Salve a tutti cari lettori.
Mi chiamo Rò e questa è la prima fanfiction
in assoluto che scrivo sul mondo magico di Harry Potter, sono innamorata di
questa saga da quando ero una bambina e non nascondo che cimentarmi con essa mi
ha sempre spaventata e fatta sentire in qualche modo inadeguata. La svolta è
avvenuta mentre rileggevo per l’ennesima volta i libri, completamente rapita
dalla capacità di J. K. Rowling di dare ai suoi personaggi una
caratterizzazione tanto complessa e completa allo stesso tempo.
La One Shot è una Gellert/Albus. Sono stata
immediatamente affascinata e rapita dalla storia di questi due grandi maghi,
che, sebbene sia solo accennata, ha un potenziale tanto carismatico da poter
essere considerata uno dei perni principali dell’ultimo libro della saga. Non
ho potuto resistere al pensiero di un giovane Silente, innamorato e conquistato
dalla prima vera persona della sua vita con la quale potesse confrontarsi senza
usare solo la metà della propria intelligenza! Non aggiungo altro e vi lascio
alla storia ^^ spero ardentemente che possa piacervi!
Buona lettura!
Rò
Ricordo ogni dettaglio di quel momento, persino il più
insignificante.
Ricordo che la notte era limpida e che nei suoi occhi
argentei brillava il pallore della luna, ricordo come si rifletteva sulla sua
pelle chiara, dandole sfumature perlacee e luminescenti; ricordo il canto dei
grilli e il continuo suonare di una musica indefinita, proveniente da chissà
dove; ricordo la sensazione del vento fresco sul viso e il bisogno di correre
dietro il suo entusiasmo per non perdermene alcun istante: ricordo il modo in
cui mi faceva sentire vivo.
“Gellert aspettami!” ricordo di
aver esclamato, mentre cercavo di tenere il passo della sua sfrenata corsa
verso quell’apparente libertà, attraverso campi di erbetta verde, scuri e
infiniti sotto il cielo stellato: tutto il mondo sembrava nostro.
Ricordo come si fermò immediatamente e si lasciò cadere sul
morbido letto di terra, per fissare gli occhi nel vuoto, carichi di esaltanti
pensieri; ricordo di essermi soffermato per qualche istante a guardarli senza
capacitarmi di quanto potessero apparirmi terribili e belli allo stesso
istante: aveva le mani intrecciate dietro il capo folto di capelli dorati e il
lungo corpo affusolato completamente abbandonato a quella sicurezza che gli è
sempre appartenuta, come se niente potesse ferirlo, come se ogni cosa stesse
aspettando il momento giusto per sottomettersi al suo volere; e io volevo
essere una di quelle cose, una delle sue
cose, una cosa su cui lui potesse rivendicare possesso e appartenenza. Volevo
appartenergli più di quanto mi piacesse ammettere a me stesso.
“Le vedi, Albus?” ricordo che mi
chiese, ma io non vedevo altri che lui “le stelle” aggiunse, continuando a non
rivolgermi quello sguardo che bramavo “ti sembrano tanto lontane?” ricordo che
sospirai, sdraiandomi accanto a lui e fissando gli occhi in quell’infinito
tetto luminoso che minacciava di sommergerci ed avvolgerci, ma non avevo paura
e non mi sentivo sopraffatto: nemmeno l’immensità dell’universo riusciva a farmi
sentire debole quanto il suo profumo di sole e neve.
“Sono irraggiungibili” risposi, allungando una mano come per
afferrarle.
