III
PAROLE
Lucy: ”Come mai non chiudono le scuole per
l’anniversario di Beethoven? Se era così grande come mai non chiudono le
banche,gli uffici postali e le biblioteche?Come mai?”
Schroeder: ”Io conosco qualcosa che
non chiude veramente ma!”
Lucy: ”Che cos’è?”
Schroeder: ”La tua bocca!”
Il telefono,
impostato in modalità ‘silenzioso’, vibrava senza sosta nella tasca destra dei
suoi jeans, provocandole un senso di fastidio che non sapeva affatto spiegarsi.
Sentiva la
propria voce tradurre in tono piatto quello che, altrettanto noiosamente,
diceva in italiano un rinomato professore di fronte a una classe di annoiati
ragazzi americani. Essere una traduttrice di testi e interprete per ragazzi che
venivano in Europa con il principale pensiero di bere alcol pur non avendo
ventuno anni, era quanto di più frustrante potessi esserci al mondo.
Non appena il
professore si fermò per consultare la scaletta dove aveva appuntato gli
argomenti della lezione, colse la palla al balzo ed annunciò una breve pausa di
dieci minuti, sorridendo innocentemente al docente che la guardava in attesa di
una traduzione, non parlando una parola d’inglese e non capendo perché i suoi
studenti si stessero alzando come una mandria di bufali, scalpitando per uscire
all’aria aperta e staccare per qualche minuto da quella lezione che sembrava
non dovesse finire più.
Quando il
telefono riprese a vibrare, voltò le spalle all’uomo e seguì gli studenti
americani nel cortile dell’università, sfilando l’apparecchio dalla tasca e
rispondendo senza neppure controllare chi la stava chiamando.
“Che diavolo
c’è?” ringhiò all’altoparlante del cellulare.
“Un fiore, non
c’è che dire. L’inventore dei Peanuts
piangerebbe di gioia nel poter constatare che sei l’incarnazione vivente di Lucy.”
“Per prima cosa
Schulz è bello che defunto e poi sei tu che mi rompi a quest’ora quando sai che
sto lavorando...”
“Che c’entrano
le scarpe? Io sto parlando di Snoopy, non delle scarpe che si trovano nelle
sanitarie”.
“Quello è Scholl. Ma perché perdo tempo a
discutere con te? Che vuoi, Lollo?”
I minuti
passavano in fretta e lei non poteva permettersi che il docente per il quale
faceva l’interprete andasse a lamentarsi perché stava troppo tempo al telefono
durante l’orario di lavoro. Non che fosse successo molte altre volte, però
ultimamente, con la storia del trasferimento di Charlie, Beatrice aveva finito
per essere più insofferente del solito anche al lavoro e si era ritrovata più
d’una volta ad attendere con impazienza la pausa caffè della lezione per
potersi distrarre un po’.
“Sentire la mia
Lucy, cos’è, non posso? O hai da ridire perché non sono Charlie?”
Recentemente,
ogni parola che riservava per Charlie, era veleno allo stato puro. E spesso
Beatrice finiva per essere il bersaglio involontariamente preferito di quei
dardi scoccati con una precisione letale.
Il silenzio con
cui gli rispose la ragazza, gli fece capire che si era spinto troppo oltre.
“Bea…” non la
chiamava quasi mai per nome. “Senti, mi dispiace, ok? Non volevo fare il cretino,
ma a volte sembra che… non lo so neppure io. È che mi dispiace e lo so che ci
stai male e per questo mi dispiace ancora di più e … lascia perdere, a quanto
pare oggi faccio più schifo del solito con le parole. Magari se avessi fatto
l’attore…” S’interruppe prima di finire la frase, forse conscio del tono aspro
con cui aveva pronunciato quelle parole.
Bea si morse il
labbro inferiore per non lasciarsi sfuggire neppure un suono, combattuta
dall’impulso di rispondere a Lorenzo per le rime e la necessità di accasciarsi
al suolo, stringersi le ginocchia con le braccia e piangere fino a terminare le
lacrime.
Udì un sospiro e
lo immaginò passarsi la mano tra i capelli, gli occhi vispi improvvisamente
vigili e la bocca asciutta nella ricerca delle parole giuste da dirle.
“Direi che il
fatto che io sia un cretino è ormai appurato, no?” tentò di sdrammatizzare.
Ignorando la
tentazione di attaccargli il telefono in faccia, alzò distrattamente gli occhi
al cielo e mormorò un assenso, accompagnando il suo “Già” con un sorriso
rivolto alle nuvole.
Lorenzo,
evidentemente rincuorato, riprese a chiacchierare come se la conversazione
dell’ultimo minuto non fosse mai avvenuta. “Allora, fiorellino, si può sapere perché mi hai risposto tanto male al
telefono?”
“Perché, nonostante
tu sappia che a quest’ora io sono a lavoro, hai continuato a chiamarmi per
l’ultimo quarto d’ora e il cellulare non faceva che vibrarmi in tasca. Era
dannatamente fastidioso!” Sbottò incurante dei ragazzi stranieri che si erano
girati nella sua direzione per fissarla.
