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Autore: ___Ace    21/05/2014    5 recensioni
Non c’è mai nulla di sicuro. Un giorno sei vivo e quello dopo sei morto. Niente è certo, niente è scritto, niente è indelebile. E allora, cosa ti rimane? Perché vivere fuori se si muore dentro?
La vita apparentemente perfetta di Eustass Kidd cambia in un istante. Il suo cuore l’attimo prima funziona e l’attimo dopo si blocca. Quando riprende a battere, la sua esistenza si trasforma e la sua strada incrocerà quelle di altre persone con problemi e punti di vista differenti. Speranze, sogni, ideali, tutto verrà condiviso, giudicato e, forse, esaudito.
Oltre a questo, però, si scontrerà anche con la vita apparentemente pacata di Trafalgar Law e, se prima Kidd era convinto di non aver bisogno di nessuno aiuto per andare avanti, si dovrà ricredere. Perché potrebbe scoprirsi bisognoso di un cuore nuovo per sopportare quel saccente e malefico bastardo se non vuole finire all’obitorio prima del previsto.
Kidd/Law.
Ace/Marco.
Penguin/Killer.
See ya.
Genere: Commedia, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eustass Kidd, Marco, Penguin, Portuguese D. Ace, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 7.

 

(Dopo due settimane).

«Non pensi che sia ora di andare a dormire?».
«Vuoi scherzare? Ho dormito per quasi un anno e adesso non voglio fare altro che stare sveglio!».
«I medici hanno detto che…».
«Si fottano i dottori. Si fottano le loro cartelle cliniche e le loro medicine. Si fottano tutti!».
«Ace…».
«Che c’è? Io sto benissimo, non vedi?» risposi, forse un po’ più istericamente del previsto.
«Lo vedo» sospirò Marco, alzando il capo per guardarmi dato che ero scattato in piedi come una molla per evidenziare il mio stato di buona salute, «Ma non dovresti tirare troppo la corda. Devi rimetterti passo dopo passo» spiegò pacato, con lo stesso tono paziente che usava sempre quando ero più piccolo e doveva farmi entrare in testa il perché non potessi fare tutto quello che volevo.
Repressi l’istinto di prenderlo a schiaffi e mi accucciai accanto a lui per essere alla stessa altezza, guardandolo con un sorrisetto un po’ pestifero e appoggiandogli una mano sulla spalla in modo confidenziale. «Ho perso un sacco di tempo e non ho intenzione di perderne altro, chiaro?». Non avevo bisogno di una vera risposta da parte sua, avevo già preso la mia decisione e non avevo alcuna intenzione di controllarmi solo perché nessuno credeva possibile che mi fossi svegliato da un coma ormai quasi irreversibile. Temevano tutti una ricaduta, ma io sapevo che non sarebbe successo. Mi sentivo benissimo e pieno di vita, inoltre me l’aveva detto Penguin. Lui non mi avrebbe permesso di ritornare in quelle condizioni.
Scossi il capo per scacciare via i pensieri tristi e la malinconia che la morte di quel ragazzo portava con sé. Era ancora una ferita aperta e ogni giorno sentivo la mancanza delle sue chiacchiere, come tutti del resto, ma mi sforzavo di essere forte e di andare avanti per lui, sorridendo il più possibile e immaginandomelo sempre a trotterellarmi accanto. Era una misera consolazione, ma almeno in parte funzionava e leniva un po’ il dolore.
«Sei più schizzato del solito da quando ti sei svegliato, ragazzino» disse Marco ad un certo punto. Si era scostato un po’ da me e aveva ripreso a guardare il panorama di cui si godeva dal tetto dell’ultimo piano.
Inarcai un sopracciglio, sfoggiando un’espressione scettica e curiosa. Non avevo ben capito a cosa si stava riferendo di preciso, ma sapevo che avrebbe continuato il suo discorso, così mi limitai a fargli sentire addosso il peso del mio sguardo, ghignando quando sbuffò, alzando gli occhi al cielo e rivolgendomi un’occhiata esasperata.
«Cambi umore da un momento all’altro» chiarì, «Un attimo prima sei tranquillo e allegro, mentre quello dopo rispondi male o ti arrabbi. E’ stressante cercare di capirti».
Riflettei sulle sue parole, pensandoci su per qualche istante e raggiungendo una sola e unica conclusione, anch’essa riguardante tutto il tempo perso a stare in coma.
«Sai, forse mi comporto così perché per tanto tempo non ho potuto farlo. Devo solo ambientarmi, riprendere confidenza con le emozioni, poi passerà» decretai e fui contento di vederlo annuire, d’accordo con quello che avevo detto. Erano poche le volte in cui mi dava ragione, di solito ero sempre io quello che aveva bisogno di risposte, illuminazioni o perle di saggezza, come le chiamava scherzosamente Thatch.
Attorno a noi calò il silenzio e l’unica cosa che ci faceva compagnia, oltre a noi stessi, erano i rumori tipici del centro città in lontananza e i suoni notturni provenienti dal giardino sul retro dell’ospedale. La lampadina fissata sopra alla porta delle scale antincendio si spense per alcuni istanti, tremolando e riprendendo ad illuminare fiocamente il cemento attorno a noi, probabilmente il generatore doveva avere qualche intoppo.
Non faceva tanto freddo, sebbene fosse arrivato l’inverno, inoltre ci eravamo ben coperti prima di uscire in terrazzo. Io ero ancora in convalescenza, mentre Marco avrebbe potuto tornare a casa quando avrebbe voluto. Tuttavia, sembrava deciso a non lasciare il resto dei ragazzi e me in quelle quattro mura a guarire da soli.
Guardai intensamente il cielo scuro, buio e senza nemmeno una luce. Non c’erano stelle quella sera, ma non importava, a me andava bene ugualmente perché tutto aveva molto più senso da quando avevo riaperto gli occhi. Ogni cosa, anche la più insignificante, era degna di attenzione e mi ritrovavo spiazzato e imbambolato di fronte a qualsiasi oggetto, colore, costruzione o persona. Non avevo visto nulla per mesi e mesi ed era come se fossi appena nato, tanto ero pieno di curiosità e meraviglia.
Quando avevo riaperto gli occhi non me ne ero nemmeno reso conto, sinceramente, perché ormai mi ero abituato ad immaginare le cose basandomi sui rumori attorno a me e sulle parole che mi venivano rivolte e che riuscivo a percepire, perciò l’immagine di Marco era già chiara e nitida nella mia mente anche senza che io l’avessi vista. Quando poi mi ero ritrovato i suoi occhi fissi e fermi nei miei mi era sembrato impossibile che fosse vero. Avevo creduto che si trattasse di un’illusione, ma era uno sguardo troppo carico e vivo perché potesse trattarsi solo di un’allucinazione o di uno scherzo dei farmaci. La prova che tutto ciò era reale, comunque, era arrivata non appena mi ero ritrovato soffocato dalle sue braccia in un turbinio di pagine svolazzanti e lenzuola aggrovigliate alle gambe. Probabilmente ero scoppiato a piangere perché ricordavo vagamente di aver avuto la vista appannata e le guance umide, poi c’era stato il sapore salato sulle labbra, quindi si, dovevo per forza essermi lasciato un po’ andare alle emozioni. Marco, invece, mi aveva stretto forte, fortissimo, a sé, inghiottendomi con la sua stazza ed io mi ero accontentato di nascondere il viso sul suo petto, circondandolo con le braccia che ero riuscito a muovere, anche se deboli e tremanti. Ero stato troppo impegnato a rendermi conto del miracolo che mi era stato concesso per ascoltare quello che aveva mormorato in quell’attimo. Per quanto ci avessi ripensato, proprio non riuscivo a rievocare le sue parole sommesse.
