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Autore: Sunuxal    15/05/2014    1 recensioni
Impensabile, che Gellert fosse un semplice cattivo alla Voldemort: perché servivano più che cervello e riccioli biondi per portare un uomo intelligente ed integro come Dumbledore ad amarlo.
[Traduzione dal tedesco]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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cap 3

Ouverture



And here we are
We're the princes of the universe
Here we belong, fighting for survival
We've come to be the rulers of your world

"Princes of the Universe", Queen


Quando la mattina dopo Albus tornò dal bagno, lo aspettava un elfo domestico che saltellava da un piede all'altro.

"Antie le augura il buon giorno, signore!" squittì quando lo vide, e fece un profondo inchino.

Albus rifiutò, ringraziando, l'offerta dell'elfo di rasarlo. La piccola creatura gli sembrava piuttosto nervosa, e al momento Albus non era nella posizione di ricorrere al più semplice incantesimo di guarigione... meglio di no. Aveva sempre accarezzato l'idea di lasciarsi crescere la barba.
Perché non cominciare ora?

Dopo che Albus gli ebbe assicurato di non desiderare nient'altro, l'elfo domestico, con un "Sissignore!" e la comunicazione che il tavolo della colazione sarebbe stato apparecchiato in terrazza, era scomparso in un pop.

Albus indossò il vestito blu Savoia che gli aveva portato l'elfo. Con il vestito indossò anche la sua armatura di nonchalance e laissez-faire, prima di lasciare la stanza per affrontare la giornata.

Quando si sedette al tavolo della colazione già apparecchiato, apparve Antie con un cesto di panini fumanti che odoravano di lievito, e gli lanciò un'occhiata spaventata. Albus si chiese se fosse così nervoso per natura o se quel carattere pauroso fosse una conseguenza del regime severo di Gellert. L'ultima ipotesi però gli sembrava improbabile. Gellert poteva avere tanti difetti, ma la crudeltà immotivata non era fra questi. Non vedeva l'utilità di trattar male un qualunque essere – non importava se elfo domestico, Babbano o Magonò – finché questi rimaneva al posto che gli aveva assegnato nel suo mondo ideale.

"Dov'è il tuo padrone, Antie?" si informò Albus.

L'elfo drizzò il capo, per sollevare lo sguardo.

"Ah" mormorò Albus, e notò a malapena quando Antie scomparve con un inchino.

Un'aquila imperiale tracciava spirali sempre più strette nel cielo blu zaffiro sopra la tenuta. Poi l'enorme uccello si tuffò d'un tratto verso la terrazza e, non appena i suoi artigli toccarono le piastrelle, prese improvvisamente forma umana.

I capelli di Gellert erano arruffati dal vento che era corso tra le piume dell'aquila. Nei suoi occhi si specchiava ancora il carattere selvaggio del rapace, la ribelle gioia del volo. Albus ebbe per un momento la visione di un immenso essere alato, una magnifica creatura che non conosceva dolcezza e amore umani e non si poteva misurare con i criteri dei mortali – un angelo che preferiva regnare all'inferno, piuttosto che servire in cielo.

Gellert attraversò la terrazza con la naturale sfacciataggine di un animale, prima di prendere e infilarsi la vestaglia appesa sulla spalliera della sedia libera.

"Buongiorno" salutò Albus con il fiato leggermente corto, mentre si allacciava la cintura. Si sedette e accennò al tavolo apparecchiato. "Inizia pure e scusami se non ti faccio compagnia, ho già mangiato."

"Lo vedo" rispose Albus con un'occhiata allo schizzo di sangue sul mento di Gellert e alla piuma grigia sulla sua tempia.

Gellert tolse la piuma passandosi le dita fra i capelli e afferrò il tovagliolo di lino dov'era apparecchiato per lui, per pulirsi la bocca.

"Decisamente poco appetitoso! Perdonami" mormorò con gli occhi che scintillavano "Sono un ospite terribile, temo."

Albus ammucchiò alcuni cucchiai di marmellata d'arance sulla metà di un panino appena sfornato.

"Ma no!" replicò "La mia marmellata preferita. Oltremodo premuroso, che tu ci abbia pensato." Albus la spalmò sul pane, "A quanto pare nemmeno le tue preferenze sono cambiate" aggiunse.

