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Autore: S_EntreLesLines    16/05/2014    7 recensioni
Più rapido della velocità della luce, come un giro sulle montagne russe...come un flash, come una saetta. Tutto cambia gusto, quando evadi dalla routine...quando attorno a te ci sono solo giostre, luci, voci e ti senti vivo dentro...oltre ciò che sei.
«Non sei uno sconosciuto» rispose.
Un tremito di disappunto gli percorse le braccia. «Ah no?».
«No, sei una variazione di qualcosa che conosco».
Se avesse detto che erano simili sarebbe stata una risposta azzardata, che non amava ricevere perché la gente spesso e volentieri crede di conoscerti e usa formule scontate per definirti. Per etichettarti. Per avvicinarti a sé. Lei aveva usato una variazione, in un certo senso. Era una definizione…colorata. E che stava a pennello a lei, perché lei era una variazione. Adesso aveva trovato il modo adatto a definirla.
«E tu, chi sei?» le chiese.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Ciao ragazze!!!
Ecomi qui con l’epilogo…
…che dire, devo ringraziarvi per aver avuto la pazienza di seguire questa storia sicuramente irreale e lontana da quella che è stata Fire in the Air.
Comprendo bene, da lettrice, che non è facile farsi piacere qualcosa che dista tanto da ciò che all’inizio ci aveva preso di brutto…e quindi grazie alle sopravvissute ^-^
Una volta letto il capitolo, non so quale sarà il sapore che vi lascerà in bocca…come posso aver già detto a qualcuna di voi, volevo una parentesi in cui tutto fosse possibile ed avesse un sapore diverso…ed è quello delle sensazioni che si provano quando si è in vacanza: ci sentiamo diversi, ma xchè siamo noi stessi…lontani dai mille pensieri che ci incasinano ogni giorno. Ecco, volevo questo. E sono happy di aver scritto questa storia xchè è diversissima da quello che butto giù di solito (ragazze, io nelle ore di filosofia al liceo mi leggevo gli Harmony, diciamocela…sono trash inside ahahahah).
Cmq, come avrete notato, sono stata un po’ assente con commenti vari pre e post capitoli…diciamo che la storia ha fatto da colonna sonora ad un periodo che bah…nammerda. Ma ovviamente i periodacci passano e come vedete sono mega logorroica oggi buahahahahahah
Altra cosa, prima dei festeggiamenti per il mio aver finito sta manfrina, ho in mente una cosa su Shanni Bear Mon Amour, che non so quando scriverò. Ma cmq sarà sul genere Fire in the Air…cioè...assshvwgfvbfvjv e pervy. Forse aspetterò il concerto x lasciarmi prendere dalla follia della fangirl…anche se so che morirò x un orgasmo multiplo alla vista della Gerry. Cassssspita son già agitata…ok….un attimo di spetteguless: chi va a Roma o a Torino? Come vi vestirete? Come vi truccherete? Ho già vagliato una serie di trucchi waterproof che mi diano un aspetto meno cesso, giusto mascara e eyeliner…ok lo so son dilemmi esistenziali poco importanti, ma x me son fondamentali…cioè ragazze non si sa mai che Shanni decida di ingravidarci con il tocco delle bacchette magiche…o che la Gerry ci chiami sul palco… (utopie, ma che belle immagini censurabili anche a Rocco Siffredi…). Bene, dopo aver sparato ste minkiate vi lascio alla lettura e mi preparo a ricevere insulti/sputi/ortaggi vari (non cavoli, please…non mi piacciono. Semmai insalata, pomodorini e zucchine
 –non pensate male-…grazie).
Ciao belle fanciulle, vi abbraccio tutte e vi mando tanti bacini…<3<3<3
 
ste




      



