Beati gli zombie, perché erediteranno la terra
Oggi ho ucciso una bambina. Era viva e voleva da
mangiare. Le ho
sfasciato il cranio con un’ascia. Poi abbiamo preso le sue
cose e messo il
corpo ad essiccare.
Posò
il mozzicone di matita sul
comodino in un gesto accurato ma meccanico, dettato più
dall’abitudine che da
una qualsivoglia consapevolezza, e se ne andò senza
guardarsi indietro,
lasciandosi alle spalle il proprio personale muro del pianto.
Avevano
iniziato a scrivere
perché Alessandro sosteneva tenere un diario fosse un modo
per rielaborare i
traumi forti e avevano continuato per contare i giorni; ultimamente era
diventato un mero automatismo: il futuro aveva perso ogni traccia di
speranza
salvifica e il suo fluire nel passato non conservava più
alcun significato.
Avevano imparato a guardare gli orrori di un mondo dove i morti
camminavano
sulla terra per cibarsi dei vivi senza imprimerli nello spirito ed era
da
quella parete una volta bianca, dai suoi nomi e dolori di grafite, che
avevano
cominciato a distogliere lo sguardo.
Gli
altri avevano smesso, ma
Ginevra non ne era stata capace, perché scrivere era sempre
stato parte di lei:
un istinto infantile, un horror vacui
che la spingeva a riempire innumerevoli fogli bianchi di parole. Una
volta
l’avrebbe chiamata passione, avrebbe sperato di nascosto che
fosse talento, ma,
percorrendo il lungo corridoio del secondo piano, seppe con
inalienabile
certezza non si trattasse d’altro che di grafomania. Non vi
erano talento né
passione nelle parole che aveva tracciato sul muro: erano scarne e
vuote, prive
di calore e di colore, la relazione fredda di un burocrate distaccato.
Aveva
provato a mentirsi, a dire
a se stessa di aver messo il proprio dolore in quei punti forti e
risolutivi,
ma non era vero: aveva solo steso un elenco, la lista della spesa delle
proprie
azioni ignobili, frasette spezzate, facili da pronunciare una dopo
l’altra nel
salire le scale; un punto fermo per ogni scalino impolverato,
un’affermazione
semplice per ogni straziante complessità.
Oggi ho ucciso una bambina. Una
dichiarazione sterile, monda del
sangue che si stava coagulando sul suo ultimo paio di pantaloni puliti;
breve e
silenziosa, una bugia volta a far sembrare rapido e indolore un atto
che aveva avuto
il disordine concitato della violenza ingiustificabile.
Era viva e voleva da mangiare.
Com’era piccola, meschina, quella
principale solitaria: nella sua sbrigativa distanza aveva perduto ogni
traccia
delle righe bianche che le lacrime avevano disegnato sulle gote sporche
di
quella creatura abbandonata; taceva dei suoi grandi occhi stanchi e
pieni di
paura; del grido roco che aveva lanciato nel vedere un altro essere
vivente;
delle mani lerce e ossute che aveva alzato, supplicante, verso di lei.
Avrebbe
dovuto scrivere di
questo, della bambina dai riccioli biondi incrostati di polvere e
sangue, non
dei loro atti da sciacalli antropofagi, ne era consapevole; la scomoda
e
dolorosa verità, tuttavia, era che non avrebbe saputo cosa
dire, che, forse, in
un mondo popolato da morti, a importare realmente non era che quel
laconico
“era viva”.
«A
cosa pensi?»
Non
si era accorta di Marta,
troppo assorta nelle proprie considerazioni per notarne la figura
accovacciata
sul pavimento, intenta a lavar via il sangue misto a fanghiglia che si
era
solidificato sul pavimento del pianerottolo. La
domanda, tipica di Marta, carica del suo
implacabile desiderio di essere d’appoggio e della sua
convinzione incrollabile
che le buone intenzioni le dessero il diritto di impicciarsi
dell’anima altrui,
infastidì Ginevra nel profondo.
«Al
trionfo della paratassi.»
Marta
si limitò a guardarla, un
velo opaco di incomprensione a ottunderle i piccoli occhi castani:
Ginevra
sapeva che non conosceva il significato della parola
“paratassi” ma non si
diede pena di spiegarglielo, consapevole che capire il senso del
termine non
avrebbe fatto altro che accentuare la sua incomprensione. Ginevra
stessa non
avrebbe saputo spiegare come una questione di linguistica potesse avere
la
benché minima importanza per dei rifugiati scoraggiati e
assediati dalla fine
del mondo, e a quel pensiero la sua irritazione svanì in una
stanchezza
confusa.