Poi c’era stato tutto un via vai confuso di dottori, infermieri e pazienti curiosi che spiavano dalla porta il miracolo, ovvero la mia ritrovata capacità di intendere e di volere. Erano seguite delle ore infinite di controlli, domande e sciocchezze simili, quando io avevo solo voglia di starmene tranquillo con la mia famiglia. Alla fine avevo avuto il mio momento di pace che, però, avevo passato nella tristezza più totale a causa della morte di Penguin. Un po’ me l’ero aspettato visto il discorso che mi aveva fatto nei miei sogni, ma avevo sperato fino all’ultimo che stesse scherzando, che fosse riuscito a superare l’intervento. Le cose non erano andate come volevo e mi ero chiesto più volte se la sua dipartita fosse dipesa dal mio risveglio. Una vita per una vita, questo avevo sentito dire molte volte e l’idea di aver privato quel ragazzo così solare dei suoi anni migliori mi logorava. Ad ogni modo, il malessere era passato in fretta perché, in quelle settimane, soprattutto dopo il funerale, avevo continuato a rivederlo quando mi addormentavo e una di quelle volte mi aveva riferito che se la stava spassando e che andava tutto bene. Aveva ripetuto quella parola fino a che non mi ero svegliato.
In certi momenti mi sentivo uno svitato, un pazzo a credere a cose del genere, ma la verità era che mi facevano sentire meglio, perciò me ne fregavo del giudizio e del parere dei medici e degli scettici e mi aggrappavo a quelle piccole cose e sensazioni con tutto me stesso. Ne avevo bisogno, erano il mio antidolorifico.
In quelle due ultime settimane, poi, mi avevano spostato in riabilitazione, lo stesso piano di Killer, ma lui l’avevo visto solo di sfuggita perché non si faceva avvicinare da nessuno. Solo Kidd riusciva a parlargli, o meglio, urlargli dietro. Diceva che era l’unico modo efficace per calmarlo. Ad ognuno la sua croce, in poche parole.
«Ace, cosa sentivi quando dormivi?».
Sobbalzai e diedi la colpa di quella reazione alla domanda improvvisa e inaspettata che mi aveva rivolto Marco e non al fatto che mi avesse chiamato per nome. Poteva sembrare strano, ma lui aveva sempre avuto un modo tutto suo di pronunciarlo. Dall’intonazione della voce riuscivo a capire se era stanco, contento oppure arrabbiato. Tutto ciò era frutto di anni e anni passati a stretto contatto ed era inutile dire che l’ultimo era il mio preferito. In quel momento, però, era solo curioso.
«Uhm, nel senso cosa udivo o cosa provavo?» chiesi dubbioso, non avendo capito a fondo la domanda.
Si strinse nelle spalle, come se fosse indifferente. «Tutti e due».
«Oh, allora, vediamo… Beh, penso che potrei diventare uno psicologo dato che mezzo mondo veniva a confidarsi con me, comprese le infermiere! Mi raccontavano dei loro problemi amorosi, capisci? Non ridere, non immagini il supplizio! Che vuoi che m’importi a me di tutti quei casini! Ah!». Alzai le braccia al cielo con fare scocciato. In quei mesi ne avevo passate di tutti i colori. «Mi innervosivano, non facevano altro che chiedermi consigli e pormi quesiti ai quali si rispondevano da sole. E mi ringraziavano pure per la chiacchierata!».
Così, mentre quell’idiota accanto a me se la rideva, io gli elencavo tutti i discorsi più assurdi, insulsi e stupidi che mi era capitato di ascoltare durante il coma.
«Ma per fortuna c’eravate voi a darmi un po’ di sollievo. Non ci crederai, ma indovina chi passava a vedere come stavo ogni tanto. Trafalgar, si, proprio lui. Si fermava anche per un pomeriggio intero e si sedeva sulla sedia a leggere non so bene cosa, un libro di anatomia credo. Alcune volte faceva anche delle ricerche, mi spiegava che stava cercando una seconda chance per un nostro amico in comune».
Marco fece un mezzo sorriso al quale non potei fare a meno di rispondere nella stessa maniera. Sapevamo entrambi per chi era la cura e speravo davvero che riuscisse nel suo intento perché Eustass Kidd mi piaceva. Era uno stronzo indelicato, certo, ma aveva carattere e lo ammiravo. E poi aveva contribuito a portarmi sul tetto a vedere i fuochi d’artificio, quindi mi stava simpatico per principio.
«Penguin passava sempre, invece» mormorai, facendo un respiro profondo per non lasciarmi abbattere e stringendo i denti. Era sempre più difficile nominarlo, ma dovevo essere forte. Glielo dovevo. «Lui e Killer non mancavano mai di farmi visita e ogni tanto anche Kidd li seguiva. Bestemmiava e li minacciava di morte per metà del tempo, ma almeno mi distraeva dalla monotonia».
«Lui ha un modo tutto suo di relazionarsi con gli altri» commentò Marco. «Comunque direi che te la sei passata bene tutto sommato».
«Il merito è anche tuo» aggiunsi sincero e senza volerlo.
«Si, beh, sei in debito a vita, ricordalo» scherzò, dandomi una spallata per tormentarmi.
«Sicuramente non avrei resistito senza la tua presenza» lo imitai con finta gratitudine e iniziando a ridere.
«Ovvio, immagina che palle senza me a tirarti su di morale».
«Tsé» sbuffai con sarcasmo, «Se non c’eri tu con i tuoi sensi di colpa e i tuoi complessi probabilmente sarei morto dalla noia». Stavo scherzando, sul serio, non l’avevo detto per offenderlo, ma fraintese le mie parole e si fece serio, bloccandomi il polso prima che gli tirassi uno scappellotto sulla testa per vendicarmi.
«Scusami, non volevo dire…» iniziai subito, intenzionato a rimediare alla mia lingua troppo lunga.
«Oh si, invece lo volevi proprio» disse, liquidando qualsiasi mio tentativo di riparazione con un tono freddo e distaccato che mi infastidì un poco. Aveva ragione, ero piuttosto suscettibile in quegli ultimi tempi. E d’accordo, forse quello era proprio ciò che volevo dire. Perché, se volevamo essere pignoli, era vero, era tutto vero.
Mi studiò per qualche istante durante il quale io non mossi un muscolo e non feci nulla per negare l’evidenza, poi si decise a parlare e, quando lo fece, fu dannatamente serio. «Ace, tu non hai la minima idea di cosa ho passato e di come mi sono sentito. Non puoi immaginare quan…».
