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Autore: Entreri    26/05/2014    5 recensioni
Un'apocalisse zombie ci mette alla prova in tutto quello che ci rende umani: cosa succede quando falliamo?
Prima classificata al "Contest lettario Bookshelf"
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Beati gli zombie, perché erediteranno la terra

Oggi ho ucciso una bambina. Era viva e voleva da mangiare. Le ho sfasciato il cranio con un’ascia. Poi abbiamo preso le sue cose e messo il corpo ad essiccare.

Posò il mozzicone di matita sul comodino in un gesto accurato ma meccanico, dettato più dall’abitudine che da una qualsivoglia consapevolezza, e se ne andò senza guardarsi indietro, lasciandosi alle spalle il proprio personale muro del pianto.

Avevano iniziato a scrivere perché Alessandro sosteneva tenere un diario fosse un modo per rielaborare i traumi forti e avevano continuato per contare i giorni; ultimamente era diventato un mero automatismo: il futuro aveva perso ogni traccia di speranza salvifica e il suo fluire nel passato non conservava più alcun significato. Avevano imparato a guardare gli orrori di un mondo dove i morti camminavano sulla terra per cibarsi dei vivi senza imprimerli nello spirito ed era da quella parete una volta bianca, dai suoi nomi e dolori di grafite, che avevano cominciato a distogliere lo sguardo.

Gli altri avevano smesso, ma Ginevra non ne era stata capace, perché scrivere era sempre stato parte di lei: un istinto infantile, un horror vacui che la spingeva a riempire innumerevoli fogli bianchi di parole. Una volta l’avrebbe chiamata passione, avrebbe sperato di nascosto che fosse talento, ma, percorrendo il lungo corridoio del secondo piano, seppe con inalienabile certezza non si trattasse d’altro che di grafomania. Non vi erano talento né passione nelle parole che aveva tracciato sul muro: erano scarne e vuote, prive di calore e di colore, la relazione fredda di un burocrate distaccato.

Aveva provato a mentirsi, a dire a se stessa di aver messo il proprio dolore in quei punti forti e risolutivi, ma non era vero: aveva solo steso un elenco, la lista della spesa delle proprie azioni ignobili, frasette spezzate, facili da pronunciare una dopo l’altra nel salire le scale; un punto fermo per ogni scalino impolverato, un’affermazione semplice per ogni straziante complessità.

Oggi ho ucciso una bambina. Una dichiarazione sterile, monda del sangue che si stava coagulando sul suo ultimo paio di pantaloni puliti; breve e silenziosa, una bugia volta a far sembrare rapido e indolore un atto che aveva avuto il disordine concitato della violenza ingiustificabile.

Era viva e voleva da mangiare. Com’era piccola, meschina, quella principale solitaria: nella sua sbrigativa distanza aveva perduto ogni traccia delle righe bianche che le lacrime avevano disegnato sulle gote sporche di quella creatura abbandonata; taceva dei suoi grandi occhi stanchi e pieni di paura; del grido roco che aveva lanciato nel vedere un altro essere vivente; delle mani lerce e ossute che aveva alzato, supplicante, verso di lei.

Avrebbe dovuto scrivere di questo, della bambina dai riccioli biondi incrostati di polvere e sangue, non dei loro atti da sciacalli antropofagi, ne era consapevole; la scomoda e dolorosa verità, tuttavia, era che non avrebbe saputo cosa dire, che, forse, in un mondo popolato da morti, a importare realmente non era che quel laconico “era viva”.

«A cosa pensi?»

Non si era accorta di Marta, troppo assorta nelle proprie considerazioni per notarne la figura accovacciata sul pavimento, intenta a lavar via il sangue misto a fanghiglia che si era solidificato sul pavimento del pianerottolo.  La domanda, tipica di Marta, carica del suo implacabile desiderio di essere d’appoggio e della sua convinzione incrollabile che le buone intenzioni le dessero il diritto di impicciarsi dell’anima altrui, infastidì Ginevra nel profondo.

«Al trionfo della paratassi.»

Marta si limitò a guardarla, un velo opaco di incomprensione a ottunderle i piccoli occhi castani: Ginevra sapeva che non conosceva il significato della parola “paratassi” ma non si diede pena di spiegarglielo, consapevole che capire il senso del termine non avrebbe fatto altro che accentuare la sua incomprensione. Ginevra stessa non avrebbe saputo spiegare come una questione di linguistica potesse avere la benché minima importanza per dei rifugiati scoraggiati e assediati dalla fine del mondo, e a quel pensiero la sua irritazione svanì in una stanchezza confusa.

Abbandonò le scale senza sapere se si stesse avvicinando alla sua migliore amica o alle tracce di sangue che sparivano nella camera 101. Marta interruppe il suo compito ingrato, sollevandosi, ma Ginevra non le prestò attenzione, lo sguardo imprigionato dalle lettere d’ottone incastonate nella porta per l’inferno.

«Cosa c’è nella camera 101?»

