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Autore: VandasGirls    19/05/2014    1 recensioni
Si nascose istintivamente dietro ad una delle molte scafallature di libri, prima di parlare con voce piccola e intimidita.
«Chi siete? Un ladro forse? Chiamerò le guardie se così è!» Cercò di darsi un tono, facendo anche la voce grossa sull’ultima frase, ma non uscì dal suo nascondiglio.
Ancora impegnato a fissare il soffitto, Orso sobbalzò, aprendo le mani dinanzi a sé ma non sapendo bene in che direzione voltarsi.
«Nossignora!», esclamò, trattenendo a stento uno strillo. «Sono un imbalsamatore!»

Prima che l'avvetura cominciasse, c'erano due ragazzini in vena di avventure. Prima della Contessa, c'era chi agognava la libertà, anche solo per un giorno, anche solo per assaporarne l'effimera essenza.
Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Capitano Dragonetti, Giuliano Medici, Lorenzo Medici, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note

*momento romanticismo*

*momento romanticismo*

*momento romanticismo*

E Giuliano.





Quant'è bella giovinezza

Capitolo quarto








La marcia forzata che proseguiva dall’aurora, il puzzo del pelo dei cavalli che non vedevano strigliatura da due giorni e il sudore che gli imperlava la fronte non potevano far altro che rendere quel viaggio a dir poco insopportabile. Di natura, Giuliano non amava lamentarsi. Quello che – solitamente- muoveva obiezioni per qualsiasi cosa era Lorenzo. A lui andava bene tutto ciò che era assennato. Cavalcare a passo lungo quel crinale di montagna, ad esempio, non aveva alcun senso. Dovevano galoppare, arrivare alle calcagna di quei due fuggitivi e far loro un bel discorsetto. Secondo Bertino, però, non era una grande idea andar di fretta per quei sentieri tortuosi, visto che la sola cosa che li separava da una caduta rovinosa in un burrone era una striscia di terra. Sbuffò per la millesima volta, portando un fazzoletto ad asciugarsi il volto, prima di prendere un sorso generoso dalla borraccia. Lanciò quindi uno sguardo alla giovane che cavalcava con loro e si chiese cosa mai potesse pensare di così impegnativo da evitare ogni conversazione. Non aveva aperto bocca da quando avevano lasciato Firenze, due giorni prima, se non per chiedere un paio di informazioni circa la via intrapresa.
Pareva furibonda.
Nel mentre il Medici la fissava pensieroso, lei diede un lungo sospiro che sapeva soltanto di seccato. Scalciò nel ventre del cavallo un paio di volte, superando così un paio di uomini per affiancarsi a Giuliano, quasi avesse in qualche modo udito i suoi pensieri.
«Sono due giorni che mi fate procedere al passo di un vecchio zoppo», esordì, strattonando malamente le briglie del suo cavallo. «È semplicemente ridicolo! Persino un cieco li avrebbe già trovati e riportati a Firenze!»
Giuliano alzò gli occhi al cielo, trattenendo parole poco carine nei riguardi della giovane. Si impose di essere cordiale, dopotutto non era colpa di Porpora se si trovavano in quella situazione.
“La via non consente un’andatura più veloce di questa, Madonna.” Disse paziente il giovane, indicando con un ampio gesto del braccio lo strapiombo alla loro destra “Non appena sbucheremo a valle, allora riprenderemo la corsa. Fino ad allora, vi prego di mantenere la calma. Li troveremo.”
«Bé, non è la verginità di mio fratello, quella in pericolo.» Porpora alzò le spalle, ricalcando il gesto di Giuliano sullo strapiombo. Ridacchiando nervosamente, si voltò di nuovo verso di lui. «Io di nipoti sono sicura di averne già a dozzine.»
Scosse velocemente il capo, muovendo qualche ciuffo ribelle dalla fronte sudata, dopodiché scrocchiò il collo un paio di volte.