"Già" mormorò il suo interlocutore, chiuse gli occhi e appoggiò la testa soddisfatto sull'alta spalliera della poltrona in vimini.

Mentre mangiava il suo panino, Albus osservò il suo dirimpettaio che, con gli occhi chiusi e le gambe distese, dava l'impressione soddisfatta e rilassata di un felino sazio.
Il sole delle montagne non gli aveva solo abbronzato il viso e le mani, pallidi di natura; non gli aveva solo schiarito di qualche gradazione i capelli altrimenti biondo cenere. Gellert portava un medaglione: delle rose stilizzate, che orlavano la testa di uno stambecco pronto all'attacco – lo stemma di famiglia dei Grindelwald. Il metallo produceva leggeri riflessi dorati quando il petto di Gellert si alzava e si abbassava nel respirare. Albus costrinse lo sguardo su una manica di seta verde cangiante.
Verde Serpeverde.
Se Gellert fosse stato a Hogwarts, sarebbe di certo diventato il colore della sua Casa.
Non giallo Tassorosso, ovviamente no. L'operosità era estranea a Gellert, conosceva al massimo la determinazione. Corvonero sarebbe stato eventualmente preso in considerazione, era più intelligente di quanto fosse bene per lui.
Grifondoro? No, Gellert non era coraggioso. Coraggio significa vincere le proprie paure, e Gellert non conosceva paure. Era troppo orgoglioso, e mancava anche troppo di immaginazione per avere paura. E di fantasia avrebbe avuto bisogno perché, a quanto ne sapeva Albus, non si era ancora mai trovato in una situazione che l'avesse veramente angosciato.

Albus si rese conto che Gellert aveva riaperto gli occhi e lo scrutava a sua volta.

"A cosa pensi?" chiese.

"A quale sarebbe stata la tua Casa, se invece che a Durmstrang fossi andato a Hogwarts", rispose sinceramente Albus.

Gellert si mise a sedere per prendere la brocca di succo d'arancia e versarsene un bicchiere.
"Come se avessi potuto sottomettermi a quello stupido sistema delle Case e al suo controllo" osservò, arricciando le labbra beffardo. Svuotò il suo bicchiere in un sorso e si alzò.
"Scusami. Devo lasciarti solo per un po', ho delle faccende di cui occuparmi che non posso rimandare."

"Come va con la costruzione di Nurmengard?" si informò Albus.

Gellert si irrigidì nel movimento e per un lungo momento squadrò Albus in silenzio, prima di rispondere tranquillamente: "Relativamente bene. Ci sono problemi con la consegna dei materiali di costruzione."
Accennò col mento allo scaldavivande. "Mangia in abbondanza. Ho programmato di saltare il pranzo in favore di un pasto più sontuoso stasera, per la Festa di Mezza Estate. Sono sicuro che saprai tenerti occupato. In ogni caso, la mia proprietà è a tua disposizione – sentiti come a casa tua."

Quando Gellert lasciò la terrazza, Albus alzò i copripiatti d'argento per vedere cosa ci fosse sotto, e si prese delle uova strapazzate col tartufo. Era così perso nei suoi pensieri da non sentire alcun sapore; per quel che valeva avrebbe potuto mangiare dell'insipida pappa d'avena.
Era contento di poter passare da solo almeno una parte della giornata. Era ormai tempo di pensare a come andarsene da lì.

Albus prese la sua tazza e sorseggiò il Darjeeling.
Che cosa sapeva?
Praticamente nulla. Non poteva usare la minima magia che non necessitasse di bacchetta.
Era il luogo stesso a bloccare la sua magia. Secondo quanto detto da Gellert era lui che aveva il potere di togliere quel blocco, e la sua presenza non era evidentemente necessaria, come supponeva Albus, dato che Gellert non si occupava lì dei suoi affari urgenti, ma era scomparso.
Albus si concentrò sul coltello accanto al suo piatto, mormorò un semplice incantesimo di levitazione e vi rivolse tutta la sua concentrazione. Il coltello non si spostò di un millimetro. Quod erat demonstrandum (¹). L'assenza di Gellert non faceva quindi alcuna differenza.