No, un’altra volta queste cazzate no. Non le voglio più sentire, non ne posso più!, pensai, sentendo montare la rabbia. Finiva sempre in quella maniera: tutto girava attorno a lui e non c’era mai posto per gli altri. Non era stato lui quello che aveva dovuto salvare dei bambini e assicurarsi che stessero bene; non era lui quello che aveva rischiato di morire prima in un incendio e poi per un coma senza via di scampo. Non era stato lui quello a cui si era spezzato il cuore. A lui non era toccato niente!
«Si che posso» lo interruppi glaciale e scoccandogli un’occhiataccia gelida che andò a scontrarsi con il suo sguardo severo e offeso. Ero stato a sentire per un anno ogni sua parola, ogni discorso, ogni maledetto pensiero e dispiacere che aveva provato. Era stato tutto un insieme di scuse, sensi di colpa, rimpianti e, dannazione!, avevo creduto di impazzire. Sapevo benissimo quello che aveva passato e lo capivo, ma se c’era qualcuno che non sapeva nulla, quello era lui.
«Tu parli di come ti sei sentito, di quello che hai provato e della tristezza, ma a conti fatti non sai niente, Marco, proprio niente!» dissi tra i denti e alzando un poco la voce. «Sono io quello che è rimasto da solo quel giorno; io ho dovuto affrontare quell’inferno; io ho affrontato le fiamme e sempre e solo io sono stato costretto a restarmene fermo in un letto ad aspettare qualcosa, qualsiasi cosa, mentre tu non hai saputo fare altro che ripetermi che ti dispiaceva. Ma ora dimmi: cosa, esattamente, ti tormentava? Perché non l’ho mai capito!». Controllarmi era sempre più difficile, ma ogni parola che mi usciva di bocca mi faceva sentire leggero come non mai, inoltre la stretta sul mio polso aumentava e ciò non faceva altro che innervosirmi e darmi la spinta per continuare.
«Non sapevo se ti saresti svegliato o no!» ribatté lui, trattenendosi a stento dall’urlare. La sua risposta sembrò più un ringhio che altro. Poteva quasi fare concorrenza a Kidd.
«E a te cosa sarebbe cambiato?». Sarcasmo pesante.
«Cosa mi sarebbe…? Che cazzo dici? Sei mio fratello!».
Quell’affermazione fu come una doccia d’acqua fredda. Eccolo il problema, l’ostacolo più grande. Per quanto ci provassi, però non riuscivo a disprezzare ciò che per me rappresentava la cosa più importante, ovvero l’affetto, quel bene incondizionato che solamente i fratelli riuscivano ad avere. Era stato tutto nella mia vita e avrebbe continuato ad esserlo, anche se faceva male.
«Se non sbaglio l’ultima volta che ci eravamo parlati avevi detto che ormai il nostro rapporto l’avevo rovinato, no?». Non ragionai e fu la rabbia a parlare, ma mi pentii di quelle parole quando ormai era già troppo tardi. Se gli avessi tirato un pugno gli avrei fatto meno male, quello era certo.
Infatti Marco si immobilizzò e rimase a bocca aperta. Sugli occhi un velo di dolore.
Mi dispiace, avrei voluto dirgli, ma mi morsi un labbro per non cedere. Era giusto che lo sapesse, era giusto che capisse che non girava tutto attorno a lui, che non era il solo ad avere sofferto per tutto quel tempo che mai avremo riavuto indietro. Probabilmente avevo scelto il modo peggiore per aprirgli gli occhi, ma quello era anche il più diretto ed efficace, a mio avviso.
Mollò la presa e si alzò all’istante, spolverandosi le ginocchia e dandomi le spalle per dirigersi verso le scale e rientrare. Una scena del genere l’avevo già vista e la sensazione di sentirmi sbagliato e stupido tornò a farsi viva nel mio essere com’era successo in passato. Se ne stava andando, di nuovo, come aveva fatto l’ultima volta. Solo che, da quel giorno di quasi un anno fa, le cose erano cambiate e non mi andava più di rodermi l’anima solo perché lui non riusciva a mettere ordine sulla sua testa.
«Lo vedi? Non sai fare altro che andartene» sputai con ira. Ero stato proprio un idiota a credere di contare qualcosa per lui. Mi voleva bene, ovvio, ma nulla di più, su quel punto era stato chiaro, ma avrei preferito che me lo sbattesse in faccia, piuttosto di continuare a venire respinto con quel comportamento che mi feriva più delle parole.
Si voltò all’improvviso e mi afferrò per la collottola della maglia, strattonandomi fino ad essere a un centimetro dalla mia faccia. «Non ti permettere! Non hai alcun diritto di giudicarmi!» fece con astio.
«No, appunto, le tue azioni sono anche troppo chiare!» risposi sarcastico.
«Ace mi stai incolpando per cose che non stanno né in cielo, né in terra».
«E’ proprio questo il bello: io non ti ho incolpato di nulla! Sei tu che ogni giorno venivi da me a dirmi quanto ti dispiacesse di non essere rimasto all’orfanotrofio e stronzate varie! La verità, vecchio mio, è che tu ti senti in colpa, ma per un motivo ben diverso dall’incidente e dal mio coma!».
Mi guardò allibito e sorpreso per qualche secondo prima di ribattere. Pure io ero rimasto stupito dalle mie risposte e dal mio nuovo coraggio. A quanto pareva, sembrava che avessi imparato un po’ dei modi bruschi di Kidd e altri più diretti e senza mezzi termini che spesso usava Law. Penguin me l’aveva detto che quei due erano dei pessimi esempi da cui trarre ispirazione, ma la cosa si stava dimostrando molto utile perché non avevo mai tenuto testa a Marco come quella sera. Lui era sempre stato quello più grande e più maturo, quello bravo in tutto, quello saggio e sveglio, mentre io ero l’ultimo della cucciolata, quello da crescere e da istruire, quello che ne combinava di tutti i colori e che poi veniva strigliato a dovere. Mai, nemmeno una volta, avevo ribattuto alle sue parole ma, prima o poi, avrei dovuto crescere ed era arrivato il momento per farlo.
«Tu, piccolo insolente!» sbottò, stringendo la presa sul colletto e assottigliando gli occhi, «Non capisci un cazzo!».
«Cosa non capisco?» urlai, liberando tutta la frustrazione che avevo accumulato, «Che non riesci più a guardarmi in faccia solo perché ti ho baciato?» trovai il coraggio di dire. Non avevo più niente da perdere, la nostra amicizia se ne era già andata a puttane tempo fa. «Perché quella è l’unica cosa che sei riuscito a rendere chiara, fratello».
Il pugno arrivò all’improvviso e fu talmente veloce e inaspettato che mi ritrovai col culo per terra senza nemmeno accorgermene. Il dolore, però, fu niente in confronto a quello che stavo già provando a causa di tutta quella schifosa situazione. Non avrei mai dovuto tirare fuori l’argomento, anzi, non avrei mai dovuto baciare Marco. Mai. Le persone normali non baciavano i propri fratelli.