«E, comunque», riprese poi, sbuffando. «Io mi chiamo Porpora, non Madonna.»
Il giovane de’Medici dovette far appello a tutto il suo autocontrollo per non scendere da cavallo, tirar giù anche la giovane e prenderla a schiaffi per l’insolenza usata. O per il modo in cui aveva messo in dubbio la purezza d’intenzione di sua sorella.
Subito dopo averlo pensato, però, se ne vergognò. Da quando metteva le mani addosso ad una ragazza? Non l’avrebbe mai fatto, un pensiero momentaneo che era riuscito a scacciar bene. La paura però si fece sentire, tanto che sospirò apertamente, questa volta. Buttò indietro il capo, cercando di distendere il collo indolenzito, prima di voltarsi verso la ragazza e sorriderle leggermente
“Porpora sia, quindi.” Si rimise dritto sulla cavalcatura, deciso a non spezzare quel inizio di discorso. Era rimasto zitto a sufficienza, senza contare che quella giovane lo incuriosiva. Era caparbia e testarda, ma quelli erano solo attributi di una grande forza interiore.
“Ci ho provato.” Ammise, un po’ imbarazzato “A capire mia sorella, intendo. So che Lorenzo alle volte non è umanamente sopportabile, ma non l’avrebbe davvero reclusa in casa. Non capisco perché si sia spinta così oltre…. Fuggire da palazzo! Dalla città!”
Per risposta, Porpora alzò le spalle.
«È una ragazza, mica una criminale», rispose, facendosi pensierosa. «Se l’avevate reclusa, ha fatto bene ad andarsene.» Arricciò appena le labbra, poggiando i gomiti sulla sella mentre si piegava in avanti. «Ma è una ragazza intelligente, questo bisogna riconoscerlo. Ha aggirato mio fratello come un  allocco.»
Si fermò un istante a pensare.
Come il sole scomparve per un istante dietro una nuvola, assottigliò gli occhi marroni verso l’orizzonte.
«Perché Bologna?», chiese, confusa. «Orso non è mai stato a Bologna.»
La risposta sembrava ovvia, agli occhi di Giuliano. Un piccolo sorriso intenerito fece capolino sulle sue labbra, mentre si apprestava a rispondere “Voi siete cresciuta con i vostri genitori, Porpora?” Attese qualche istante, ma quando la ragazza non rispose decise di iniziare per primo “Noi no. Nostro padre era malato, molto malato, mentre nostra madre…. Non era molto brava con i bambini. Li metteva al mondo e poi li passava alle levatrici o ai precettori. Siamo cresciuti sotto la guida di nostro nonno Cosimo e quando lui ci ha lasciati, ha permesso ad un vuoto incolmabile di instaurarsi nel cuore di mia sorella minore.” Fece una piccola pausa amareggiata, prima di proseguire “Io ho cercato di colmarlo, evidentemente senza successo.” Ancora ricordava il giorno del funerale del nonno. Era stato un rito molto solenne, in San Lorenzo. Aveva preso parte tutta la città, commossa dalla perdita del loro Pater Patria. Lui era rimasto tutto il giorno con Beatrice, tenendola per mano, prendendola in braccio o abbracciandola semplicemente. Eppure, lei non aveva versato una sola lacrima, tenendo lo sguardo vacui sempre rivolto al terreno. Perso per quei ricordi, quasi dimenticò la domanda di Porpora. Si riprese in fretta, “Perché Bologna? Una volta all’anno, Cosimo ci portava con lui in visita ai Bentivoglio. Da quando è morto, non siamo più andati.”
«Siete tutti così romantici, in famiglia?», incalzò Porpora, sgranando gli occhi. Poi, quasi rivolta a se stessa: «Nessun dubbio sul perché quella povera ragazza abbia deciso di scappare.»
Portò una mano alla cinta, afferrando la borraccia e portandosela alla bocca per prendere un generoso sorso d’acqua.