Albus si alzò e si diresse pian piano verso l'edificio, dato che rifletteva meglio quando si muoveva.
Che Gellert gli avesse per caso dato senza volere una qualche indicazione su come andarsene da lì?
Albus ripeté nella sua testa tutte le conversazioni che avevano avuto finora, e un sorriso privo di allegria gli piegò un angolo della bocca. Tutte le uscite di Gellert erano ambigue. Tutto ciò che diceva e faceva era programmato e ponderato – la spontaneità gli era estranea.
Ma anche a lui sfuggivano degli errori. Non era abituato ad avere a che fare con una mente del suo livello.

Albus si decise a fare un tour sistematico. Esplorò la casa dalla guferia alla soffitta (che faceva onore a quella di una cattedrale gotica), fino alla cantina dei vini.

La proprietà rispecchiava il carattere di un amante della bellezza che detestava le regole e non scendeva a compromessi – ma che era anche molto solo. A che serviva tutto quello splendore, se non c'era nessuno, nemmeno un amico con cui condividerlo?
Bathilda era l'unica parente di Gellert ancora in vita, e Albus dubitava che Gellert avesse avuto contatti con lei da...allora.
Stando a quel che diceva, da ragazzo non aveva avuto amici. Albus presumeva che questo non fosse cambiato. Uomini come Gellert avevano, nel migliore dei casi, degli alleati.
E Albus lo capiva. Era difficile stringere amicizia con persone che sembravano vedere il mondo da una prospettiva completamente diversa, che non si potevano incontrare sullo stesso piano. Persone che naufragavano su scogli mentali che nemmeno percepivano come tali, ma come semplici soglie da attraversare facilmente.
A volte era come essere l'unico adulto in mezzo a dei bambini che dovevano decifrare lettera per lettera per capire una parola, mentre uno si gustava l'originalità e l'ambiguità dell'autore, ma non aveva nessuno con cui discuterne e riderne.
Certo, uno poteva provare affetto per questi bambini e non sminuirli per la loro mancanza di comprensione. Ma l'amicizia, un'amicizia vera e gratificante, presupponeva qualcos'altro.

Dopo che Albus ebbe visitato più in fretta di quanto si aspettasse tutte le stanze della casa (e disorientato con la sua comparsa gli elfi in cucina), esplorò gli edifici limitrofi come il piccolo osservatorio, la stalla con alcuni nobili ippogrifi e una serra con un assortimento esclusivo di rare piante magiche.
Albus tornò infine in casa e si recò nella biblioteca – non perché sperasse a tutti i costi di trovare qualcosa che potesse aiutarlo nella fuga, ma semplicemente perché non poteva lasciarsi sfuggire la possibilità di dare un'occhiata più da vicino a quel patrimonio.

L'accesso alla biblioteca era costituito da una grande porta, sui cui battenti era dipinto lo stemma dei Grindelwald. Solo che qui l'aggressivo stambecco non era circondato da rose, come sul medaglione di Gellert, ma dal motto di famiglia: "Vivere militare est" – Vivere significa combattere.

Come la prima volta che era entrato nella stanza, Albus rimase per un lungo momento come paralizzato. Così doveva sentirsi uno studente del primo anno che si fosse fatto chiudere di notte a Mielandia!
Albus stimò che quella dovesse essere una delle collezioni private più grandi del mondo. La stanza aveva le dimensioni della Sala Grande a Hogwarts e si estendeva su tre piani, i quali erano collegati l'uno all'altro da diverse scale a chiocciola.
Oltre al chiarore che cadeva dal vetro turchese del lucernario (e che dava l'impressione di trovarsi sul fondo di un lago), una dozzina di sfere dorate offrivano al lettore luce sufficiente. Fluttuavano delicatamente sopra al massiccio tavolo da refettorio al centro della stanza; una si era avvicinata ad Albus non appena era entrato, e lo accompagnava nelle sue incursioni tra gli scaffali.

Questa non era solo una delle biblioteche più grandi, osservò Albus, era anche una delle più esclusive.
Trovò interi ripiani zeppi di antichissimi rotoli di papiro (e solo un telo di protezione impediva loro di cadere), e scoprì originali e prime edizioni per cui ogni collezionista avrebbe venduto il suo ultimo vestito.
In una vetrina guardò con stupore e riverenza un piccolo taccuino, le cui pagine aperte mostravano criptiche annotazioni in scarabocchi. Secondo la placca d'ottone davanti alla teca, quel quaderno era appartenuto a Merlino stesso.
Albus fece rispettosamente un lungo giro attorno a degli enormi volumi incatenati. Aprire quelle opere era certamente poco saggio, finché non poteva servirsi della sua magia.