Abbandonò
le scale senza sapere se si stesse avvicinando alla sua migliore amica
o alle
tracce di sangue che sparivano nella camera 101. Marta interruppe il
suo
compito ingrato, sollevandosi, ma Ginevra non le prestò
attenzione, lo sguardo
imprigionato dalle lettere d’ottone incastonate nella porta
per l’inferno.
«Cosa
c’è
nella camera 101?»
L’interrogativo
le uscì dalle labbra inaspettato e flebile come il fantasma
di una vita passata,
mentre si domandava se la scelta di quella stanza fosse stata davvero
un caso o
se, nel suo umorismo a tratti macabro e di cattivo gusto, Andrea non
l’avesse
eletta appositamente a memento della loro umanità perduta.
Marta
la
scrutò con una preoccupazione fin troppo evidente, quasi
stesse cercando di misurare
la sua sanità mentale dalla profondità delle sue
occhiaie o dai lineamenti del
suo viso.
«Lo
sai
cosa c’è nella camera 101.»
Ginevra
rise, un riso amaro e rancoroso, perché sapeva che Marta non
avrebbe capito,
perché Andrea era morto e lei non avrebbe mai scoperto se
quella citazione
crudele fosse stata intenzionale o meno.
«Certo.
Lo sanno tutti. La cosa che
c’è nella camera
101 è la cosa peggiore del mondo[1].»
Per
Winston
Smith erano stati i ratti, per Ginevra era il cadavere nudo e appeso a
un
gancio di una bambina che aveva ucciso lei.
Avrebbe
dovuto spiegare tutto questo a Marta, provarle che non era impazzita o
lei lo
avrebbe raccontato a Sara, Sara lo avrebbe detto a Nicola e Nicola a
Federico,
e Ginevra ricordava fin troppo bene che fin dall’inizio
avevano preso
l’impietosa decisione di abbattere coloro che avessero dato
segni di follia.
Non riuscì a
costringersi ad aprire bocca; in
fondo non aveva modo di garantire, neppure a se stessa, di
non essere
impazzita. Non che le importasse particolarmente; da quando aveva
guardato
impotente un branco di zombie sbranare Massimiliano tutto le sembrava
ovattato
e stupido: non provava più nulla se non un risentimento
cancrenoso verso un Dio a
cui poteva perdonare di aver mantenuto con ironico sadismo la propria
promessa
di resurrezione dei morti, ma non di aver ucciso Massimiliano ad appena
cinquanta metri dalla salvezza.
«Ginevra,
sei sicura di stare bene?»
Scosse
la
testa, lasciandosi andare a un sogghigno stanco, guardò
Marta negli occhi e si
domandò dove trovasse ancora la forza di giocare a fare la
madre di tutti.
«No.
Perché, tu riesci a ricordare l’ultima volta in
cui sei stata bene?»
Non era stata sua intenzione
palesare tanto
disprezzo nel porre la domanda, non era colpa di Marta se in quei due
lunghi
anni Ginevra aveva smesso di amarla poco a poco, eppure non
riuscì a pentirsene
così come non era riuscita a rammaricarsi per la
disaffezione che provava ormai
per tutti i suoi amici.
Le diede le spalle
lasciandola svanire dietro
di sé, cristallizzata nel pulire senza posa una macchia che
non se ne sarebbe
mai andata, e riprese a salire la scale.
Avanzò,
uno stanco passo dopo l’altro, pianerottolo dopo
pianerottolo, in un succedersi
identico a se stesso di corridoi e stanze
d’albergo, senza guardare davvero né
gli scalini impolverati né le pareti macchiate di sangue e
crivellate di
proiettili.
Fra
il
quarto e il quinto piano il parquet era più rovinato che in
qualsiasi altro
punto del palazzo, squarciato e trafitto da tre raffiche incontrollate
di
kalashnikov e, per quando si sforzasse ogni volta di farlo, Ginevra non
era mai
riuscita a superarlo senza fermarsi per un istante a guardare quella
ferita insanabile
nel pavimento e nella propria moralità. Si
domandò cosa sarebbe successo se non
avesse sostenuto Sara, aiutandola a sopportare il rinculo e
costringendola a
continuare a sparare contro tutto e tutti: forse sarebbero morte
entrambe e
Ginevra non si sarebbe trovata a scivolare sempre più
rapidamente lungo il
baratro scosceso della bestialità.