“Oh no” mi contraddisse, voltandosi verso di me e osservando
con curiosità il mio inutile e infantile tentativo “Io abbatterò tutti i
limiti, Al” sussurrò, costringendomi a guardarlo negli occhi “e ti porterò
anche le stelle, se è quello che vuoi” ricordo come non potetti fare a meno di
arrossire né di continuare a fissare il suo sguardo sereno e risoluto “Arriverà
il giorno in cui l’universo sarà nostro, in cui i nostri progetti diventeranno
realtà e non ci sarà nessuno, nessuno,
in grado di fermarci” mi rivolse uno dei suoi sorrisi più belli; solo qualche
timido filo d’erba lo divideva da me, inerme al suo fianco, a sognare quel
giorno insieme a lui “I maghi non dovranno più nascondersi” sussurrò ancora,
facendo apparire un fiore con un solo, elegante e fluido movimento della mano
“E noi li guideremo verso un futuro glorioso. Siamo destinati a farlo” con
delicatezza lo spinse a posizionarsi sul mio petto, all’altezza del cuore, che
cominciò immediatamente la sua martellante guerra per uscirmi dal petto “Tu ed
io, Albus, siamo diversi,
siamo unici” allungò una mano per
spostare la ribelle ciocca di capelli che mi cadeva sul viso “per questo
troveremo i doni” aggiunse, sorridendomi ancora, come se fosse la più ovvia
delle conseguenze “anzi, saranno loro a trovare noi. La bacchetta, la pietra e
il mantello… e saremo i padroni della morte” continuò a guardarmi, come se
credesse che facendolo avrei potuto trasformare quella notte nel futuro che
desiderava per entrambi.
“Vorrei essere te, Gel” ricordo che sussurrai, senza
riuscire a trattenermi, lui sbuffò e si mise a sedere, stringendosi le ginocchia
al petto, ritornando il ragazzo di diciotto anni, pigro, altezzoso, forse un
po’ più fragile di quanto volesse apparire.
“Non dovresti voler essere meno che te stesso!” mi ammonì,
il tono contrito e gelido, come se l’avessi appena ferito.
“Che cosa intendi?” domandai, ricordo che uno strano
turbamento si impadronì del mio corpo mentre mi mettevo a sedere esattamente
come lui: avevo forse detto qualcosa di sbagliato? Lo avevo forse deluso?
“Tu sei brillante e talentuoso” cominciò, e il suo tono
risentito mi impedì di prenderli come veri e propri complimenti “non ho mai
conosciuto nessuno come te in tutta la mia vita, Albus,
nessuno!” si voltò a guardarmi, gli occhi spalancati ancora colmi del colore
argenteo della luna piena “non hai motivo di voler essere me. Devi essere te
stesso! E devi mettere a frutto i tuoi talenti!” fu allora che scattò qualcosa
dentro di me, fu allora che capii che nel suo piccolo mondo di sicurezze io ero
la sua unica debolezza: era lui a voler essere me. E questo era inaccettabile.
“Mi riferivo al tuo entusiasmo!” ricordo che esclamai, il
cuore e lo stomaco colmi del bisogno di chiarire, di metterlo al corrente di
quanto anche lui fosse speciale “al modo in cui mi hai messo a parte dei tuoi
progetti e al tuo incredibile carisma! Non avrei mai potuto arrivarci da solo, Gellert! Se tu non fossi venuto qui a trovare Bathilda, io…” le parole mi morirono sulle labbra e lo
osservai guardare queste ultime come se avesse potuto tirare fuori da esse la
verità con un solo tocco di bacchetta.