Al contrario delle maggiori famiglie dell'antica nobiltà magica, apparentemente i Grindelwald non avevano mai temuto di leggere e raccogliere libri babbani. C'era un'intera fila di scaffali pieni di classici della letteratura mondiale, così come disegni tecnici e manuali di costruzione di strumenti la cui utilità non si rivelò ad Albus.

Si allontanò infine di malavoglia dagli scaffali, per andare verso il tavolo al centro della stanza.
Accanto a edizioni dei più importanti quotidiani magici e babbani di quasi tutti i paesi europei, erano impilati alcuni libri provvisti di segnalibro, che costituivano apparentemente le attuali letture di Gellert. Libri babbani come "Il Principe" di Machiavelli e "Gorin no Sho" di Musashi Miyamoto, ma anche opere dal contenuto simile scritti da maghi: "L'arte di governare" di Rasputin, "Sentieri del potere" di Klingsor, "Speculum principis" di Prospero e altre opere che erano all'indice, e nelle biblioteche universitarie venivano prestate solo ai professori – e solo con un permesso speciale – dopo che avessero ampiamente dichiarato in diversi formulari perché intendessero occuparsi di materie così oscure.
Albus approfittò di quell'occasione probabilmente unica e sfogliò tutti i libri proibiti con la più grande concentrazione, per assimilarne più contenuto possibile in breve tempo.
Credette quasi di sentire la risata di Gellert, il suo commento beffardo: "Siamo troppo uguali, amico mio. Rifiutare il sapere – per quanto oscuro possa essere – è ai nostri occhi uno dei delitti più gravi." Albus scosse la testa in risposta alla voce immaginaria. No. Non erano uguali. Era diverso se si voleva solamente possedere la conoscenza, o se si era anche pronti ad usarla.
 
Un libro relativamente sottile, ma dalla rilegatura costosa con guarnizioni d'oro, che nulla aveva a che fare con le altre opere, attirò infine l'attenzione di Albus. Lo aprì. Una traduzione tedesca del "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare.
Albus notò che la porta della biblioteca si aprì, e gli fu chiaro che doveva essere già tardo pomeriggio. Aveva passato più tempo leggendo che esplorando la proprietà.  
I leggeri passi di Gellert si avvicinarono, e Albus sentì che l'uomo si fermò dietro di lui per vedere che cosa stava leggendo.
Il punto che aveva aperto mostrava accanto al testo una grande illustrazione: la regina delle fate Titania con Nick Bottom dalla testa d'asino in grembo, che lo grattava dietro le orecchie pelose. Nei cespugli sul fondo si vedevano, fra i rami, degli occhi strizzati e un largo ghigno – che rappresentavano evidentemente il buffone di corte del re delle fate, il quale si rallegrava alquanto della bricconata ben riuscita.

"William Shakespeare" notò Gellert "Uno dei pochi Babbani a cui le fate si sono rivelate negli ultimi secoli, senza poi manipolare la sua memoria. Un'idea di Puck, tra l'altro."
Mise una mano sulla spalla di Albus per piegarsi un po' in avanti e leggere la scritta minuta accanto all'immagine.
Troppo vanitoso per usare un incantesimo contro la miopia o portare gli occhiali, fu il pensiero che guizzò nella mente di Albus.
"Addio, spirito zotico, ora devo andarmene" Gellert lesse ad alta voce le parole della fata senza nome. "Spirito zotico!" ripeté sbuffando, "Psicotico pericolo ambulante si adatta molto meglio. Il più odioso dei poltergeist, accanto a Puck diventa l'onestà e la cortesia in persona."

"E tu come lo sai?"

"Ho avuto il dubbio onore di poterlo conoscere" rispose secco Gellert.

Albus si voltò stupefatto verso di lui.

"E come?"

Gli occhi di Gellert brillarono, sembrava che stesse aspettando quella domanda.

"I suoi signori sono stati più volte miei ospiti. E lo saranno anche oggi, la sera di Mezz'Estate. In modo da continuare una lunga tradizione, per così dire." Un ghigno da ragazzino aleggiò sui lineamenti di Gellert, "Non hai ancora capito dove ci troviamo?" chiese.