«Ho come l’impressione che vi stiate torturando fin troppo, per questa fuga», commentò subito dopo, annuendo pieno alla sua stessa affermazione. Non pareva neanche troppo inacidita e quella era la prima volta, da quando avevano iniziato a parlare. «Io e Orso abbiamo bruciato casa nostra a Vallesanta, ma non odiavamo la nostra famiglia. Non i nostri genitori, almeno. Insomma, una pazzia non è indice di ciò che realmente proviamo, no?»
Il Medici non parve aver capito molto bene quel discorso. Quella che per lui era un’autentica tragedia, agli occhi di Porpora sembrava una scappatella infantile. Beatrice poteva essere morta o, peggio, vittima di chissà quale angheria. Era bravina con la spada, glielo concedeva, ma non era assolutamente all’altezza di un brigante o un mercenario. Senza contare che il suo accompagnatore non pareva affatto abile con la lama. Sbuffò, passandosi nuovamente il fazzoletto sul viso “Voi donne, fate tutto facile! Dio solo sa quante cose possono nuocervi, ma voi non temete nulla. Pazzia, avventatezza o ingenuità, non sono questi i fattori che determinano certi atti: siete voi quelle romantiche.”
Porpora lo guardò, interdetta per un istante, alzando lentamente un sopracciglio.
«Giusto», rispose, dando una risatina divertita. «C’è del romanticismo nel sgozzare conigli per preparare la cena, ma anche nello spellare le anatre. E cos’è uno dei vostri sonetti cavallereschi in confronto a vedersi vendere a un uomo dai propri fratelli con la scusa di prendere marito?» Scosse il capo, sarcastica. «Ma davvero, è una vita rosa, quella di noi donne!»
Accelerò un po’ il passo del suo cavallo, precedendo il breve corteo in cima a una collinetta.
«Non io, però», commentò poi, gonfiando il petto con fierezza. «Io faccio della mia vita ciò che mi pare e piace, e così vuole fare vostra sorella.»
“Mia sorella non verrà mai venduta!” sferzando le redini, anche Giuliano scattò in avanti. Ormai pareva aver scordato il burrone “Non permetterò nessun matrimonio che lei stessa non accetti. Lorenzo potrà presentare anche cento pretendenti, ma se nessuno sarà alla sua altezza che così sia! Torneranno tutti a casa con l’impronta del mio stivale sul retro dei calzoni!”
«Allora sì, che vostra sorella è fortunata!»
Porpora rise, stavolta di gusto, buttando il capo indietro prima di scrollare le spalle.
«Ma andiamo, non può trovare qualcuno da sola? A Firenze dicono che siete sempre per osterie a caccia di fanciulle. Portatela con voi una sera, e lasciate che si trovi un ragazzo che le piaccia!» Fece una pausa, assumendo un’espressione un po’ più seria. «Altrimenti per forza che finisce con lo scappare con uno come mio fratello!»
“Vostro fratello non è nemmeno degno di servire i pasti a mia sorella!” Prendendo un respiro profondo, Giuliano si impose di calmarsi. Non era colpa di Porpora, non era colpa di Porpora, non era colpa…. Quella ragazza lo stava spedendo fra i folli! “L’uomo di cui Beatrice può innamorarsi deve comunque avere una certa levatura: bancari, duchi, conti e persino qualche principe. Fanno tutti la fila da quando ha compiuto quattordici anni. Lorenzo riceve almeno sei lettere al mese, con proposte di fidanzamento.” Non era esattamente un vanto il suo, quanto una dimostrazione di cosa dovessero sopportare. “Il cognome de’Medici è una maledizione, Porpora; Voi credere d’esser libera e forte, conscia del vostro destino, ma non avete idea di cosa significhi nascere con un marchio. Siamo proprietà, non siamo persone. Il fatto che mia sorella possa almeno scegliere l’uomo da sposare, seppur tra pochi, è un lusso.”