«Maledizione, Ace!» inveì, attirando la mia attenzione su di sé, «Va bene, hai ragione tu. Quando mi hai baciato ti ho respinto perché… Cazzo, non lo so nemmeno io il perché, okay? E si, non c’è stato giorno senza che non mi sia pentito di averlo fatto». Respirò profondamente, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni lungo i fianchi. Gli tremavano le spalle. «La verità è che avevo paura che non ti saresti più svegliato» ammise, «Avevo paura di perderti, capisci? Avevo paura. Avevo solo tanta paura!».
«Quello non era un buon motivo per dirmi che ti dispiaceva, razza di idiota! Non volevo farti pietà, non volevo essere compatito». Non dovevo piangere. «E non volevo che ti scusassi solo perché io rischiavo di morire e tu di vivere col tormento!».
«E’ questo che pensi di me? Mi credi così vile?».
«Non fare la vittima adesso, è quello che mi hai fatto intendere con i tuoi modi» affermai una volta rialzatomi, pulendomi le mani sui pantaloni felpati del pigiama. «Vuoi sapere cosa sentivo quando ero in coma? Beh, ho creduto di impazzire. Prima avevo gli incubi sull’incendio e poi c’eri tu che ti sentivi in colpa e cercavi conforto nello scusarti direttamente con me, facendomi sentire peggio. Dici di aver passato l’inferno, ma hai la vaga idea di cosa ho sopportato io? Non potevo prenderti a schiaffi, non potevo dirti di smettere e non sapevo se avrei mai più potuto parlarti o guardarti in faccia». Mi sarei volentieri fermato lì se un pensiero assurdo non mi fosse passato per la mente facendomi scoppiare a ridere, ma senza divertimento. Una risata senza anima, ecco. «E’ così buffo, sai? La volta che ho deciso di baciarti è stata anche la prima e l’ultima. Deve essere un segno del Destino» conclusi con un sorriso amaro.
«Non pensavo di essere la fonte di così tanto dolore» disse. Sembrava volersi scusare, ma l’intonazione era completamente sbagliata e dava ad intendere tutt’altra cosa.
«Io volevo solo che fossi sincero» sussurrai a testa bassa, «Non volevo stare a sentire discorsi su un futuro incerto e che non sapevo nemmeno se mi sarebbe stato concesso. Mi sentivo impotente, non riuscivo a… A fare niente, Marco. E ascoltare te mi faceva male perché non sapevo se mi sarebbe stata concessa la possibilità di darti ancora un bacio, uno solo. Io non lo sapevo» gemetti. Ero esausto e sfinito, quel confronto mi aveva distrutto psicologicamente e se prima non avevo sonno, dopo quello scontro non desideravo altro che dormire.
«Non ti ho detto di essermi pentito solo perché eri in coma e non avevo altro da fare se non piangermi addosso» fece dopo interminabili minuti di silenzio, tanto lunghi che avevo creduto che la cosa sarebbe finita lì e basta. «L’ho fatto perché era vero. E’ tutto dannatamente vero e se solo potessi tornare indietro io…».
«Ma non puoi» chiarii con calma e con un sospiro che sapeva tanto di rassegnazione, massaggiandomi distrattamente lo zigomo dolorante. Quel bastardo ci era andato giù pesante, non si era ricordato che ero ancora sotto osservazione?
«Già» sussurrò senza staccare gli occhi dai miei, «Ma posso rimediare. Posso…».
«Lascia stare» mormorai stanco. Qualcosa nelle sue parole mi aveva fatto attorcigliare lo stomaco, mozzandomi il respiro, ma evitai con cura i suoi occhi, voltandomi da un’altra parte e muovendo qualche passo per aggirarlo e raggiungere le scale. Attorno a noi l’atmosfera era carica di scuse, disperazione e parole non dette.
«Voglio solo andare a dormire, Marco».
Non ricevetti risposta e solo quando arrivai nella mia stanza, da solo, mi permisi di lasciare andare tutta la tristezza e la frustrazione.
Avere fratelli faceva schifo.
 

*

 

(La stessa sera, qualche piano più sotto).

Le luci tremolarono per un istante, spegnendosi e riaccendendosi l’attimo dopo, ridando stabilità a tutto l’ospedale. Avrebbero dovuto mettere mano a quel problema al più presto se non volevano ritrovarsi al buio durante un’operazione importante.
Cosa aspettano per sistemare quell’affare? Pensai furente, trattenendo a stento la calma.
«Ti odio».
«Hai voluto fare quello che volevi? Bene, ora non lamentarti se hai rischiato un collasso e ti tocca restartene qui legato al letto».
«Me ne frego del collasso, fammi alzare!».
«Scordatelo» sibilai, scoccando a quella maledetta testaccia rossa un’occhiata ammonitrice che prometteva terribili torture se non si fosse calmato all’istante.
Quell’idiota, che razza di idee malsane gli erano passate per la testa quando aveva deciso di punto in bianco di lasciare l’ospedale senza il permesso dei medici? Nelle sue condizioni aveva seriamente rischiaro di restarci secco per strada. E Killer, pure lui si era comportato da perfetto incosciente! Mi era sembrato che avesse più sale in zucca, ma a quanto pareva mi ero sbagliato. Due pazienti nelle loro condizioni non sarebbero mai arrivati tutti interi fino al porto.
‘Volevamo fare un giro al mare’, ma vaffanculo!, pensai con stizza, sfogliando malamente le pagine del libro che stavo leggendo mentre tenevo d’occhio quel coglione debole di cuore, sono mezzi morti e se ne fregano. Stupidi, stupidi, stupidi!
«Ehi, Trafalgar!».
«Cosa cazzo vuoi?» sbottai acido.
«Vedi di darti una calmata» mormorò a denti stretti e fissandomi malamente, lasciando da parte quello che voleva dirmi. «Quel tono non mi piace».
«Quale tono, quello tu che usi sempre con tutti?» sfottei.
«Sei per caso incazzato?».
«Incazzato, io? Vediamo, non ti sei fatto vivo per due settimane, sono venuto a sapere da un infermiere che te ne eri andato e poi ti vedo uscire dall’ascensore caricato su una barella con un sacco di tubi che ti uscivano dal corpo perché, da bravo coglione quale sei –mi premurai di sottolineare- ti sei andato a compromettere la stabilità che avevi raggiunto. Quindi dimmi: perché mai dovrei essere incazzato?».
Mi fissò con una faccia da schiaffi per qualche istante prima che sul suo viso facesse capolino un sorrisetto che non fece altro che irritarmi ulteriormente. «Ho capito, allora sei solo preoccupato».
«Cosa?». Sbattei  terra il libro senza nemmeno rendermene conto e, quando Eustass-ya me lo fece notare con un’occhiata saccente, ebbi la tentazione di soffocarlo con un cuscino.
Forse ero solo un po’ arrabbiato, potevo concederglielo, ma non preoccupato, affatto. Se moriva non me ne poteva fregare di meno. Lui e i suoi insulsi capelli rossi.
«Sta tranquillo, non lo dirò a nessuno» ghignò, calmandosi e dimenticandosi per un attimo la sua voglia di scendere dal letto per tornare a fare disastri in giro.