"Non ne ho la più pallida idea" ammise Albus, e digerì innanzitutto quella nuova informazione. Fate come ospiti.

"Vieni!" lo esortò Gellert all'improvviso.

Albus lo seguì attraverso la casa fuori, sulla terrazza. Ma non sulla parte anteriore con la vista sul giardino e nemmeno verso destra, dov'era stato seduto Gellert la mattina prima, ma verso sinistra.
Su sollecitazione del suo accompagnatore, Albus salì sulla balaustra e Gellert lo seguì. Albus guardò giù.
Non era davvero in piedi sul parapetto, ma su dei blocchi di pietra grezza larghi circa mezzo metro che spuntavano dalla balaustra. Quella pietra era evidentemente parte del fianco della montagna su cui si ergeva la tenuta.
Un palmo scarso davanti ai piedi di Albus si andava giù non solo per centinaia di metri, ma per chilometri fin nel profondo di una qualche valle.
Gellert gli strinse la parte superiore delle braccia e gli si avvicinò da dietro, finché anche lui non mise i piedi sulla roccia, anziché sul marmo della balaustra.
Albus dovette riconoscere di provare un certo disagio. No, non aveva paura delle altezze; non era questo il motivo del suo disagio. Non temeva nemmeno che Gellert lo spingesse di sotto. Non era davvero nel suo stile. Se avesse desiderato la morte di Albus, sarebbe accaduto in un altro modo.
 
"Allora?" chiese Albus.

"Aspetta. Solo un momento."

Il sole si trovava tra le cime gemelle di una montagna; una montagna un po' più piccola rispetto alle sorelle che la attorniavano. Due terzi dell'astro erano già scomparsi, il cielo era di un blu oltremare scuro e stavano comparendo le prime stelle.

"Guarda!"

Lo sguardo di Albus seguì il braccio disteso di Gellert, che indicava in basso. La valle e le parti più basse dei pendii erano già avvolte da ombre scure, mentre le rupi e le superfici nevose più in alto splendevano di rosso carminio.
Albus cercò le parole giuste per un commento: di certo il rosseggiare delle vette era uno spettacolare fenomeno naturale. Ma ciò da solo non spiegava per nulla l'urgenza nella voce di Gellert. Poco dopo boccheggiò stupefatto alla ricerca di aria: là dove prima era stata solo luce rossa, si trovava d'un tratto un mare agitato di rose.

"Splendido, non è vero?" chiese Gellert. "Quello era un tempo il giardino delle rose di Laurino, re dei nani" spiegò "A causa di una qualche storia di donne si era attirato le ire del re dei Goti Teodorico, e qui avvenne lo scontro tra i due. Nonostante Laurino si fosse reso invisibile era più debole, perché Teodorico aveva capito dai movimenti fra l'erba e i cespugli dove si trovasse il suo avversario. Laurino venne sopraffatto e reso prigioniero.
Tuttavia lanciò una maledizione al giardino che l'aveva tradito: non sarebbe mai più stato visto dagli occhi di un essere vivente, né di giorno né di notte. Solo che nella sua maledizione Laurino ha dimenticato il crepuscolo e l'aurora: all'alba e al tramonto si può ancora vedere il giardino nel suo antico splendore."

Albus non interruppe Gellert, nonostante fosse a conoscenza dei fatti. Binns li aveva riferiti una qualche volta in Storia della Magia. Ciò che Albus non sapeva, o che aveva solo intuito, era che quello fosse il leggendario giardino del re dei nani.

"I miei antenati ci hanno messo molto tempo per rompere parzialmente la maledizione e restaurare il giardino sul lato sud" continuò Gellert "Gli artefatti magici del re dei nani, il cappello dell'invisibilità e la sua cintura sono andati – con mio grande rammarico – distrutti.
A parte uno: un artefatto che l'avversario di Laurino non aveva riconosciuto come tale. Come certamente saprai, gli straordinari artigiani dei nani non forgiavano solo gioielli magici o armi velate di magia – per il re degli Æsir crearono un trono famoso, dal quale poteva abbracciare con lo sguardo il viavai degli uomini."    

"Hliðskjálf", mormorò Albus.