“Tu?” mi incitò, ma quelle parole le avevo del tutto perse
ormai. Anni di studi e premi di ogni tipo, eccellenze ed accademia, modi
garbati, furbizia ed intelligenza, tutto perso di fronte ai suoi occhi bramosi
“Albus” mi chiamò, mentre cercavo inutilmente di
distogliere lo sguardo e staccarmi da lui “Albus,
guardami” obbedii, come in ogni istante e ad ogni suo comando gli avrei
obbedito “tu hai paura di quello che provi” sussurrò e solo allora mi resi
conto di quanto fossimo vicini, ricordo che qualcosa all’altezza del mio
stomaco sussultò, riportando alla mia mente quanto fossi terribilmente
impreparato in materia di sentimenti “Ti senti attratto da me ma ti sembra così
sbagliato” continuò, leggendomi il cuore come se esistesse per esso un incantesimo
pari al legilimens e, allo stesso tempo, non
esistesse alcuna occlumanzia per potersene proteggere
“Lascia che ti riveli un segreto, Albus” le sue labbra
sfiorarono il mio orecchio destro: ricordo quella strana sensazione di
abbandono e impotenza, sebbene racchiusa nella tasca dei pantaloni possedessi
una bacchetta che unita alla mia abilità avrebbe potuto dargli immediatamente
del filo da torcere, ma io desideravo quella debolezza come non avevo mai
desiderato nulla in vita mia, nemmeno il potere “non è sbagliato, è dannatamente naturale… non troverai mai
più una mente come la mia, esattamente come io non troverò in un milione di
anni e in un milione di mondi una mente come la tua, e non mi sentirò mai
attratto da nessuno come lo sono da te e non vorrò mai nessuno al mio fianco in
tutto questo che non sia tu” le sue labbra sfiorarono la pelle calda della mia
guancia, lasciando una scia umida che mi diede brividi del tutto sconosciuti “Io
ti desidero Al, e questo non è sbagliato… sei l’unica persona che potrei mai
desiderare”
Fu allora che le sue labbra si posarono sulle mie, fu allora
che per la prima volta in tutta la mia vita ebbi la sensazione di essere
scollegato col mondo, che non mi importasse quanto profondamente potessi
perdermi nei meandri di me stesso finché lui fosse rimasto lì a toccarmi come
stava facendo, a farmi sentire il suo respiro sul viso, a ripetermi, come un
mantra, quanto insieme fossimo speciali e quanto poco avremmo potuto compiere
da separati. E il mio cuore ancora si crepa e sanguina mentre continuo a
ricordare e realizzo quanto vero fosse, quanto grandi avremmo potuto essere,
quanto pericolosi, se il cuore avesse continuato a battere a quelle stesse
frequenze.
Ricordo che mi lasciai sovrastare, ricordo la sensazione
dell’erba che si appiattiva sotto il mio corpo e di lui che si insinuava tra le
mie gambe, pericoloso e seducente, ricordo di aver desiderato che quel momento
non finisse mai, che non smettesse mai di baciarmi, e ricordo di aver messo a
tacere la troppo debole voce della coscienza che mi ripeteva in continuazione
che era troppo tardi, che Ariana e Aberforth avevano
bisogno di me, che non potevo lasciarli soli ancora per molto.
Ma le sue mani erano così calde mentre toccavano la mia
pelle, nonostante la calura estiva, erano un dolce conforto, sbagliato e
inspiegabile, come tutto quello che lo riguardava. E in cuore mio già lo
sapevo, già sapevo che lui non avrebbe mai potuto essere come io desideravo che
fosse, non avrebbe mai potuto accompagnarmi per sempre lungo la mia vita,
sapevo che in alcuni recessi della sua anima io non avrei mai potuto seguirlo.
Ricordo che annaspai in cerca d’aria e le sue labbra si
spostarono lungo il mio collo per darmi la possibilità di respirare, sebbene mi
fosse impossibile farlo con la stessa non curanza di sempre, ero acutamente
consapevole del modo in cui il suo corpo aderiva al mio, della morbidezza dei
suoi baci, dei tocchi leggeri con cui cercava di convincermi che fosse normale
che due ragazzi, appena diciottenni, si comportassero in quel modo, protetti
dal buio perlato di una notte d’estate, in mezzo ad un campo d’erba sperduto
alla periferia di Godric’s Hollow.
Mai, mai in tutta la mia vita avrei creduto di poter desiderare tanto qualcosa
che non avevo mai conosciuto. La mia voglia di lui era feroce ed esaltante,
come il nostro assurdo progetto di trovare i Doni della Morte e diventarne i
padroni, di metterci a capo di una rivolta, abbattere chiunque se ne sarebbe
opposto, sottomettere i babbani e dare nuova gloria
al mondo della magia.