“Cosa ti ha dato
fastidio? Il fatto che ti abbia chiamata nell’orario di lavoro? O magari mi
sbaglio e non è questa la ragione del tuo turbamento ma il fatto che a vibrare
fosse il cellulare e non altro… o che abbia scoperto il tuo piccolo scabroso
segretuccio che custodivi gelosamente nel cassetto dei calzini?”
Beatrice sentì
le guance arrossarsi e, quasi temendo che gli altri potessero sentire quello
che il suo amico le aveva appena detto, premette maggiormente il telefono
contro il proprio orecchio. “Sei… sei… La gente normale non fruga nei cassetti
di altra gente!”
“Bugiarda. Tu
quando qualcuno ti invita a casa propria frughi sempre nei cassetti del bagno.
E nelle antine del mobiletto sopra il lavandino.”
Era tanto
imbarazzante quanto vero.
L’ultima volta
aveva addirittura fatto una foto del cassetto del bagno di casa di Linda, una
collega conosciuta all’università, e l’aveva inviata a Lorenzo, domandandogli
chi altro avesse dei cassetti del bagno tanto ordinati che per un momento si era
chiesta se in realtà Linda non avesse un armadio a muro nascosto dietro un
arazzo dove regnava il caos e il disordine perché lei proprio non riusciva a
capacitarsi di tanta perfezione nel cassetto del bagno, dannazione!
“D’accordo,
magari a volte…”
“Sempre”, la
corresse lui.
“E va bene, lo
faccio anch’io, ma non sono affari tuoi quello che tengo o che non tengo nei
miei cassetti.”
Per un attimo
temette che le avrebbe chiesto se fossero affari di Charlie, ma per fortuna
ebbe il buonsenso di starsene zitto, a respirare piano nel ricevitore del
telefono.
“Beh, in realtà
se vibrano sì. Dicevi sempre di essere contro gli aggeggi elettronici ed invece
eccoti qui, con un kindle, un telefono che non risale ai tempi della preistoria
e un vibratore”
“Vuoi stare
zitto?!” Urlò, nel tentativo di coprire la voce dell’amico, preoccupata che
qualcuno potesse sentire quella conversazione che la stava tanto imbarazzando.
“D’accordo,
taccio, ma solo perché probabilmente devi tornare a tradurre e poi voglio
vederti arrossire mentre ti sconvolgi tanto perché parliamo di una cosa normale
come il bisogno di soddisfare il proprio piacere. Ah, Lucy, Lucy…”
Beatrice attaccò
con le guance in fiamme.
Adesso sì che
rientrare in classe e fare finta di niente nonostante il viso accaldato, la
voce tremula e gli occhi velati dall’imbarazzo sarebbe stata una prova di
recitazione non da poco.
La prova del
nove era arrivata.
*
Era riuscita,
chissà come, ad arrivare incolume al termine della lezione e, quasi come una
matricola ancora non abituata agli orari universitari prolungati, si era
precipitata all’aria aperta, adducendo una patetica scusa con il docente con il
quale collaborava gomito a gomito ad ogni lezione.
Aveva avuto la
prova di avere una buona stella che vegliava su di lei quando non era stata
investita da nessun’auto in corsa perché, per quanto ne sapeva, non aveva mai
neppure controllato a destra ed a sinistra prima di attraversare la strada a
piedi, incosciente come a volte solo i pedoni sanno essere.
La strada per
casa non le era mai sembrata tanto lunga e, al tempo stesso, come nel più
banale dei paradossi, tanto breve.
Ebbe appena il tempo
di infilare la chiave nella toppa della serratura che sentì una voce chiamare
il suo nome.
“Bea?”
Il tono
carezzevole di Charlie le provocò uno spasmo all’altezza dello stomaco.
Non rispose, ma
posò le chiavi sul mobiletto d’ingresso, un’orribile cassettiera marrone che
quattro anni prima avevano pescato nell’angolo delle occasioni dell’Ikea come
mobile inaugurale del nuovo appartamento e di quella che, secondo loro, sarebbe
stata una nuova vita.
Da soli, da
adulti.
“Bea?” La nota
di domanda nella voce di Charlie si fece più insistente e Beatrice pensò che
sarebbe stato divertente restarsene lì, in silenzio, immobile, nel tentativo di
non farsi scoprire, in una specie di nascondino.
La testa di
Charlie fece capolino dal muro del corridoio, una zazzera scomposta di capelli
scuri su un’espressione ambigua.
Sembrava
arrabbiato, triste e preoccupato al tempo stesso.
“Perché non mi
hai risposto? Mi hai fatto spaventare…”
Sì, il dolce
Charlie si era preoccupato. Magari
era stato in pensiero per lei, chiedendosi se qualche malintenzionato le avesse
fatto del male o se le fosse accaduto qualcosa.
“Lo so che è un
momento difficile, ma spero tu sappia che non era mia intenzione dar via a
tutto questo pandemonio…”
Ed era triste: c’era forse qualcosa di più
dolce di un uomo che ammetteva i suoi errori?