Sospirai esasperato, raccogliendo il volume da terra e posandolo con poca grazia sul tavolo poco lontano dove faceva bella mostra di sé la cena di quell’invasato. Una minestrina e un po’ di pane dal sapore di plastica. Che bello schifo. Ovvio che poi io mi rifiutavo di mangiare quello che mi portavano.
Kidd intercettò il mio sguardo e pensò bene di uscirsene con un’altra delle sue cazzate di cui, per quella sera, ne avevo avuto anche abbastanza. Ormai, però, lo conoscevo piuttosto bene da sapere che non avrebbe mai smesso di deliziarmi della sua compagnia, avrebbe di certo continuato ad assillarmi solo per il gusto di farmi impazzire.
«Hai fame? Mangiala pure, io non ne ho voglia».
«Si sono invertiti i ruoli adesso, Baka-stass?» domandai scettico, giocherellando con il cucchiaio e rimescolando quella brodaglia dall’aria acquosa e schifosa.
L’altro sbuffò seccato, «Come siamo simpatici stasera».
«La colpa è solo tua perché sei un’emerita testa di cazzo» gli resi noto tranquillamente.
«Ha parlato…».
«Dannazione, Eustass-ya, chiudi il becco per una volta!».
Passarono alcuni pesanti minuti di silenzio, interrotti solo dal rumore fastidioso e tipico dei monitor che controllavano il battito cardiaco del rosso per tenerlo sotto stretto controllo in caso di anomalie e solo dopo quando mi fui calmato Kidd riprese a parlare, più contenuto e attento di prima.
«Questo ospedale sta facendo male a tutti» notò con stizza, ma con un sospiro quasi arrendevole. Sapevo cosa intendeva, si riferiva alla nostra prigionia e all’impossibilità di potercene andare una volta per tutti. Lui e Killer ci avevano provato e avevano ottenuto solo guai, invece che la libertà agognata. Aveva ragione, dopotutto, stare lì faceva davvero poco bene alla salute.
«A te soprattutto. Sul serio, tenerti rinchiuso è dannatamente difficile» confessai, sedendomi stancamente sul bordo del letto e spostando con un gesto stizzito i suoi piedi per farmi spazio e acciambellarmi meglio tra le lenzuola.
Kidd fece uno dei suoi tipici sorrisetti da cattivo ragazzo, quelli che facevano parte del suo repertorio quando, secondo lui, qualcuno gli faceva un complimento. A mio parere gli davano un’aria da completo bastardo, ma credo che lo sapesse.
«Non è facile tenermi buono» affermò, dedicandomi un’occhiata eloquente che voleva andare ad unirsi ai pensieri che mi si stavano formulando nella testa.
Sorrisi di rimando. A volte era incredibile come riuscisse a capire al volo quello che stavo pensando ancora prima che lo dicessi.
«Ti è mancato il sesso selvaggio?» chiese di botto, «Per questo sei incazzato e frustrato? Perché se vuoi io posso benissimo sbatterti al muro anche adesso, intendiamoci».
«Non vorrei che ti venisse un infarto» sibilai malefico, freddandolo con uno sguardo minaccioso e poco divertito. I suoi modi rozzi mi avrebbero sempre spiazzato, ne ero certo.
«Non hai risposto alle mie domande» sottolineò, ghignando soddisfatto.
«Oh, temo di doverti deludere» feci, fintamente dispiaciuto, «Qualcun altro è stato così gentile da sostituirti».
Il ragazzo si fece serio all’istante e un’aria assassina si impadronì del suo volto, costringendomi a mordermi un labbro per non scoppiare a ridere. Kidd era così facile da mettere nel sacco e così credulone. La cosa bella era che, in quel modo, riuscivo a capire perfettamente quanto fosse sentimentale. Infatti, quale altra emozione poteva rappresentare quel cambio repentino del suo umore? Si trattava di gelosia, pura e meravigliosa gelosia.
«Tu cosa? Rognoso figlio di…».
Non resistetti oltre ed iniziai a ridere come un completo idiota, passandomi una mano sul viso quando la testaccia rossa aprì la bocca con aria stupita e sconcertata, nonché offesa. Aveva capito di essere stato fregato e, come da programma, non mancò di maledirmi con una serie di insulti originali e mai sentiti prima. Il cuscino in faccia che mi arrivò poco dopo, però, non lo gradii affatto.
«Infantile! –una cuscinata sulla testa- Razza di idiota! –ecco che cercò di contraccambiare- Ti ammazzo!».
«Ma che vuoi fare? Sei più rachitico di mio nonno!» ribatté, bloccandomi il braccio che reggeva il cuscino e approfittando di quella mossa per colpirmi per primo.
Il colpo mi fece storcere il naso per l’impatto, ma riuscii a riprendermi abbastanza in fretta per sfuggire a quello seguente, piegandomi all’indietro con uno scatto e finendo con la schiena sul materasso dopo aver perso l’equilibrio.
«Maledizione» imprecai a denti stretti, non appena Kidd mi sovrastò, gongolando vittorioso e sogghignando come un ebete.
«Adesso sei ancora arrabbiato?» domandò con tono scherzoso, riferendosi al discorso precedente e mettendosi comodo, puntellando i gomiti ai lati del mio viso per sostenersi e guardarmi in faccia.
Mi imbronciai, evitando i suoi occhi volutamente e incrociando le braccia al petto, per quanto la sua mole me lo permettesse.
«No, non mi interessa se vuoi ammazzarti da solo» dissi stupidamente, irritandomi non poco quando lo sentii ridacchiare di fronte al mio cipiglio da superiore.
«Volevo solo tirare su il morale a Killer» confessò infine, abbandonando per un istante il divertimento.
«E ci sei riuscito?» mi accertai.
Sorrise. «Un po’».
«Potevi chiamarmi» borbottai, «O almeno dirmelo. Oppure, che ne so, fare qualcosa. Sei sparito, cazzo».
«Te lo meritavi, lo sai».
Lo guardai torvo, punto nel vivo del mio orgoglio e infastidito dal fatto di non essere riuscito a far passare lui dalla parte del torto. La cosa peggiore era che sapevo di essermi meritato quel comportamento distaccato nei miei confronti. Avevo detto una cosa assurda e priva di senso, forse anche un po’ egoista dato che uno dei nostri amici era appena morto, perciò alla fine ero arrivato a capire dove avevo sbagliato, ma sentirmelo dire espressamente da lui e doverlo ammettere ad alta voce bruciava. Soprattutto per uno come me che era abituato a prevalere su tutti ed avere sempre l’ultima parola.
«Vaffanculo, Eustass-ya» mormorai, deciso a non dargliela vinta e a mantenere una briciola di amor proprio intatta. Non potevo lasciare che quel moccioso iniziasse a credere di avere tanta influenza su di me, assolutamente.
«Stronzo psicopatico».
«Non sprecare il fiato, potrebbe servirti».
«Per rianimarti quando crollerai a terra senza energie?».
«O per avere una riserva quando starai per tirare le cuoia».
«Datti fuoco» sbottò.