“L’hai mai fatto?” ricordo che sussurrò ad un tratto, i
capelli dorati appiccicati alla fronte leggermente sudata, gli occhi chiari
quasi trasparenti e umidi, come un velo d’acqua posato su una lastra di
ghiaccio.
“No” sussurrai di rimando, sentivo la sua erezione contro il
mio bacino e arrossii violentemente constatando che non importava quanto
talentuosi e unici fossimo nel nostro infinito e segreto mondo magico, in quel
momento eravamo così normali, ed era imbarazzante, terribile ed imbarazzante,
ed eccitante come poche delle cose che io abbia mai provato.
Ricordo che lui sorrise e ricordo quel lampo di feroce
soddisfazione che gli attraversò il volto scuotendomi talmente a fondo da farmi
sobbalzare e combattere appena per allontanarlo da me, ricordo il suo sguardo
incredulo e ferito mentre mi rimettevo in piedi e mi passavo una mano tra i
rossi capelli lunghi, turbato e spaventato.
“Devo… tornare… a casa” balbettai, costringendo me stesso a
non posare troppo insistentemente gli occhi su di lui, ancora inginocchiato in
mezzo all’erbetta con le labbra rosse dei miei baci.
“Che cosa?” domandò, una punta di risentimento nella bella
voce cristallina.
“Mi dispiace… noi ci… ci vediamo domani, d’accordo?” mi
voltai, con tutta l’intenzione di scappare quanto più lontano da lui e da tutto
quello che mi faceva provare.
“Possibile che tu sia tanto spaventato da me?” ricordo che
dovetti raccogliere tutto il mio coraggio per voltarmi ancora una volta ad
affrontarlo. Era lì, a pochi centimetri da me, in piedi, e il suo tono suonava
il solito, tranquillo e gelido, ma io sapevo che era arrabbiato, per la prima
volta da quando ci eravamo conosciuti poche settimane prima e il mio mondo era
completamente crollato su se stesso, per la prima volta lo vedevo davvero per
quello che era: terribile e meraviglioso “Pensi che non debba combattere anche
io contro tutto questo?” mi domandò mentre continuavo a chiedermi come
riuscisse a sembrare così sicuro, così perfettamente a suo agio nell’affrontare
un argomento tanto delicato “Tu non eri previsto, Albus
Silente, sai benissimo che cosa mi ha portato a Godric’s
Hollow e la mia cara prozia centra ben poco” sospirai,
consapevole di essere sull’orlo di un baratro, poi lui cominciò ad avvicinarsi
ed io seppi di essere finito per sempre “Il tuo assurdo tentativo di
allontanarti da me è inutile” sussurrò ancora, una volta avermi raggiunto,
guardandomi dall’alto al basso “ti ritroverai a tornare, ogni volta, o sarò io
a cercarti” mi mise un paio di dita sotto il mento per costringermi a guardarlo
“quanto a lungo credi che due anime gemelle possano evitarsi?” ricordo che
avrei voluto rispondergli “all’infinito,
se necessario” ma sarei stato troppo bugiardo per poterlo sopportare.
E adesso so, o almeno capisco completamente quanto il suo
assoggettarmi avesse poco a che fare con il romanticismo, adesso quel ricordo
mi fa vergognare di me stesso, e ancora di più perché non devo fare altro che
rievocarlo per produrre un patronus completo e
potente.