Quando
alzò gli occhi Sara era lì, magra e silenziosa
come un’accusa, e Ginevra si
trovò a pensare che era ancora bella, nonostante lo sporco
le avesse arruffato
i capelli e l’ora del giudizio le avesse spezzato le unghie.
Era ingiusto,
naturalmente, che lei fosse ancora piacevole da guardare, che i suoi
pori non
si fossero riempiti di sudiciume e polvere, ma Ginevra non
trovò la forza per
esserne irritata; una volta era stata costantemente arrabbiata per le
cose che
Sara aveva più di lei senza neppure rendersene conto,
perché era stata più
bella, più ricca, più amata; ora non riusciva a
vedere come potesse esserle
importato tanto: la fine dei tempi era arrivata e
l’ingiustizia ne era
l’implacabile dominatrice.
Oltrepassò
Sara in silenzio, poiché era da molto tempo che non aveva
più niente da dirle.
Non
aveva
più niente da dire a nessuno, più niente da fare
in nessun posto, ma salì
l’ultima rampa di scale comunque, aprendo la porta finestra
che dava sulla
grande terrazza con un gesto secco e deciso, uscendo
dall’edificio come se
questo bastasse a permetterle la fuga da un incubo durato troppo a
lungo.
L’aria
era calda, umida e ferma, quasi l’ultimo refolo di vento
fosse soffiato quando
ancora i cadaveri marcivano in silenzio nelle proprie bare, senza
accalcarsi in
putrefazione lungo le strade, e Ginevra avanzò verso il
parapetto domandandosi
perché il sole dovesse sembrare sempre così opaco
e squallido dietro il
pulviscolo sollevato dalle bombe nucleari.
Annegata
in quella luce spenta, ogni cosa sembrava morta: i fiori della
terrazza, le
patate piantate quando avevano conquistato l’albergo, il
cielo deserto di uccelli,
la speranza e l’anima di Ginevra.
«Ricordami
come abbiamo fatto a sopravvivere.»
Nicola
non
rispose immediatamente, forse perché rimasto per una volta a
corto di arguzie
sarcastiche, forse perché conoscevano entrambi la risposta e
sapevano che
Ginevra non desiderava udirla davvero
«Eravamo
preparati.»
Era
vero
naturalmente. Nel panico e nel disordine, nella confusione concitata
del crollo
della civiltà loro erano stati pronti, storditi ma decisi
nel seguire senza
pensare il piano sanguinolento e ben congeniato che avevano messo a
punto un
venerdì sera dopo l’altro in un susseguirsi
apparentemente infinito di
discussioni nerd ai limiti dell’ossessivo.
“Come sopravvivere a
un’apocalisse zombie?”
era una domanda che avevano fatto rimbalzare spesso, fra birra e panini
caldi,
discutendo degli errori sciocchi dei protagonisti dei film di Romero o
del
gruppo di Walking Dead. Avevano soppesato ogni dettaglio: dal rifugio
alle
armi, dai compagni allo zaino da avere sempre pronto che Ginevra e
Massimiliano
avevano piazzato ridendo in una bacheca del proprio salotto.
“Rompere in caso di zombie”
recitava l’etichetta,
uno scherzo allegro, un omaggio alla mania di Ginevra che nessuno aveva
mai
immaginato avrebbe fatto la differenza fra la vita e la morte.
«E
allora
perché è andato tutto storto?»
Ginevra
sapeva cosa le avrebbe risposto e si pentì di aver posto la
domanda. Non voleva
guardare verso la strada ma lo fece comunque: gli zombie arrancavano
goffamente,
mai stanchi e mai lontani, e a Ginevra parve adeguato dover ascoltare
le più
terribili delle parole osservandoli brancolare fra i resti di quello
che un
tempo avevano amato.
«È
la
vita: l’amore finisce, la gente muore e gli zombie ereditano
la terra.»
Rise,
perché Nicola faceva sempre sembrare tutto prosaico, grigio,
privo di
sentimento: quasi non fossero stati i suoi affetti ad essere finiti, i
suoi amici
ad essere stati uccisi, la sua terra ad essere divenuta dominio degli
zombie.