"Sì. Ma Hliðskjálf era solo uno di questi troni magici. Il re dei nani possedeva un altro posto dal quale poteva vedere il mondo intero. Questo qui."

Le mani di Gellert si strinsero più forte sulle braccia di Albus. Il panorama delle montagne davanti ai suoi occhi si fece sfocato, tremolò come un miraggio e vi si sovrappose un altro scenario.
Un'immagine che divenne sempre più nitida, come le impressioni in un'Avversaspecchio.

Dalla prospettiva di un uccello, Albus vide il palazzo di Westminster accanto al Tamigi grigio piombo.

Un'altra dissolvenza d'immagine.

I viali diritti degli Champs-Élysées con l'Obelisco della Place de la Concorde.

Un nuovo tremolio e dissolvenza. Campanili a bulbo dorati. Un guizzo.
Le impressioni si susseguivano sempre più veloci: Berlino, Atene, Roma, Budapest, Praga. Albus aveva appena il tempo di riconoscere questa e quella città dalle loro eccezionali particolarità architettoniche.
Sentì che Gellert, che non lo aveva lasciato andare per tutto il tempo, gli si avvicinò.

"Ti darò tutto questo" bisbigliò.

"Se mi getto a terra ad adorarti?"

"Unisciti a me, e insieme potremo plasmare il mondo secondo i nostri desideri!" Gellert ignorò la sua osservazione "Un mondo senza guerre, un mondo unito, senza confini, senza stupidi giochi a nascondino con i Babbani. Un mondo in cui sapere e saggezza riceveranno lo status che spetta loro di diritto! Un mondo in cui maghi e streghe avranno libero accesso ai luoghi antichi! Luxor, Shangri-la, Thule – tutto questo è aperto davanti a noi!" La voce di Gellert quasì vibrò per la tensione, "Il nostro potere congiunto, le nostre forze, il nostro sapere, nessuno avrà nulla per opporvisi! Governeremo un impero che non si è mai visto. Annunceremo un'età dell'oro che porterà l'arte magica ad un tale splendore, che chi è al potere ora, nella sua limitatezza non potrebbe immaginare nemmeno nei suoi sogni più audaci! Tutto questo, Albus" mormorò "Tutto questo ti darò."

E di più, promise il suo tono.

Era uno di quei pochi momenti in cui ad Albus non veniva in mente nessuna risposta. La sua mente era come svuotata. Vuota – come quell'oscuro, logorante angolo del suo petto, che poteva essere riempito solo dalla travolgente presenza dell'uomo dietro di lui.

"Per favore!" sussurrò Gellert.

Era la prima volta che Gellert gli chiedeva per favore. Che lo implorava. Albus fissò lo sguardo nella gola sotto di sé, incapace di muoversi. Le immagini erano scomparse, non avevano lasciato altro che oscurità.
Forse... avrebbe dovuto accettare l'offerta.
Forse Gellert aveva ragione, con la sua visione di un mondo nuovo e migliore.
Forse Albus avrebbe potuto indirizzarlo, convincerlo a raggiungere quell'obiettivo in maniera pacifica.

Però forse poteva fare semplicemente un passo in avanti, per non dover scegliere tra due possibilità, con nessuna delle quali avrebbe potuto convivere.
Albus scosse il capo, come una marionetta.

"I tuoi maledetti scrupoli!" ansimò Gellert.
Per un momento Albus credette che Gellert l'avrebbe davvero spinto di sotto. Invece l'altro lo tirò indietro sul pavimento della terrazza, lo voltò verso di sé e lo fissò digrignando i denti.
"Questa stupida, borghese, meschina, retrograda educazione che ti ha addossato sensi di colpa insuperabili e senso di responsabilità per qualunque cazzata! Ti lasci mettere i piedi in testa da uomini insignificanti, castrare e impastoiare davanti alle loro carrette come una bestia da soma! Insomma, che ti è successo? Dove sono rimaste le tue visioni?"

"Il prezzo sarebbe troppo alto. La sofferenza -"

"- è inevitabile!" lo interruppe Gellert "È solo il travaglio di una nuova era! Il risultato vale comunque la pena!"

Albus chiuse gli occhi e si passò entrambe le mani sul viso.

"Questo è già successo una volta, non è vero?" mormorò "Vuoi che si ripeta?"