Si rigirò nel letto, tastando il posto vuoto accanto al suo e sentendo la gola bruciare nell’inspirare il profumo impresso sulle lenzuola. Aprì gli occhi e fissò il soffitto, cercando di ignorare il senso di perdita che aleggiava già di prima mattina e che non sarebbe stato certo un buon auspicio per la giornata. Non era da lui crogiolarsi in preda a seghe mentali, anche perché semmai ne era il soggetto interessato piuttosto che l’artefice. Richiuse gli occhi per un paio di secondi, sospirando, e si alzò lasciando tra le lenzuola sfatte i propri pensieri.
Aprì l’acqua della doccia e si lavò i denti nell’attesa che diventasse calda, appoggiò lo spazzolino sulla mensola dello specchio e la sua attenzione fu catturata da un elastico per capelli nero. Non era certo suo. Se lo rigirò tra le dita, mordendosi una guancia ed umiliandosi al punto tale di annusarlo. Lampone, fragola, balsamo. Lo rimise sulla mensola ed entrò nella doccia, mandandosi più volte a fanculo e dandosi dell’idiota: quella vacanza l’aveva rincoglionito di brutto. Ed era incazzato nero, perché l’idea di vestirsi, chiudere il trolley e accendere il cellulare gli dava la nausea. Era come essere costretti a fare una cosa che non ti piace, che non ti fa sentire a tuo agio. Avrebbe voluto fare tutt’altro, anche se in quel preciso istante non sapeva cosa. Si trovava in un limbo tra il tornare alla normalità e il restare nella dimensione perfetta, eppure nessuna delle due prospettive lo allettava. Stava rifiutando entrambe, in preda alla confusione più schifosa che lo avesse mai travolto. Ma, da bravo Jared quale era, sapeva che l’unica strada da prendere era quella della disciplina: chi meglio di lui avrebbe potuto personificarla al meglio? Raccolse le proprie cose, controllò di non aver dimenticato nulla e i suoi occhi si posarono di nuovo su quell’elastico: avrebbe potuto lasciarlo lì, chiudendosi la porta alle spalle, come no. Schioccò le labbra, pensieroso, si diresse alla porta e uscì in corridoio. Fece qualche passo, trascinando il trolley come fosse di cemento. Tornò in camera e agguantò l’elastico.

Era trascorso un anno e mezzo dalla fine del tour e quasi due dalla breve parentesi in quel parco divertimenti; era nello studio di registrazione, seduto sopra a un amplificatore: le gambe accavallate e il plettro a rigirarsi tra le dita. Stavano ultimando gli arrangiamenti di un paio di pezzi, gli ultimi rimasti prima di poter dire di aver terminato quell’album saltato fuori a tempo record. Il quinto, forse il migliore: c’era la vivacità di LLF+D, la grinta di TIW, la speranza di ABL e l’aspettativa di 30 STM. Era un mix perfetto dei loro precedenti…non avrebbero potuto fare di meglio: uno sguardo al futuro, attingendo con saggezza dal passato, staccandosi dall’immagine di LLF+D per tornare all’essenza iniziale…il percorso era stato lento, pieno di sorprese e soddisfazioni e battaglie, e adesso sentivano il bisogno di celebrare i traguardi raggiunti con un ritorno a quella che era stata la loro fiamma iniziale.
Shannon e Tomo si erano dileguati per una pausa, mentre lui era rimasto da solo a provare quei quattro accordi che lo stavano facendo incazzare di brutto: non riuscivano come li aveva in testa, con l’espressività che sapeva avrebbe dovuto impregnarli di qualcosa…una virgola, una vibrazione, un mezzo secondo in più…insomma, non riusciva a venirne a capo. Era sul punto di stravolgere l’intero pezzo, perché si stava convincendo che mancasse qualcosa: che fosse incompleta, che l’avessero colta dalla prospettiva sbagliata. Si appoggiò di peso sulla chitarra, grattandosi il polso sovrappensiero e giocherellando con il filo penzolante di un braccialetto ormai logoro…uno dei tanti. Buttò l’occhio sul punto in cui le dita torturavano imperterrite quel pezzo di stoffa, rimase basito e confuso chiedendosi da dove saltasse fuori…pensava ma non focalizzava la propria attenzione, piuttosto fissava l’elastico nero ormai sbiadito ma non lo vedeva. Era sfuocato come il ricordo, quello di lei. Charlotte. Troppi impegni, troppa normalità era passata davanti ai suoi occhi e nelle sue giornate, imbrattando le immagini di quei tre giorni ormai lontani. Ed ora era come se l’avesse vissuta qualcun altro, quella parentesi. Era come se Charlotte fosse stata solo frutto della fantasia. E quell’elastico logoro era la prova tangibile che invece no, era reale, ma la tela si era scolorita lasciando solo qualche pennellata evanescente a dare forma al suo volto.
Quante se ne era portate a letto, dopo di lei? Puah…tante, troppe. Tutte uguali. Bionda, magra, modella, giovane e inesperta: l’identikit ideale per non doversi prodigare a ricordare ognuna di quelle tante, che sembravano alla fine lo stesso pezzo di carne in cui affondare i denti a intervalli alterni; un antistress, la solita sbobba: frutto della monotona, e priva di essenza, routine. Si era dimenticato cosa avesse provato, come si fosse sentito, chi si fosse sentito: se stesso, normale, una persona qualunque. Ed era stata lei, il suo influsso e i suoi colori. Non aveva più percepito un alone tale in nessun altro, in nessuna di quelle tante bionde e ossute ragazze che collezionava tanto per. Che avrebbero dovuto riempire, ma che lasciavano più arido di prima. E lui non era una persona arida, quanto più lo dava a vedere, lo poteva sembrare…e loro, poverine, ci mettevano pure impegno…ma mancava il valore aggiunto. Il colore. Quel colore che aveva trovato solo in lei. Strimpellò distrattamente un paio di accordi, fissando un punto indefinito davanti a sé e ripercorrendo le tappe di quei tre giorni. Charlotte e la sua scia, il suo profumo, i Doc Marteens bianchi in mezzo allo scalpiccio della gente, il vestito di tulle, i suoi capelli e quell’accento morbido, come l’aveva baciato e come aveva sorriso, le dita che si muovevano sulle corde del violino, la pelle diafana e sensibile al suo tocco caldo, gli occhi azzurri, la delicatezza e la grazia con cui si muoveva…la sua dolcezza….