Era un aspetto di lui che l’aveva sempre turbata, ferita e
disgustata insieme,
eppure, confrontando il tono piatto di quell’affermazione con
la sofferenza
ovattata e sorda che provava da mesi, Ginevra si trovò, non
per la prima volta,
a domandarsi se non fosse divenuta simile a Nicola più di
quanto desiderasse
ammettere. La
giovane donna che adorava
l’odore dei libri nuovi e le matite ben temperate, che aveva
scrupoli nei confronti
delle formiche e ondate di rimpianto per i fiori recisi, non avrebbe
potuto restare
immobile in una sera di maggio con i pantaloni e la coscienza sporchi
di sangue
senza piangere, gridare e desiderare la morte.
Ginevra
non faceva nessuna di quelle cose da oltre un anno, dalla mattina
ventosa e
grigia in cui Massimiliano si era visto tagliare la strada da venti
zombie
spuntati dal vicolo a pochi passi dal portone; ne aveva uccisi alcuni,
perché
era forte e sapeva usare davvero la spada che brandiva, ma ancora prima
che
accadesse, guardando la scena dall’alto della terrazza,
Ginevra aveva saputo
che sarebbe stato sopraffatto e vinto. Aveva provato a sparare e, in
quel
momento, immobile nello stesso punto di allora, le parve di sentire di
nuovo
l’eco secco dei propri colpi goffi e privi di mira, il suono
strozzato della
propria inutile invocazione, il tono duro con cui Nicola le aveva
ordinato di
non sprecare munizioni, il tocco caldo e crudele delle sue mani quando
le aveva
strappato il fucile.
«Non
mi
hai mai perdonato, vero?»
La
sua
voce era tale da lasciarle intendere fosse abbastanza vicino da portela
afferrare con facilità, soffocandola con il braccio come
aveva iniziato a fare
quel giorno, quando lei si era rifiutata di ascoltare.
«Mai.»
Una
replica facile e sincera, tuttavia Ginevra sapeva che per essere onesta
sino in
fondo avrebbe dovuto ammettere di non portagli nemmeno rancore:
assoluzione e
livore erano entrambi stati dello spirito troppo complessi per il corpo
dedito
alla mera sopravvivenza che era diventata.
«È
per
questo che mi hai ucciso?»
C’era
qualcosa di vagamente retorico nella domanda, un retrogusto sarcastico
incapace
di nascondere del tutto la serietà
dell’interrogativo che la costrinse a
voltarsi e ad affrontare il viso equino e pallido di Nicola, il
luccichio
salace e distante dei suoi occhi marroni.
«No.»
La
risposta suonò distaccata e piatta al punto che Ginevra fece
fatica a
riconoscere la voce come propria. Nicola non replicò; rimase
a guardarla in
silenzio, sul volto la stessa espressione decisa e affatto combattuta
con cui
l’aveva scrutata fuori dalla farmacia quando avevano sentito
i primi rumori
provenire dal palazzo antistante. Ginevra ricordava di non essere
rimasta
neppure troppo delusa quando all’apparire del primo zombie
lui l’aveva spinta
via per correre verso il rifugio, atletico e troppo veloce, gli
antibiotici per
Sara stretti fermamente nella mano sinistra.
«No.
Ti
ho sparato solo perché non volevo essere io a
morire.»
Una
raffica di mitraglia verso la sua schiena in allontanamento e Ginevra
era stata
in grado di raggiungerlo e superarlo, lasciandoselo alle spalle
perché venisse
sbranato dagli zombie e le facesse guadagnare tempo; gli antibiotici
dimenticati e abbandonati sull’asfalto.
«Non
sono
pentita.»
Nicola
emise uno sbuffo irridente, la parodia di una risata allegra fatta alle
spalle
di qualcuno, un gesto familiare eppure talmente fuori posto da farle
digrignare
i denti.
«Ed
è per
questo che sono qui? Perché non sei né pentita
né tormentata dal fatto di
avermi assassinato?»
Ginevra
gli si scagliò contro con la frustrazione disperata della
rabbia assoluta e
cadde in avanti senza che la figura distaccata e falsa di Nicola
potesse
fermare la sua caduta. Sbatté la testa contro il duro
granito della terrazza e
annaspò per un istante, soffocata
dall’inconsistenza delle proprie menzogne;
dalla vacuità che gli affetti avevano dimostrato dinnanzi
alla prova; dalla
meschinità del proprio autoinganno morale; da
quell’ultima, articolata
illusione che erano i fantasmi delle persone che aveva creduto di amare.