"No!" Gellert afferrò i polsi di Albus per scostarglieli dal viso e costringerlo ad alzare lo sguardo. "Ciò che è successo... è successo" disse, sforzandosi visibilmente di stare tranquillo "E me ne rammarico profondamente. Ma non si può cancellare" Gellert afferrò con entrambe le mani il davanti del vestito di Albus. Quella terribile intensità che aveva parlato dal suo intero essere rimaneva ormai solo nei suoi occhi, la voce era di nuovo controllata. "Non lasciarti comandare dai tuoi sensi di colpa! Non sei più un adolescente a cui è stato affidato il peso di occuparsi di altri bambini. Sei un uomo libero, adulto. Vivi nel presente! Dimentica ciò che è accaduto, lascia cadere i tuoi pregiudizi. Pensaci!"

Come fosse tornato nella sua stanza, Albus non riusciva davvero più a ricordarlo. Si ritrovò di nuovo sul balcone, boccheggiante, come se stesse fissando l'oscurità.
Un tremito gli correva a brevi intervalli lungo tutto il corpo, come se nell'accesso di Gellert gli fosse stata trasmessa un po' di quella terribile energia.

Pensaci!

No, non voleva pensarci. Non a quello.
Albus tornò nella stanza e fece bruscamente dietrofront. Rimase davanti alla porta del balcone, le mani incrociate dietro la schiena.
Inspirò profondamente, chiuse gli occhi.
Il giardino di Laurino, magia dei nani... ciò spiegava quell'elemento nella sigla arcana che non aveva saputo riconoscere. Gellert doveva aver trovato un modo per collegarla ai propri poteri, questa era la ragione per cui non era possibile compiere nessun incantesimo senza bacchetta. Tuttavia la magia dei nani non era magia libera da vincoli...
Ciò significava, che se lui...
Se lui...
Se solo avesse potuto concentrarsi almeno un po', maledizione!
Albus si girò con una sonora imprecazione – e spaventò quasi a morte un elfo domestico.

"A-Antie ha portato ad Albus Dumbledore il suo abito da cerimonia, signore!" squittì con occhi spalancati. Raccolse ciò che aveva lasciato cadere, lo mise sul letto e s'inchinò precipitosamente più volte di fila, prima di scomparire.

La maledetta Festa di Mezza Estate, l'aveva quasi dimenticata. Albus guardò il grigio abito da cerimonia dal taglio severo, con ricami d'argento sull'orlo, sul colletto e sui risvolti delle maniche.
E una maschera.
Evidentemente Gellert aveva programmato qualcosa di simile a un ballo in maschera per la sua Festa di Mezza Estate.
Albus prese la maschera e la osservò con un sorriso a denti stretti.

Ti lasci mettere i piedi in testa da uomini insignificanti, castrare e impastoiare davanti alle loro carrette come una bestia da soma!

Tenne il rigido feltro davanti al viso, sistemò l'elastico dietro la testa e andò a guardarsi davanti allo specchio. La mezza maschera copriva solo la parte superiore del volto, e sotto lo sporgente muso d'animale il suo prominente naso trovava spazio per respirare.
Il suo sorriso privo di umorismo sbiadì. Gli occhi, che scintillavano attraverso i buchi nel feltro, non erano quelli di una bestia da soma bonaria e mansueta: erano gli occhi di una creatura che diceva "Sì, mille volte sì!" a tutto ciò che gli aveva offerto Gellert.

Quando Albus scosse il capo, delle lunghe orecchie grigie ondeggiarono sulla sua testa.

"Asinus asinorum in saecula saeculorum!" (²) sussurrò.



 



(¹) "Come volevasi dimostrare"
(²) Asinus asinorum in saecula saeculorum: Asino degli asini nei secoli dei secoli (anche "Il più grande asino di tutti i tempi")

N.B: il professor Binns è il professore di Storia della Magia che in italiano è stato chiamato professor Rüf




Angolo del traduttore: la frase "Meglio regnare all'Inferno, che servire in Paradiso" è tratta dal "Paradiso Perduto" di John Milton, dove è Lucifero in persona a pronunciarla.


Un paio di indicazioni per spiegare i riferimenti mitologici:

Re Laurino: http://it.wikipedia.org/wiki/Re_Laurino
Æsir: http://it.wikipedia.org/wiki/%C3%86sir 
  
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