«Allora forse vostra sorella vuole essere una persona e non una proprietà», rispose risoluta Porpora. «Proprietà di chi, poi. Datemi ascolto, lasciate libera vostra sorella o vi si ritorcerà tutto contro, un giorno.»
Ridacchiò ancora un poco, dopodiché ammutolì di colpo, fissandosi sul paese che si estendeva sull’altopiano al di sotto delle colline che avevano appena scalato.
«Che posto è, quello?», chiese, voltandosi verso Giuliano per fargli cenno di avvicinarsi.
Lo guardò per un istante, annuendo piano.
«Se fossi affamata, mi fermerei lì.»
“Fiumalbo.”
La voce di Bertino li raggiunse da dietro ad una cartina spessa e grande.
Giuliano annuì, meditando ancora su quelle parole. Porpora aveva ragione, ma lui era solo un piccolo tassello. Lorenzo aveva le loro vite nel borsello insieme ai fiorini.
“Ci fermeremo lì, stanotte.” Decretò, prima picchiar con i talloni il ventre del cavallo, affrettandosi lungo in crinale.
Per un istante, uno solo, desiderò di non trovar più sua sorella.
La sua sola speranza di essere davvero libera.









Il paese di Cinque Pietre era in festa, quando Orso e Beatrice arrivarono a varcarne le soglie con i piedi distrutti per la scarpinata.
Con i cavalli troppo stanchi per proseguire e le pance vuote per la fame, i due giovani si erano trovati costretti non solo ad accamparsi per la notte, ma a farlo in un luogo che offriva pernottamento e vivande. Il fiume era lontano, dopotutto, e Orso non aveva la più pallida idea di come cacciare.
Così, affamati ed esausti, avevano celato il viso sotto i mantelli e avevano affittato una stanza nella prima locanda aperta, concedendosi infine il lusso di una cena a base di brodo di coniglio.
Il più unto brodo che Orso avesse mai mangiato, a voler essere precisi, cosa che lo rendeva orgoglioso e soddisfatto della sua scelta. Sentire il grasso caldo dell’animale scendergli in pancia era la sensazione più dolce, dopo un’intera giornata passata ad ingoiare lamponi per imbrogliare la fame.
«Ci rimetteremo in viaggio domattina presto», annunciò, svuotando con poco garbo la scodella mentre a passo bonario passeggiava assieme a Beatrice per le vie del paese. «Con un po’ di fortuna, troveremo chi saprà darci informazioni.»
In più, la Dea bendata doveva veramente averli accolti tra le sue braccia. Con tutto il trambusto dovuto ai festeggiamenti di chissà quale santo, due viaggiatori come loro sarebbero passati del tutto inosservati.
La ragazza, però, lo stava a stento ascoltando. Lanciò un’occhiata alla piazza in pietra del paese, dove la vera festa stava scoppiando. Stufa di quel cappuccio lo abbassò, lasciando scivolare la treccia sulla sua spalla. Allungò quindi il collo, scrutando quante persone stessero divertendosi a ritmo di musica e con del buon vino nei boccali.
“Andiamo a ballare.” Disse di punto in bianco, prendendo la mano di Orso e intrecciando le dita alle sue senza accorgersene. “Non mi riconoscerà nessuno, sono contadini che dei Medici han solo sentito dir qualcosa.”
Orso glielo concesse, facendosi trascinare per quei pochi passi che lo separavano dalla piazza dove molte coppie avevano già dato il via alla festa.
Dopotutto, anche lui aveva voglia di ballare.
L’ultima volta che si era lasciato trasportare dalla festa era stata il primo e unico San Silvestro che Porpora gli aveva permesso di festeggiare, stretti nei loro mantelli a Vallesanta, a danzare tra l’erba ghiacciata dei campi.
