più o meno ferma, mentre spalancavamo gli sportelli - e, se c’è chi dico io,
preparati ad assaggiare il miglior caffè che tu abbia mai bevuto… -
Ci incamminammo verso le vetrate del locale, accarezzati dai raggi di un sole decisamente confortevole (l’avevo detto,
io, quel mattino presto), mentre il braccio di Betta s’infilava sotto il mio, affondato nelle tasche del maglione. Al di là del
bancone, la figura massiccia dell’oste Cesarino e, nel solito angolo, la vispa Isolina alle prese col consueto cumulo di
cucchiaini da tirare a lucido:
- Oh, signor Tosi… benvenuto ! - ci accolse l’uomo, sfoderando uno dei sorrisi di cui andava famoso, mentre la ragazzina
agitava le mani in segno di saluto, più o meno alla velocità della luce - pare essere una splendida giornata, per una gita
dalle nostre parti… - il suo sguardo inquadrò la figura di mia moglie, in attesa al mio fianco - ooh, e lei dev’essere la signora
Elisabetta… - non avevo mai fatto il suo nome, né a lui né a nessun altro, di questo sono abbastanza sicuro
(anche se devo confessare che la cosa non mi stupiva più di tanto)
Mia moglie sorrise, Isolina fece altrettanto (io mi misi d’impegno) e l’omone dalle guance rubizze continuò - …davvero
una splendida signora, se suo marito me lo concede… e poi devo proprio dirglielo… lo sa che ha gli stessi occhi di sua
madre? -

Mauro Marani
  
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