Fu il mio turno di ghignare, felice di essermi ripreso una soddisfazione personale che era quasi come una rivincita su tutto quello che era successo. Quando Kidd rispondeva ad una frecciatina con un insulto voleva dire che non aveva più nulla da usare per ribattere aspramente. Ciò, ovviamente, mi dava un immenso piacere.
Stupidamente mi ritrovai a pensare che mi era mancato quello scambio di battute, quella sua faccia incazzata e l’espressione burbera, i capelli disastrati e i modi poco cordiali e bruschi. Erano state due settimane insulse, vissute in modo passivo senza uno scopo o un obbiettivo. Non mi ricordavo nemmeno come ero solito vivere quando ancora non avevo incontrato quel coglione di Eustass-ya. Cosa facevo per non morire dalla noia durante il giorno? Chi mi infastidiva tanto? Con chi è che sfogavo il mio sadico umorismo? Era assurdo, lo sapevo e me ne rendevo conto, eppure non ne avevo la minima idea. Pensarlo era già abbastanza difficile, ma dirlo sarebbe stata una vera e propria eresia, ma, ad ogni modo, Kidd aveva praticamente fatto un miracolo, distraendomi, tormentandomi e, soprattutto, sfidandomi a mangiare. Aveva capito che bisognava mettermi alla prova, darmi una scusa per mostrarmi migliore degli altri, e aveva usato tutto ciò a suo vantaggio solo per non lasciarmi morire di stenti.
Cazzo, a questo qua devo quasi la vita, pensai controvoglia, fissandolo storto e con una smorfia sulle labbra.
Lui stava facendo lo stesso, guardandomi schifato e studiandomi attentamente, pronto a difendersi se mai lo avessi attaccato verbalmente. Sembravamo quasi due persone che si incontravano per la prima volta e che capivano di detestarsi alla prima occhiata.
Diciamo che per noi era andata proprio in quel modo.
«Che hai da guardare?» disse acido, assottigliando lo sguardo.
Sbuffai seccato, «Guardo quanto sei ridicolo con quei capelli».
«Capelli che non ti dispiace accarezzare quando scopiamo, vero?» sussurrò malizioso, avvicinandosi di qualche centimetro e non lasciandomi nemmeno il tempo di ribattere per le rime a quell’affermazione falsa e assurda che non aveva niente di vero.
A volte desideravo davvero che tutto finisse per non dover più soffrire, ma poi arrivava lui con qualche stronzata, un bacio che sapeva di buono e un cuore da guarire.
Come potevo, allora, smettere di esistere?
Sciolsi le braccia che tenevo incrociate e gli passai le mani tra quella zazzera infuocata, sentendolo sorridere soddisfatto.
«Non dire nulla» lo minacciai, prendendo fiato per ricominciare poi da dove avevo interrotto. Volevo solo che stesse un po’ zitto, poi avrebbe potuto dire tutto quello che voleva, ma solo dopo, quando avremo finito di consumarci a vicenda la bocca e tutto il resto di noi che bruciava e ardeva allo stesso tempo.
Grazie al Cielo non si sognò nemmeno di controbattere.
 
*
 
Qualcosa non andava.
Era notte fonda, Trafalgar si era addormentato da un pezzo ormai sulla poltrona accanto a me e in corridoio non si sentiva volare una mosca. Allora cos’era quel fastidioso fischio che mi stava rimbombando nelle orecchie incessantemente?
Feci per muovermi con l’intento di mettermi seduto e accendere la luce, ma una fitta allucinante al petto mi mozzò il respiro e mi fece rendere conto che il sibilo che sentivo era quello emesso dal mio respiro ansimante, confuso con quello tipico del monitor che sembrava stare impazzendo accanto al mio letto.
Una luce inondò la stanza e rumori di sottofondo misti a una voce ovattata mi diedero la conferma che c’era davvero qualcosa che non andava e, purtroppo, sapevo anche di cosa si trattava.
Il problema era il mio cuore.
Stava cedendo.
Mi sentii quasi sollevato all’idea, me l’ero anche aspettato che sarebbe successo a breve, dopotutto aveva retto abbastanza a lungo da permettermi di godermi gli ultimi mesi in santa pace.
Beh, magari pace era una parola grossa, visto e considerato che ero stato circondato da idioti assillanti e pazzi, ma dovevo anche ammettere che non era andata tanto male ed ero soddisfatto del risultato.
Non potevo nemmeno lamentarmi, soprattutto perché mi era persino stata concessa un’ultima notte con quel bastardo saccente di Trafalgar. Dovevo quindi mettermi il cuore, anzi, l’anima in pace e accettare quel destino.
Avrei potuto combattere, non ero mai stato tipo da gettare la spugna, ma i medici erano stati chiari su quel punto: se il cuore cedeva, voleva dire che non c’erano speranze.
Prima di morire, però, avrei dovuto sopportare il dolore, la sensazione di annegare e cadere nell’oblio e il respiro che mi moriva in gola per quanto male mi faceva il petto.
Davanti a me intravvedevo un’unica figura indistinta che parlava, o urlava, a vanvera, iniziando a inserire tubi nelle mie vene per tentare di stabilizzarmi e facendo un casino assurdo per quanto mi riguardava. Gli unici colori che riuscivo a distinguere erano quelli della maglia che portava, giallo e nero, poi nient’altro, il viso non riuscivo a focalizzarlo.
Intuii vagamente che ci stavamo muovendo quando le pareti della stanza scomparirono, sostitute da un lungo corridoio poco illuminato e da una serie di porte chiuse che mi sfrecciavano ai lati velocemente.
Non avevo idea di dove quell’idiota mi stesse portando, ma me ne feci una quando riconobbi le porte dell’ascensore chiudersi alle nostre spalle.
«D-dove…» provai a dire, cercando inutilmente di muovermi e venendo subito bloccato.
«Sta zitto e fermo. Ti porto in sala operatoria».
Quel coglione, cosa aveva in mente di fare? Perché, anche se non ero ferrato in materia, ero certo che fosse compito dei dottori operare, ma non avevo le forze per contestare e tutto si stava facendo vagamente buio e scuro, perciò lo lasciai fare, standomene zitto a sopportare il dolore e ad attendere che i battiti impazziti rallentassero fino a smettere.
Sarebbe potuta andare a finire bene la storia, sarei potuto arrivare in sala operatoria in tempo per ricevere un miracolo o per dare la possibilità ai medici di fare il possibile, anche se alla fine me ne sarei andato. Tutto avrebbe potuto svolgersi diversamente, invece, per qualche strano scherzo del Destino, il generatore dell’ospedale decise che doveva guastarsi proprio in quel momento, togliendo la corrente a tutto l’edificio e lasciando Trafalgar e me al buio e bloccati in un fottuto ascensore con un collasso in corso.
«Merda!» urlò Law, tirando un pugno alla parete e cercando a tentoni il tasto giusto da premere per dare l’allarme. Fortunatamente avevano provveduto a inserire una luce di riserva che si accendeva in momenti critici per non lasciare nel panico i poveri disgraziati che si trovavano nei guai, così riuscì a schiacciare il bottone giusto, rivelando così la nostra posizione a chi sorvegliava l’ospedale quella notte.