«Conoscete le ballate di paese?», chiese, divertito, lasciando la mano di Beatrice per prendere ad applaudire a ritmo con i tamburi che qualcuno suonava dinanzi alla chiesa. «È faccenda ben diversa, dalle danze di una corte!»
E ben più divertente, avrebbe volentieri aggiunto. Inutile precisazione, fece bene a risparmiarsela; Beatrice osservava quelle danze strane e rideva tanto le trovava buffe. I suoi occhi brillarono della luce di cento stelle, quando si voltò verso Orso. Lo tirò per la camicia, affinché si abbassasse per potergli parlare all’orecchio.
“Mi insegnerete voi?” chiese divertita, mentre un giovane ragazzo le porgeva una margherita, proseguendo poi per la sua strada.
In un certo senso si sentiva un po’ come a Firenze, l’atmosfera era di casa.
Orso arrossì appena, ma fu bravo a mascherarlo, dando una scrollata di spalle prima di scoppiare a ridere.
«Se lo desiderate», rispose, prendendole con delicatezza le braccia per posizionarla dinanzi a sé. «Non è niente di complicato.»
Si guardò un istante attorno, come a voler ravvivare in sé il ricordo dei passi che da tanto non ballava. Mosse piano i piedi, dapprima incerto, poi con sicurezza, sebbene la sua leggiadria lasciasse alquanto a desiderare.
«Non sono un bravo ballerino», commentò infine, dando un sospiro rassegnato.
Ciononostante, pareva allegro.
Lei, per risposta, sorrise teneramente. Si sporse sulle punte, appoggiando le mani alle sue spalle per potergli baciare una guancia.
“Io dico che qui siete il migliore.” Rispose sei, con determinata allegria, prima di provare a muovere a sua volta qualche passo, imitando le dame attorno a loro. Danzarono fino a che le loro gambe, già provate dalla giornata a cavallo, non chiesero pietà. Si allontanarono così dalla carca, tenendosi a braccetto, decisi però a guardare gli sbandieratori che esibivano i vessilli dei Bentivoglio. Stava per l’appunto passando il gruppo con i vessilli, quando un anziano si accostò a loro e li guardò con un sorriso sdentato.
“Avete una bellissima moglie, ragazzo. Siete benedetto.” Disse, battendo una mano sul braccio libero di Orso, proprio sopra al gomito.
Per risposta, il ragazzo avvampò e stavolta non ci fu modo di mascherarlo.
«Vi ringrazio», balbettò, portando la mano libera a grattarsi la nuca. «Ma il Cielo non mi ha ancora fatto dono di una moglie, buonuomo!»
Si voltò verso Beatrice, sorridendo timidamente.
«Non che non siate bellissima, naturalmente», disse, arrossendo ulteriormente, stavolta con più grazia. «Non potrei davvero immaginare una compagnia più gradita, stasera.»
Il vecchio li guardò incuriosito da quella rivelazione, così la giovane de’Medici si sporse verso di lui repentina, parlando con tono alto per coprire la musica.
“Il mio promesso è sempre così gentile e umile.” Disse, pizzicandogli di nascosto il fianco “Ancora non siamo sposati, ma avverrà presto. Stiano in viaggio verso casa di parenti lontani.”
Il vecchio parve cascarci.
Annuì convinto, prima di corrucciarsi appena “Siete per caso fiorentina? L’accento è inconfondibile come quello romano del vostro promesso. Che parenti andate cercando?”
“A Bologna.” Rispose lei, cortese ma spicciola “Una zia a cui molto tengo.”
«Andiamo», si rifece presente allora Orso, accostandosi al braccio di Beatrice per spingerla con delicatezza verso la strada che dalla piazza riportava alla locanda. «Il viaggio è ancora lungo, da qui a Bologna. Se domattina vogliamo alzarci al canto del gallo, conviene andare a risposare.»
Scambiò con il vecchio un lungo sguardo, prima di dargli del tutto le spalle e allontanarsi bonariamente dal frastuono della festa che non accennava a terminare.