Ricordo di essere crollato ai suoi piedi come se mi avesse schiantato,
ricordo il suo corpo seguirmi a ruota, le sue labbra cercarmi, le sue mani
esplorarmi, ricordo la calura estiva che mi si appiccicava alla pelle e la
leggerissima brezza fresca che mi provocava
brividi nei punti in cui lui mi denudava, ricordo la sua espressione bramosa e
feroce, e quel dolce, indescrivibile, insopportabile dolore mentre mi
penetrava, un centimetro alla volta, perché mi abituassi alla sua presenza, ben
sapendo che non avrei mai imparato a farlo, ricordo di essermi sentito umiliato
e felice allo stesso istante, di essermi sentito alla sua mercé, per la prima
vera volta nella mia intera esistenza, tanto debole da non valere niente, da
non esistere se non nei suoi gesti, nei suoi movimenti, nel suo volermi, nel
suo assecondarmi.
“Gellert… ti amo…” ricordo che sussurrai, le
labbra aperte in un muto ansimo di piacere, gli occhi colmi di lacrime
trattenute a cui non avrei saputo, e tutt’ora non so, dare una spiegazione che
sia accettabile, ricordo il suo incedere ritmico e controllato, e il suo petto
aderire alla mia schiena, mentre mi sollevava il capo stringendo i lunghi
capelli per poter respirare a pochi centimetri da me.
“L’amore è debolezza”
sospirò, la voce, di solito cristallina, era roca e profonda “Voglio la tua
passione, voglio la tua anima e la tua ambizione, dammi la tua potenza, il tuo
talento, la tua ossessione. Dammi questo, Albus, e
vieni via con me”
Solo il mio cuore sa che l’avrei fatto se le cose fossero
andare diversamente, e forse lo sapeva anche lui.
Muovo lentamente la bacchetta perché l’immagine svanisca
dalla superfice limpida del pensatoio, un occhio attento si accorgerebbe di quanta
fatica mi stia costando, ma fortunatamente sono completamente solo nel mio
ufficio.
Respiro lentamente, godendomi la libertà, la leggerezza,
cercando tra i miei pensieri i dettagli di quel momento e costatando che non ci
sono, non esistono più, che lui non
esiste più, e che posso fingere, per un breve e innocuo frangente, di non
averlo mai conosciuto.
E’ l’unico modo per affrontarlo senza impazzire.
“Albus
devi fare qualcosa!” le parole del ministro mi risuonano nella mente “sai che sei l’unico che può farlo! Fermalo
prima che sia troppo tardi per tutti!”
Stringo la bacchetta e con un ultimo respiro profondo lascio
il mio ufficio.
***
La cella di Nurmengard è fredda e
umida, buia, desolata, lontana dal mondo. La osservo con estrema attenzione, registrandone
i dettagli, immaginando una vita intera vissuta tra queste mura.
“Ho fatto un ottimo lavoro, non credi?”
Al centro della stanza, Gellert Grindelwald si erge in tutta la sua maestosità, un sorriso
indecente a deformargli il viso perfetto, le braccia legate a due ceppi
incatenati e magicamente indistruttibili. Lo osservo per qualche secondo prima
di rispondergli, un rivolo di sangue gli cola sul mento, gli abiti distrutti
dal combattimento che abbiamo da poco concluso e che mi ha visto vincitore:
d’istinto stringo la sua bacchetta, la bacchetta di Sambuco, il primo dono che
ora è in mio completo possesso.
“La cosa non mi meraviglia affatto” lui si passa la lingua
tra le labbra, non so bene se per inumidirle o mettermi alla prova, ma siamo
uomini ormai, e la mia capacità di controllare un inappropriato sentimento è di
gran lunga superiore.
“Adesso tocca a te proseguire la mia opera, ti cedo
umilmente il passo” mi rivolge un breve inchino continuando ad ostentare
quell’assurdo sorriso, un moto terribile di rifiuto mi attraversa il corpo.
“Io non sono come te” pronuncio, bene attento a mantenere un
tono che sia calmo e dignitoso.