Sentì
un
sapore dolciastro e nauseante in bocca e si accorse di essersi morsa la
lingua,
sputò sangue e alzò gli occhi abbracciando la
propria lucida solitudine: in
terrazza non c’era nessuno.
Corse
via.
La
porta
sbatté rumorosamente alla sue spalle e, mentre il rumore
echeggiava nel
corridoio come l’urlo a cui non aveva avuto coraggio di
abbandonarsi, Ginevra
scese precipitosamente le scale. Superò il parquet divelto
dalle pallottole fra
il quarto e il quinto piano e la stanza dove Sara era agonizzata per
colpa sua
e degli antibiotici che non si era fermata a raccogliere. Si
domandò se avesse
smesso di amarla perché l’aveva uccisa o se
l’avesse uccisa perché non l’aveva
mai amata, ma non trovò il tempo di darsi alcuna risposta
mentre inciampava,
ruzzolando impietosamente sugli scalini, fino a crollare a terra nel
corridoio
sporco di sangue rappreso che Marta non stava pulendo, che non avrebbe
potuto
pulire, poiché anche il suo corpo era appeso a un gancio
nella camera 101.
Avrebbe
pianto se ne avesse avuto il tempo, ma temeva che quel momento di
consapevolezza nitida sarebbe passato e così
scappò verso la propria stanza,
chiudendosi la porte alle spalle come se quel gesto futile bastasse a
chiudere
fuori la follia che la inseguiva per reinghiottirla.
Afferrò
la matita con la determinazione secca con cui un guerriero estrae la
spada per
combattere la propria ultima battaglia.
Sono sola: sola in questo palazzo, sola in
questo quartiere, forse sola in questa città e nel mondo
intero: ultimo essere
umano che nuota controcorrente in questo fiume di lacrime; ultima mano
a
reggere una matita, ogni parola sull’orlo di essere
l’ultima della storia.
Anche se ci fosse qualcun altro, comunque,
non avrebbe importanza: la più dura guerra di successione di
tutti i tempi è
stata combattuta e l’umanità l’ha persa
irrimediabilmente. Non saremo noi
superstiti gli eredi della terra: i miti, cui era stata promessa
dall’alto di
una montagna, sono diventati tutti zombie, nonostante o forse proprio a
causa
della loro mitezza, e noi che abbiamo ucciso, abbandonato e tradito non
meritiamo altro lascito che la morte cruenta che ci attende.
I miei amici sono morti, alcuni per mano
mia, altri per causa mia e io l’avevo dimenticato. Forse
è questo quello che
succede quando veniamo messi alla prova in tutto ciò che ci
rende umani e
falliamo; forse l’apocalisse merita il mondo e il mondo
merita l’apocalisse. Se
sono io l’ultimo uomo sulla terra, cosa dice questo della
razza umana?
Non
rilesse quello che aveva scritto, lasciando che il periodare fosse
erratico,
contorto e contraddittorio come i suoi pensieri.
Non so dire perché stia scrivendo queste
parole, se siano testimonianza, lamento o confessione; forse,
nonostante tutto,
nonostante sappia che tutte le brutture dell’animo umano
erano anche allora in
agguato, questo muro intriso di cattiva grafia non è che la
mia personale
dichiarazione d’amore per il passato: per prima
dell’apocalisse, prima che
diventassimo tutti zombie.
Strinse la matita nel
pugno
per un momento, poi la gettò con decisione oltre la finestra
aperta.
[1] Ovviamente questa frase non è mia, ma è una citazione di 1984.
Note dell'autrice:
Che dire? Questa storia non mi piace. Guardo a lei con lo stesso sentimento sconfitto con cui si affronta un dolce al quale si è lavorato tanto ma che non è lievitato. La pubblico perchè l'ho spedita al "Contest Lettario Bookshelf" e l'ho sepedita perchè ormai l'avevo scritta.
Ho tentato e credo di aver fallito. Alcune persone reali della mia vita potrebbero riconoscersi nella storia, ma per fortuna non la leggeranno mai. Nel caso invece foste qui amici miei, vi prego, non odiatemi: quelli non siete davvero voi e quella non sono davvero io, ho solo completamente perso il controllo di quello che volevo dire (vi voglio bene!!).