«Aspettate!»
La voce dello sconosciuto lo bloccò al terzo passo, raggelandogli il sangue nelle vene.
‘Oh, no’, si trovò a pensare, prima di voltarsi con il cuore che batteva a mille. Se le gambe glielo avessero permesso, si sarebbe di certo dato alla fuga.
Rimasero in silenzio, mentre il vecchio sussurrava qualcosa all’orecchio del giovine che l’aveva accompagnato ma che non pareva aver notato i due ragazzi. Quello che doveva essere il figlio si sporse a guardare Beatrice, ma lei non fu veloce a calarsi il cappuccio sul capo.
Tronfio, l’uomo fece un paio di passi verso di loro “Voi siete la sorella del Magnifico!” gridò, facendo voltare mezza piazza. “Vostro fratello vi sta cercando per mari e per monti, lo sapete? Giungo da Firenze e so che vi è anche una ricompensa, per chi vi trova.”
Nessuno arrivò a muovere un muscolo, poiché Orso fu più lesto di una lepre nell’afferrare Beatrice per le spalle e darsi alla libera fuga per le strade del paese.
Con un paio di giovani alle calcagna, riuscì a infilarsi in un paio di vicoli ridicolamente stretti, tirandosi dietro una Beatrice più confusa che realmente allarmata.
«Siamo nei guai!», annunciò, senza perdere velocità mentre con il braccio le indicava la direzione da intraprendere. «Dobbiamo trovare un nascondiglio alla svelta!»
L’alternativa era quella di arrivare fino al bosco di corsa, ma i piedi cominciavano a dolergli un po’ troppo, per pensare di poter resistere fino alle porte del paese.
Stanca più di lui e intenta a interrompere quella corsa a rotta di collo, Beatrice indicò una stalla sulla loro via. Sembrava abbastanza buia e abbastanza decadente da non suscitare l’attenzione di alcuno, quindi sufficientemente discreta per nascondersi.
Insieme si infilarono dentro, nascondendosi dietro ad un cumulo di paglia bagnata e maleodorante. Non doveva entrarci nessuno da molto, molto tempo.
Silenzioso, Orso si chinò su Beatrice per coprirla parzialmente con le sue spalle larghe, seguendo attentamente i passi scattanti dei loro inseguitori sulla strada.
Quando lei provò a sgattaiolare fuori da quel marcio nascondiglio, lui la bloccò prendendole la spalla.
«No», sussurrò, senza staccare gli occhi dall’uscio. «Non ancora.»
Dopo una manciata di secondi, un altro gruppo di uomini armati di torce li superò di corsa, gridando il nome dei Medici come se fosse quello del Signore stesso.
Orso rimase a guardarli, immobile.
«Siamo salvi?», chiese, dopo un istante, quasi quelle parole fossero rivolte ai santi.
Un sorriso vittorioso fece capolino sul suo viso impallidito dalla paura.
«Siamo salvi!»
Sfinita, con ancora il fiatone per la corsa e delle fitte poco piacevoli agli arti inferiori, Beatrice andò a sedersi in terra. Passò una mano sulla fronte sudata, sporcandola di polvere, ma non parve preoccuparsene. Che fosse di nobili natali era risaputo, ma non aveva di certo paura di sporcarsi o dormire in un posto del genere. Rendeva tutto più avventuroso. Così presa dal batticuore che ancora non la lasciava, si accorse dopo qualche istante di Orso. La stava fissando con insistenza, ma il suo volto era in parte celato dell’oscurità.
“Qualcosa non va?” domandò, curiosa.
La risposta fu quasi immediata.
«No», borbottò sottovoce il ragazzo, spostandosi quel poco che bastava per mettersi comodo a sua volta sul terriccio umido del fienile. «Ma ci è davvero mancato poco che ci acciuffasse, quel maledetto vecchio.»