“Oh no, tu sei sempre stato il più forte, il più temibile,
il più talentuoso” questa volta le sue parole sono pregne di una gelida invidia
“avrei dovuto sapere che prima o poi saresti tornato a prendermi”
“Sei diventato un mostro”
“Guardami, Silente!”
esclama, facendo un passo verso di me che sono costretto ad appellare tutta la
mia calma per non allontanarmi “sono
sempre stato un mostro! E soprattutto, il tuo incubo”
Il cuore mi si spezza nel petto, non avevo tenuto conto che
cancellare i ricordi non avrebbe cancellato il sentimento, non avrebbe
cancellato questa inutile debolezza che lo vorrebbe ancora diverso, che vorrebbe
passare il resto della vita qui dentro insieme a lui, lontano dal mondo.
“Te lo ricordi? Eh?” domanda, gli occhi spalancati e folli
“Ti ricordi come mi amavi?” scuoto appena la testa “pensi ancora di poterti
liberare di me versando un paio di pensieri in un pensatoio?” non gli rispondo,
è possibile che dopo tutti questi anni io sia ancora un libro aperto per lui?
“Tu non mi hai mai amato, invece” mi costa fatica
ammetterlo, vorrei scoppiare in lacrime, e invece mi costringo a rimane
immobile e contenuto, mentre lui scoppia a ridere, continuando a guardarmi,
confermando quello che non avrei mai voluto sapere, realizzando l’incubo che
per tanto tempo mi ha perseguitato, che mi ha impedito di affrontarlo prima, di
rivivere il dolore di quel giorno, di quella battaglia, della morte di Ariana,
del senso di abbandono, della solitudine, di un amore non corrisposto.
“Te l’ho già detto, l’amore è debolezza” il silenzio che
segue è spettrale, interrotto solo dalla sua risata incredula per qualcosa che
non comprendo a pieno.
“Addio, Gellert” sussurro.
“IO TI ODIO, ALBUS SILENTE!” sbotta lui, tirando con ferocia
le catene che lo tengono fermo, nel vano tentativo di raggiungermi, esco dalla
cella mentre le sue grida mi seguono, parole urlate al vuoto che non mi sforzo
nemmeno di decifrare per paura che possano toccarmi troppo a fondo.
Alzo ancora una volta gli occhi verso la prigione “Per il bene superiore” è scritto a
grandi lettere e in quello stesso istante decido di adottarlo come
giustificazione verso me stesso, o almeno verso la parte più debole di me, per
aver appena lasciato a marcire l’unico amore della mia vita. Giro su me stesso
e mi smaterializzo per poi riapparire di nuovo nel mio ufficio, solo e tremante,
mi lascio cadere in ginocchio e prima di riuscire a darmi un contegno sono
piegato su me stesso a singhiozzare il mio dolore mentre lentamente mi ripeto
che non permetterò mai a nessuno di soffrire al mio stesso modo, che dedicherò
la mia vita, da ora in poi, a proteggere quella degli altri, sperando di fare
ammenda e di essere prima o poi perdonato.
Mi trascino dolorante verso il pensatoio, immergo la
bacchetta e riporto i fili argentei della memoria nella mia mente, i ricordi
ritornano, prepotenti e vividi, ed io mi ci affogo, realizzando di riuscire a
respirare bene solo mentre mi uccidono.
L’oscurità cala su di me come un manto di tenebre, spesso e
impenetrabile.
“L’amore è debolezza” mi ripeto, tenendomi la testa tra le mani, lottando
contro il suo profumo ancora prepotente nell’aria che respiro…
“L’amore è debolezza” se anni fa avessi saputo come liberarmene completamente
probabilmente ora non sarei qui a marcire nella stessa prigione a cui ho dato
vita…
“L’amore è debolezza” una lacrima scende dai miei occhi, lasciando una scia
umida sulle mie guance, la asciugo immediatamente, vergognandomi, sentendomi
umiliato.
E’ solo da me stesso che sono stato sconfitto, da me stesso e dalla mia
debolezza per quegli occhi rubati al cielo che non hanno mai smesso di
perseguitarmi.
“L’amore è debolezza”
Ti odio Albus Percival Wulfric
Brian Silente.
Ti amo.