Non sapevo quanto tutti fossero nel panico, troppo impegnato a tenere sotto controllo il mio, e non mi resi conto della voce di Trafalgar che, dopo aver passato parecchi minuti a inveire contro Dio solo sapeva chi e a riversare i suoi insulti sull’unica persona presente assieme a lui, ovvero me, aveva preso a discutere animatamente con qualcun altro.
Con fatica riaprii gli occhi, individuando alcune facce sopra le nostre teste che agitavano le braccia e calavano qualcosa affinché Law potesse afferrarla e farne buon uso.
«Siete pazzi? Morirà dissanguato nel giro di un minuto!» sbraitava con rabbia, senza nemmeno degnare i presenti di uno sguardo e mantenendo i suoi occhi gelidi, o forse erano terrorizzati?, nei miei, mentre si infilava distrattamente dei guanti di lattice.
Non stavo capendo proprio un bel niente e mi sembrava di non avere nemmeno più la forza per respirare e restare sveglio.
«Non dormire, non dormire!».
L’ultima cosa che vidi fu la lama di un bisturi che scintillava alla luce delle torce artificiali.
Non appena riaprii gli occhi mi stupii della strana luce chiara e azzurrognola che circondava ogni cosa, soprattutto non riuscii a spiegarmi che cosa ci facessi sdraiato per terra sul pavimento non proprio caldo e accogliente. Sopra di me vedevo delle strane macchie di luce gialla e accecante e potevo vagamente intuire che c’era qualcuno che si muoveva in modo frenetico nel tentativo di fare qualcosa di eroico, o di stupido, dipendeva dai punti di vista.
«Ehi, guarda chi si vede!».
«Uh? Tu? Che diavolo…» iniziai a dire a bocca aperta per lo stupore.
«Che fai a terra? Alzati, così vedi meglio!» disse il ragazzino con il solito insulso cappello calcato in testa, porgendomi una mano e aiutandomi a tirarmi su, dandomi poi un’amichevole pacca sulla spalla. «Ti trovo bene, Kidd».
«Penguin? Sono morto, per caso?» gli chiesi, passandomi una mano fra i capelli per spostarmeli dalla faccia e ritrovandomi le mani rosse e umide. «Cosa cazzo…?» mi allarmai.
«No» disse l’altro, scuotendo il capo e guardando davanti a sé con aria allegra. «O meglio, non ancora».
Seguii il suo sguardo e rimasi sconvolto dalla scena che mi si presentò di fronte: che stava combinando quel pazzo?
Trafalgar Law, con un’espressione che non gli avevo mai visto sul volto, fissava concentrato e con l’aria indistruttibile e tesa il mio torace aperto e trafficava con le mani insanguinate nel tentativo di fare qualcosa. Accanto a lui alcuni bisturi e altri oggetti diabolici e freddi facevano mostra di sé, venendo usati e poi riappoggiati al loro posto dal ragazzo che tentava disperatamente di… far battere un cuore?
Aspetta, pensai l’istante dopo con sconcerto, sentendo montare la rabbia, mi sta operando in ascensore?
«Figlio di puttana!» sbottai, sferrandogli d’istinto un pugno dritto alla mascella, ma la cosa bella accadde dopo, quando rischiai di inciampare, dato che il colpo andò a vuoto, trapassando Trafalgar e facendomi capire che quello non ero io, almeno, non con il mio corpo.
Penguin lesse il mio panico negli occhi e, scuotendo il capo con un sorrisetto beffardo, probabilmente aveva immaginato una reazione del genere e aveva preferito godersi la mia scenata invece di avvisarmi, mi afferrò per un braccio, trascinandomi più indietro per farmi vedere bene lo svolgersi della scena.
«Sei in un’altra dimensione, non puoi interagire con lui» mi spiegò pacato, nascondendo le mani nelle tasche e guardando con ammirazione quello che era stato uno dei suoi migliori amici.
«Posso sapere cosa significa tutto questo?» chiesi scocciato, «Se non sono morto perché mi trovo qui, per giunta con te che, scusa la franchezza, sei sottoterra da un pezzo?».
Penguin scoppiò a ridere di gusto e per niente toccato dalle mie frecciatine macabre. «Mi eri mancato testa rossa, davvero!».
Alzai gli occhi al cielo, convinto che quello fosse drogato, o qualcosa del genere.
«E’ successo anche a me» disse, una volta calmatosi, «Quando mi hanno operato mi sono trovato in un luogo diverso, con Ace, credo te l’abbia raccontato, e lì sono rimasto ad aspettare».
«Aspettare cosa?».
Si strinse nelle spalle. «Aspettare di vivere. Aspettare di morire. Che differenza fa? Ad ogni modo, adesso tocca a te».
«Che dovrei fare esattamente? Sono in un ascensore con il petto aperto e un matto mi sta spappolando gli organi» evidenziai con sarcasmo, fissando malamente Trafalgar e le sue manacce, accorgendomi subito dopo che la cosa umida che sentivo sulle mani era il mio sangue.
Penguin iniziò a ridacchiare e, davanti alla mia faccia interrogativa, indicò il moro a pochi passi da noi che lavorava stringendo i denti e sussurrando di tanto in tanto qualche parola verso il mio corpo steso inerme su una barella.
«Lui era il migliore del suo corso» disse con ammirazione, «Anche quando si è ammalato non ha smesso di studiare e di curiosare in giro. Sai, da quando è venuto a sapere del tuo problema ha iniziato a fare ricerche e a consultare vari specialisti del posto per trovare una soluzione. Credo che sia più informato lui che tutti coloro che hanno condotto i tuoi esami» ammise e, sbirciando da sotto il cappello la mia faccia, sorrise.
Non so perché lo fece, forse perché la mia reazione lo lasciò soddisfatto, dopotutto, chi mai si era preoccupato tanto per la mia salute? In quel momento avrei voluto sminuire il suo gesto con disinteresse, magari insultandolo o disprezzandolo, invece mi sentivo spiazzato, sorpreso, forse anche un po’ lusingato. Come ci si sentiva quando qualcuno mostrava interesse e premura senza l’obbiettivo di ottenere in cambio qualcosa? Senza nemmeno conoscere chi si aveva di fronte?
Di qualunque cosa si trattasse, io non ero contento, affatto.
«Sei stato fortunato ad averlo avuto vicino questa notte» proseguì Penguin, «Se così non fosse stato, probabilmente saresti già al piano superiore e credimi, allora mi avresti avuto alle costole non solo per pochi minuti, ma per molto, molto tempo».
Repressi un brivido di inquietudine e deglutii a fatica, incapace di spostare gli occhi dall’impegno che Trafalgar stava impiegando per rianimarmi e tenermi in vita fino a quando non avrebbero riavviato il generatore, permettendo così ai medici di portarmi in sala operatoria e finire il lavoro.