«Cos’è? Cos’è sta cosa? No, no…continua…mi piace!». Shannon gli fece cenno di andare avanti, fiondandosi alla batteria e tenendo il tempo con un movimento del capo, per poi intromettersi tra gli accordi.
Tomo recuperò il basso e pizzicò qualche corda, seguendo i due, gli occhi chiusi e i capelli sulla fronte. «Direi…che ci siamo!» esclamò, dopo qualche minuto di totale brain storming. «Yeah, ci siamo!» urlò, battendo il cinque a Jared che sorrideva con espressione sorpresa.
«Fottutissimo genio». Shannon lo indicò con le bacchette, sorridendo. «Adesso ha un colore, questo pezzo…avevi ragione».
Jared sbattè le palpebre un paio di volte. «Colore?».
«Sì, è tipo…fuxia…è figo».
«A me sembra più rosa pastello» puntualizzò Tomo.
«Rosa?». Jared scoppiò a ridere, tenendosi la pancia. «Oh, mamma…rosa?!».
«Che cavolo ridi?» grugnì il fratello, offeso. «Non ho mica detto che sei gay».
Jared si asciugò gli occhi, quella situazione era grottesca. «No, no…ok. Rosa…Uhm…». Ricominciò a ridere, sotto gli sguardi sconcertati di Shannon e Tomo.
 
L’aveva googlata: la Divah che era in lui si stava sgretolando senza alcuna riserva. Non l’aveva fatto con chissà quali intenzioni, semplicemente era curioso di sapere chi fosse…magari era conosciuta in Francia o in Europa in generale…quante “Charlotte violinista francese” esistevano? Ehm, un po’. Ok…”Charlotte violinista francese capelli rosa”. Lei. Era lei…una foto tra tante che non c’entravano nulla: era di un account Instagram. Modalità stalker attivata: il profilo era di una certa “Les_rues_et_l’_air”, ipotizzava fosse una donna. Era francese. Parlava di strade e di aria. Era lei, ne era certo. Scorse le immagini con impazienza, sperando di vedere qualche fotografia che confermasse che quello fosse il suo account…: vedute di Parigi, di Stoccolma, Londra, Amsterdam, Provenza, Italia, New York, Andalusia, una ruota panoramica…un violino. Il vestito di tulle. Un primo piano in bianco e nero. Era lei. Rimase impietrito a fissare lo schermo del computer, scaraventato indietro a due anni prima: travolto dai ricordi e dalle sensazioni vivide di quei giorni. Di lei.