Rimase un istante in silenzio, puntando il naso verso il soffitto di quell’enorme stanzone in cui si trovavano.
«Voi state bene, vero?»
“Si, solo più stanca di prima. E dovremo aspettare un poco prima di avviarci alla locanda.” La ragazza sospirò affranta. Quel letto le sembrava più lontano che mai. Alzò una mano per scostarsi i capelli, ma poi si bloccò. Era davvero sporca.
Notando quel gesto, ci pensò Orso; allungò un dito e spostò via una ciocca castana dal volto dalla ragazza, ritrovandolo però più vicino di quanto avesse calcolato. Senza dire una parola, entrambi rimasero a contemplarsi. Beatrice avvertiva addirittura il respiro caldo di Orso sul viso.
«Temo di aver peggiorato la cosa», confessò dopo un respiro il ragazzo, lasciandosi sfuggire un sospiro divertito mentre le sue guance si arrossavano appena. «Le mie scuse.»
Spostò lo sguardo sulla giacca che portava aperta sul petto e con le mani frugò un po’ nelle tasche, estraendone infine un fazzoletto dall’aria meno sudicia della sporcizia che entrambi avevano addosso.
«Vediamo se riesco a rimediare.»
Orso si sporse in avanti, passando con delicatezza la stoffa dura del fazzoletto sulla fronte di Beatrice, probabilmente nell’intento di ripulire lo sporco lasciato sulla pelle quando l’aveva sfiorata per scostarle i capelli dal viso.
Lei abbassò lo sguardo imbarazzata, storcendo appena il naso a causa della pressione che il ragazzo stava esercitando. Forse ci metteva troppa forza, ma non si lamentò. Non era come Giuliano, che ogni cosa era ottima da criticarsi. Attese in silenzio, tirando su con il naso e non osando sposare gli occhi dal pavimento sudicio.
Quando Orso ebbe finito rialzò il viso e lo ringraziò con un sorriso.
Con la mano ancora ferma a mezz’aria, il ragazzo rimase immobile a guardarla. Difficile dire se fosse imbarazzato o più semplicemente perso in chissà quale pensiero, poiché nel suo sguardo non vi era alcuna traccia di coscienza.
Scosse appena il capo e parve ridestarsi, abbassando finalmente la mano con il fazzoletto per poi piantarla a terra e usarla come appoggio per sporgersi un poco sul viso di Beatrice.
La guardò negli occhi per un istante, ma nessuno dei due disse nulla.
Orso deglutì e il rumore della sua saliva che lentamente scendeva la gola fu per un istante l’unico suono nella stalla.
Poi, in un frusciare d’abiti, il ragazzo si chinò ancora un poco in avanti, posando le labbra su quelle della ragazza in un lieve bacio che sapeva di terra.
Fu strano, eppure estremamente naturale il modo in cui la giovane ricambiò quell’accortezza. Passò una mano sulla guancia un poco ruvida per via della prima barba del ragazzo, scendendo poi sul collo e fermandola sulla nuca, quasi come se fosse suo interesse non spezzare quel contatto. Sentì il cuore balzarle nella gola, mentre sentiva il coniglio saltellarle nello stomaco.
Per Orso poteva essere sciocco, agli occhi di Beatrice, ma per lei no; quello era il suo primo bacio.
Con un piccolo schiocco, Orso si scostò che ormai gli mancava il respiro.
Rimase con il naso appoggiato a quello di Beatrice, ma non osò alzare gli occhi dal terreno sotto di lui.
«Le mie scuse», mormorò solamente, mentre sentiva le guance andargli nuovamente in fiamme. Stava arrossendo decisamente troppo, in quella serata. «Non era mia intenzione apparire sfrontato.»
Lei non si premurò di rispondere. Si lasciò scappare un tenero risolino, prima di portare le braccia dietro al collo di Orso, reclamando così un altro bacio.







   
 
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