Mi aveva intubato senza ascoltare il consiglio degli esperti e poi aveva proceduto senza ripensamenti, aprendomi il torace con un’ampia incisione a livello intercostale, in modo da poterci infilare tutte e due le mani e raggiungere la zona interessata. Quello era stato l’inizio e poi, seguendo alcune istruzioni impartitegli da uno dei primari arrivato sul posto che gli parlava da una fessura aperta sul soffitto, aveva rimosso un coagulo che ostruiva la circolazione del sangue, sospirando sollevato per poi riprendere da dove aveva lasciato.
«Avanti Eustass-ya» sussurrava, «Guai a te se osi morire. Giuro che ti raggiungerò all’altro mondo solo per tormentarti».
Ghignai, quel bastardo non sarebbe mai cambiato.
Ad un tratto, quando sembrava che sarei ritornato nel mio corpo prima del previsto, il volto di Law si contrasse in una smorfia arrabbiata e, imprecando a bassa voce, urlò ai presenti di portargli una pinza dal nome impronunciabile perché si era creata un’emorragia e doveva assolutamente fermarla.
«Mi sento girare la testa» mormorai, appoggiandomi alla parete dell’ascensore.
«E’ normale» mi assicurò Penguin, sostenendomi e impedendomi di scivolare sul pavimento, «Potresti morire da un momento all’altro».
Lo guardai spaesato, desiderando di poterlo prendere a pugni ma, per fortuna, si corresse e cercò di tranquillizzarmi. «Ma non accadrà, fidati di lui. Non ti lascerà andare».
Furono dei lunghissimi e interminabili minuti in cui il tempo parve fermarsi. Law afferrò la pinza che gli porsero dall’alto, infilando una mano nel buco sul mio petto e tastando alla ricerca di qualcosa, sorridendo impercettibilmente quando trovò quello che stava cercando, ovvero l’aorta. E, accanto ad essa, ecco che lo vidi sospirare.
«Ho trovato l’emorragia! Ma la vena è troppo lontana, non riesco a suturarla in questo stato» urlò, mordendosi un labbro.
«Quanto è grande?» domandò qualcuno.
«Come una moneta».
«Mettici il dito e tappa il buco».
Vidi Trafalgar alzare gli occhi al cielo e chiuderli per un attimo, prendendo fiato e tastando la carne, riaprendoli prima di parlare.
«Trovata» fu quasi un sussurro. Si schiarì la voce. «Credo… Credo che si sia fermata e… -poi più forte- E il cuore sta ricevendo sangue, si sta stabilizzando!».
Mi sentii come se mi fosse stato tolto un peso dal petto, forse era andata proprio in quel modo, ma ne ebbi la conferma solo quando vidi Penguin sorridere e scherzare come aveva sempre fatto, scompigliandomi i capelli e ignorando le mie minacce, sostenendo che nel suo stato non avrei potuto di certo ucciderlo.
«Mi sento pesante, che vuol dire?» gli chiesi, guardando le mie mani ritornare pulite e sentendomi trascinare verso la barella dove Law stava respirando profondamente per rilassarsi nell’attesa che lo tirassero fuori dall’ascensore.
«Sei salvo, vecchio mio. Tra poco vi tireranno fuori e ti ricuciranno. Magari, chi lo sa, tra qualche giorno potrebbe presentarsi un donatore con un cuore tutto per te» ammiccò e, per qualche motivo, mi immaginai lui che andava in giro a smistare carte e a mettere insieme i pezzi di un puzzle immaginario per farmi ottenere ciò che mi serviva per stare bene.
Il tempo iniziava a stringere e mi sentii in dovere di ringraziarlo, ma non ero avvezzo di certe cose e le parole mi rimasero incastrate in gola, non dette.
«Lo so, non preoccuparti. E’ stato un piacere» annuì Penguin, intuendo quello che volevo dirgli e salutandomi con la mano. «Hai delle maniere che lasciano a desiderare, ma sei uno dei migliori amici che ho mai avuto, Kidd».
«Piantala di essere smielato, nanerottolo, dimmi cosa posso fare per sdebitarmi e facciamola finita». Tutto sommato, però, non riuscii a risultare brusco o scocciato.
«Fammi un favore soltanto: dì a Killer che, ogni volta che gli sembra di cadere, ci sarò io a sorreggerlo».
Sorrisi e ci scambiammo uno sguardo d’intesa mentre il mondo tremava e tutto svaniva. Il migliore tra tutti e il più coraggioso era stato lui e lui soltanto e mai lo avrei dimenticato, nonostante la lingua lunga e la tendenza a far impazzire le persone.
«Eustass-ya, ora andiamo in sala operatoria» disse Trafalgar, chinandosi su di me per rassicurarmi e trattenendo a stento il tremolio della voce. Poi sospirò.
«Grazie per non avermi fatto vincere la scommessa».
 
 
 
 
Angolo Autrice:
Ehm.
Buongiorno?
*si prepara ad affrontare la terza guerra mondiale fatta di insulti e frutta marcia*
Lo so, credetemi, lo so. LO SO. Va bene? E’ passato, quanto? Un casino di tempo, si, ehm, non so da dove iniziare.
Le idee c’erano, ma era complicato metterle per iscritto, quindi ho lasciato scorrere il tempo fino a che non ho capito che mi stavate chiedendo in troppi se avessi abbandonato la storia, così mi sono detta che dovevo smettere di poltrire e finire questo capitolo lasciato a metà!
Signore, ce l’ho fatta. E’ stato un calvario.
Insomma, tra Marco che non capisce un cazzo, tra Ace che sembra avere il ciclo, Kidd e Killer che scappano per andare al mare, Law che opera in via eccezionale in ascensore e Penguin che fa il fantasma, beh, è un bel mattone da digerire.
Che dire, partiamo dai primi: Ace e Marco. sapete, volevo farli litigare per poi concludere con una riappacificazione, ma ho cambiato idea e voglio dare a Ace modo di sfogarsi ed essere incazzato perché ne ha tutto il diritto. Marco è pentito, gli dispiace davvero, non fa finta, e ha capito che prova qualcosa di bhufhuafjdukvhe per Ace, ma il ragazzo è ancora troppo scosso e non gli permetterà di rimediare, non subito almeno u.u
Law è incazzato come una belva dato che Kidd ha fatto una grandissima cazzata, ovvero ha tentato di andare al mare con Killer. Aveva un buon motivo, certo, ma immaginatevi la preoccupazione, awww ** basta, quei due si amano. Poi, ovviamente, bisognava pur fare pace, no?
Giustamente, niente può andare rose e fiori, quindi evvai, una complicazione e un blocco in ascensore. Riguardo a questo posso dirvi che mi ha ispirato una scena che ho visto seguendo il telefilm di Grey’s Anatomy, 2x05, se siete interessati ^^ avviene una cosa del genere e mi sembrava bello che fosse Law a stabilizzare Kidd prima dell’arrivo dei medici **
Che cosa romantica ;_____________;
ciao Penguin, non posso dimenticarti ;________;
Anyway, vi prometto che tornerò presto, davvero, e non ho intenzione di lasciarla incompleta, anche perché mancheranno si e no due capitoli ^^
Bene, per oggi è tutto e vi ringrazio immensamente per la pazienza e la fiducia!
Un abbraccio enorme e scusatemi ancora.
Ace.
  
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