«Parigi? E cosa devi fare a Parigi?». Shannon si grattò una tempia, piegando la testa di lato, scorrendo lo schermo dell’iPhone mentre Jared annunciava con nonchalance la sua imminente partenza per l’Europa.
«Vado a fare un giro, ho bisogno di staccare un paio qualche giorno per trovare l’ispirazione».
Erano trascorse un paio di settimane da quando aveva trovato il profilo Instagram di Charlotte e dire che continuava a scrutare ogni foto era riduttivo: aveva capito che al momento era lì, e sapeva che l’avrebbe trovata anche se il come era un punto interrogativo. Ma la sola idea di essere nella sua stessa città, di respirare la sua stessa aria, lo confortava: doveva trovarla. Fosse stato solo anche il vederla passare di sfuggita per strada, gli sarebbe bastato. Perché capiva che quella parentesi era ancora aperta, e non sapeva se voleva realmente chiuderla o trovare un altro modo per capire. L’aveva scosso ancora, a distanza di anni, e non era stato un caso. Oppure sì, lo era stato, ma era questo il leitmotiv: il loro leitmotiv.
Parigi era forse la città che conosceva meglio, oltre a LA e New York: la amava, la sentiva sua per quelle sfaccettature che facevano sentire a casa quei lati di sé che solo lì trovavano compimento. Era una sorta di imprinting: a Los Angeles saziava la sua intraprendenza, a New York lo sfrecciare dei pensieri, a Parigi dava forma alla propria vena artistica. Charlotte era arte ed era giusto che quella fosse la sua città e che lì, forse, si sarebbero ritrovati. Magari anche solo in un soffio di vento, in un raggio di sole riflesso in una pozzanghera...sarebbe comunque stato abbastanza.

Camminava per le strade del quartiere latino, lungo le vie di Montmartre, negli Champs Élysée, nelle stazioni della metropolitana, per vie sconosciute, nei quartieri periferici…cercandola e ad ogni passo ritrovando un po’ di quel se stesso che aveva lasciato in quel parco divertimenti. Aveva abbandonato la tinta blu elettrico, aveva lasciato crescere i capelli e adesso li teneva legati: la barba lunga di qualche giorno, il cappotto nero, jeans scuri, anfibi. Forse non l’avrebbe riconosciuto.
Stava camminando lungo la Senna, in uno dei quartieri più strani di Parigi: Quai de la Mégisserie…la prima volta in cui aveva visto l’alternarsi di negozi di animali e negozi di fiori era rimasto sconcertato, sembrava una sorta di presa in giro. Eppure, nonostante odiasse quel mercato di esseri viventi chiusi in teche di vetro e gabbie, era diventata una delle sue passeggiate preferite. E così, dopo quasi una settimana trascorsa a vagare come un cane affamato e in cerca di cibo, si era concesso una capatina nel suo posto preferito prima di prenotare il volo di ritorno a LA. Faceva freddo, il freddo di Parigi ti taglia la faccia quasi come quello di New York. Pensava a questo quando un particolare attirò la sua attenzione: fuori luogo, quindi perfetto. Una nuvola di palloncini schizzava di colore quella strada screziata di verde, grigio, dei pochi timidi colori dei fiori invernali: adesso sapeva quale sarebbe stata la sua ultima mossa.
Aveva comprato un palloncino viola, l’aveva legato a una panchina sulle rive della Senna e aveva scattato una foto. L’aveva poi pubblicata su Instagram.

 
“Tout est contenu ici: la couleur, la légèreté, la liberté…le changement et la preuve que ce n’était pas juste un rêve #Paris @Les_rues_et_l’_air”
 

Si era sentito un idiota, seduto per ore su quella panchina ad aspettare un segno qualsiasi che lo inducesse a restare. O ad andarsene. Il sole stava tramontando, il freddo si era fatto più pungente e aveva alzato il bavero del cappotto per ripararsi dall’aria gelida. L’ago della bilancia cominciava a pendere nella direzione che l’avrebbe riportato in albergo, verso il click per LA. Aveva avvertito soltanto una parvenza di qualcosa di familiare ma sbiadito nella memoria, un déjà vu: aveva aggrottato inconsapevolmente la fronte cercando di capire cosa fosse quella sensazione…e un tocco quasi impercettibile gli aveva sfiorato la spalla. Non si mosse, bensì chiuse gli occhi per sperare ancora più forte che ciò che aveva lampeggiato all’improvviso nella sua mente fosse davvero lì.