“Cazzo, Bea, non ce la faccio più. Ho bisogno
di una cazzo di tregua, non posso andare avanti così ancora per molto! Cazzo…”
Ma non era arrabbiato:
era decisamente furioso.
“E tu poi te ne
stai fuori casa senza avvertire, mentre di solito avvisi se finite la lezione
così tardi che, cazzo!, non avevo idea di dove fossi!”
Se prima lei si
era quasi commossa dal suo essere preoccupato, triste e arrabbiato –no, non
arrabbiato: furioso-, ora sentiva
montare in lei la stessa furia che vedeva negli occhi del ragazzo.
Come diavolo si
permetteva di farle una scenata come quella?
“Certo che tu non avevi idea di dove io fossi, e
non vedo perché avrei dovuto dirtelo. Io non so di ogni tuo movimento e non mi
interessa neppure controllarti fino a tal punto. E non sei né mia madre, né il
mio ragazzo, quindi perché mai dovrei dirti tutto quello che faccio?”
“Perché siamo
amici!” l’urlo di Charlie le arrivò dritto al petto, facendola sobbalzare di
dolore.
Siamo amici…
…amici…
…amici…
“Stronzate! Gli
amici si dicono le cose a vicenda, non si comunicano le grandi notizie con un
sms. Non se vivono nello stesso appartamento da quattro fottutissimi anni. Non
se si vedono ogni stramaledettissimo giorno. Quindi non venire a raccontare a
me che siamo amici, Charlie. Sei una merda.” Ora che aveva rotto l’argine,
avrebbe potuto andare avanti per ore, se non giorni, a sputargli in faccia
quello che l’aveva ferita negli ultimi tempi, ma un discreto tossicchiare
distolse la sua attenzione dalla sfuriata e Beatrice e Charlie si ritrovarono a
fissare un insolitamente imbarazzato Lorenzo.
Conscia che il
nuovo arrivato non le avrebbe mai permetto di tirare troppo fango addosso a
Charlie per una questione di principio –“Audrey
non farebbe così” le era risuonato nelle orecchie talmente tante volte che
alla fine lo pensava anche da sola, senza supporti auditivi come la voce di
Lollo vicino al suo orecchio-, Beatrice tornò a rivolgere la sua attenzione a
Charlie e tentò di concludere il suo scoppio d’ira con una frase ad effetto.
“Sei una merda. Una
merdosissima merda”
Se ne andò nella
propria camera, sbattendo la porta dietro di sé e gettandosi di pancia sul
letto.
“Non c’è che
dire, Lucy, sei un vero fiorellino.
Mi diverto sempre a vederti su di giri: o dici cose sboccate o dici un sacco di
parolacce.”
“Non è proprio
il momento, Lo’…”
“Fosse per te
non arriverebbe mai, il momento. Però a volte arriva e se ne frega se sei
preparata o no. Se ne infischia se ti senti affogare in un sentimento che hai
difficoltà ad etichettare e di certo non si cura se sai o meno gestire le tue
emozioni!”
Beatrice lo
fissò da sopra il cuscino: era così che lui credeva che lei si sentisse per
Charlie? Confusa?
Non ebbe neppure il tempo di chiederglielo che
già aveva ripreso a chiacchierare, la voce sempre più forte ed il tono sempre
più concitato.
“Te ne stai lì,
ignara di tutto, presa solo dai tuoi problemi e non ti preoccupi di quello che
potrebbero provare gli altri. Vuoi
qualcosa? Combatti, per la miseria! Dici di voler essere trattata da adulta ma
ti comporti ancora come una ragazzina immatura!”
L’accusa che lui
le rivolgeva sempre da un po’ di tempo a quella parte: “Sei immatura”.
Beatrice rimase
immobile, in un silenzio quasi religioso: gli occhi velati di lacrime a
chiedersi se stesse ancora parlando di lei e domandandosi se non le fosse
sfuggito qualcosa.
Era abituata
alle battutine aspre di Lorenzo, ma non era abituata al timbro astioso che la
sua voce aveva preso nell’ultima frase, quasi lei gli avesse fatto un torto
personale ma non riconoscesse i suoi sbagli.
E poi quell’accusa
–immatura- che sembrava perseguitarla.
Si chiese perché
le parole avessero un tale potere su di lei, quasi fossero un’arma magica
dotata di un potere sovrannaturale capaci di stregarla, consolarla e ferirla
nel suo io più profondo. Lì dove era più vera e più vulnerabile. Quella parte
di sé che, inconsapevolmente, aveva iniziato a definire “Lucy” più che “Beatrice”.
NOTE
A volte
ritornano.
Capisco che
mi sono isolata per troppo tempo dalla tecnologia quando riapro il mio account
di Twitter e mi arriva il messaggio
di “bentornato”. Non me ne sono mai
andata, vorrei rispondere, ma in realtà è come se avessi messo tutto in
pausa. Beatrice, Lollo e Charlie per primi. Non lo ho
abbandonati, sono sempre lì, a farmi compagnia, solo che non ho mai tempo di
mettermi a scrivere la loro storia.
Ele_lele