«Jared».
Un brivido. La sua voce e il modo in cui pronunciava il suo nome non erano altro che un brivido. Rimase fermo, senza voltarsi, per paura che al minimo movimento si sarebbe dissolta nell’aria come un ologramma al primo soffio di vento. Non voleva intaccare quel sogno. «Charlotte» bisbigliò, temendo che anche solo una vibrazione potesse mandarla in frantumi.
«Ti ho trovato, anche se credevo fosse uno scherzo…Parigi è grande, sai?». Rise, e quel suono lo tranquillizzò: era vera. Si sedette accanto a lui, e solo allora osò voltarsi per guardarla ancora….
«I capelli…».
«Anche i tuoi…».
Era sempre lei, anche se i lunghi capelli rosa pastello adesso erano neri ed enfatizzavano ancora di più i suoi occhi azzurri. Era possibile che fosse ancora più bella? «Sei più bella di come ricordassi».
Charlotte abbassò lo sguardo, mordendosi le labbra. «Mi sei mancato, quella mattina…quel giorno…il giorno dopo. Quello dopo ancora. E poi ogni giorno». Sollevò il viso, sorridendogli. «Ho viaggiato un po’, prima di tornare qui…volevo trovarti. Lo so che era sciocco, ma ci sono riuscita…sai? A New York, nelle stazioni della metropolitana…nei tramonti in Louisiana…a Londra, sul London Eye…nei castelli della Loira…e in Finlandia, in mezzo al mare d’inverno…a Los Angeles, nel caldo afoso e snervante e nelle colline al tramonto…e poi qui, a Nôtre Dame…la parte di me che avevo lasciato, ha ritrovato quella che ci avevi lasciato tu…».
Jared la scrutava senza sapere cosa dire, o meglio: senza sapere come dire ciò che aveva da dire. Non aveva preparato alcun discorso, anzi non ci aveva proprio pensato…ma sapeva di avere delle cose da esternare…solo che non sapeva come. Fissando gli occhi azzurri e luminosi di Charlotte, che aveva dimenticato per troppo tempo, si sentiva di nuovo se stesso. Di nuovo in vacanza. Di nuovo libero. Era come se avesse ricominciato a respirare aria pura, come se avesse ricominciato a vedere a colori. E allora le parole vennero da sé…le accarezzò una guancia, come se quei due anni non fossero mai esistiti e si fosse svegliato nel letto del resort stringendola ancora tra le  braccia. «Ciao» le disse, disegnando piccoli cerchi sulla sua pelle.
«Ciao» rispose, piegando la testa di lato per avvicinarsi di più alla sua mano.
Jared le sfiorò l’orecchio, poi si avvicinò e le cinse le spalle mentre lei gli poggiava la testa sul petto. «Ti andrebbe di vagabondare insieme a me?» chiese, a mezza voce.
Charlotte sollevò lo sguardo, indecifrabile, e tacque per qualche istante…poi, in un battito d’ali sfiorò le sue labbra: dolce, delicata, gentile, leggera.
«Era un sì?» azzardò, strofinando il naso sul suo.
«Posso portare un amico?» domandò, incerta.
Jared rimase spiazzato. «Un…amico? Ehm…».
Charlotte scoppiò a ridere, restando ferma nella stessa posizione, braccata dalle sue braccia. «Lo sai che mi segue dappertutto…».
Jared tirò un sospiro di sollievo, sorrise…accattivante. «Non è che puoi portarlo…devi» commentò, prima di stritolarla e affondare nel suo profumo.
 

 
 
Once upon a time…
It was grotesque and spaceless
It tastes like sugar and lime
 
Don’t be afraid of these shadows
The light is dim, so low
But they are just rows
Just the masks we used to know
 
Once upon a time…
In the land of glittered thoughts
We found music and rime
We caught the life’s fairy tale
Like a bubble in the wind
 
Shimmering, flashing, receding
Eyes never leaved
Smiling, smelling, touching
Skin never forgets
 
 

La folla aveva cantato in coro l’intera canzone, nel buio del momento in acustico, applaudendo nell’istante in cui lo stridio di un violino aveva spezzato gli accordi della chitarra di Jared.
 
Once upon a time
There was a man who seemed strange with his blue hair.
Once upon a time
There was a girl who seemed strange with her pink hair. 

 
 


      



   
 
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