L’interrogativo le uscì dalle labbra inaspettato e flebile come il fantasma di una vita passata, mentre si domandava se la scelta di quella stanza fosse stata davvero un caso o se, nel suo umorismo a tratti macabro e di cattivo gusto, Andrea non l’avesse eletta appositamente a memento della loro umanità perduta.

Marta la scrutò con una preoccupazione fin troppo evidente, quasi stesse cercando di misurare la sua sanità mentale dalla profondità delle sue occhiaie o dai lineamenti del suo viso.

«Lo sai cosa c’è nella camera 101.»

Ginevra rise, un riso amaro e rancoroso, perché sapeva che Marta non avrebbe capito, perché Andrea era morto e lei non avrebbe mai scoperto se quella citazione crudele fosse stata intenzionale o meno.

«Certo. Lo sanno tutti. La cosa che c’è nella camera 101 è la cosa peggiore del mondo[1]

Per Winston Smith erano stati i ratti, per Ginevra era il cadavere nudo e appeso a un gancio di una bambina che aveva ucciso lei.

Avrebbe dovuto spiegare tutto questo a Marta, provarle che non era impazzita o lei lo avrebbe raccontato a Sara, Sara lo avrebbe detto a Nicola e Nicola a Federico, e Ginevra ricordava fin troppo bene che fin dall’inizio avevano preso l’impietosa decisione di abbattere coloro che avessero dato segni di follia.

 Non riuscì a costringersi ad aprire bocca; in fondo non aveva modo di garantire, neppure a se stessa, di non essere impazzita. Non che le importasse particolarmente; da quando aveva guardato impotente un branco di zombie sbranare Massimiliano tutto le sembrava ovattato e stupido: non provava più nulla se non un risentimento cancrenoso verso un Dio a cui poteva perdonare di aver mantenuto con ironico sadismo la propria promessa di resurrezione dei morti, ma non di aver ucciso Massimiliano ad appena cinquanta metri dalla salvezza. 

«Ginevra, sei sicura di stare bene?»

Scosse la testa, lasciandosi andare a un sogghigno stanco, guardò Marta negli occhi e si domandò dove trovasse ancora la forza di giocare a fare la madre di tutti.

«No. Perché, tu riesci a ricordare l’ultima volta in cui sei stata bene?»

 Non era stata sua intenzione palesare tanto disprezzo nel porre la domanda, non era colpa di Marta se in quei due lunghi anni Ginevra aveva smesso di amarla poco a poco, eppure non riuscì a pentirsene così come non era riuscita a rammaricarsi per la disaffezione che provava ormai per tutti i suoi amici.

 Le diede le spalle lasciandola svanire dietro di sé, cristallizzata nel pulire senza posa una macchia che non se ne sarebbe mai andata, e riprese a salire la scale.

Avanzò, uno stanco passo dopo l’altro, pianerottolo dopo pianerottolo, in un succedersi identico a se stesso di corridoi e stanze d’albergo, senza guardare davvero né gli scalini impolverati né le pareti macchiate di sangue e crivellate di proiettili.

Fra il quarto e il quinto piano il parquet era più rovinato che in qualsiasi altro punto del palazzo, squarciato e trafitto da tre raffiche incontrollate di kalashnikov e, per quando si sforzasse ogni volta di farlo, Ginevra non era mai riuscita a superarlo senza fermarsi per un istante a guardare quella ferita insanabile nel pavimento e nella propria moralità. Si domandò cosa sarebbe successo se non avesse sostenuto Sara, aiutandola a sopportare il rinculo e costringendola a continuare a sparare contro tutto e tutti: forse sarebbero morte entrambe e Ginevra non si sarebbe trovata a scivolare sempre più rapidamente lungo il baratro scosceso della bestialità.

Quando alzò gli occhi Sara era lì, magra e silenziosa come un’accusa, e Ginevra si trovò a pensare che era ancora bella, nonostante lo sporco le avesse arruffato i capelli e l’ora del giudizio le avesse spezzato le unghie. Era ingiusto, naturalmente, che lei fosse ancora piacevole da guardare, che i suoi pori non si fossero riempiti di sudiciume e polvere, ma Ginevra non trovò la forza per esserne irritata; una volta era stata costantemente arrabbiata per le cose che Sara aveva più di lei senza neppure rendersene conto, perché era stata più bella, più ricca, più amata; ora non riusciva a vedere come potesse esserle importato tanto: la fine dei tempi era arrivata e l’ingiustizia ne era l’implacabile dominatrice.

Oltrepassò Sara in silenzio, poiché era da molto tempo che non aveva più niente da dirle.

Non aveva più niente da dire a nessuno, più niente da fare in nessun posto, ma salì l’ultima rampa di scale comunque, aprendo la porta finestra che dava sulla grande terrazza con un gesto secco e deciso, uscendo dall’edificio come se questo bastasse a permetterle la fuga da un incubo durato troppo a lungo.

L’aria era calda, umida e ferma, quasi l’ultimo refolo di vento fosse soffiato quando ancora i cadaveri marcivano in silenzio nelle proprie bare, senza accalcarsi in putrefazione lungo le strade, e Ginevra avanzò verso il parapetto domandandosi perché il sole dovesse sembrare sempre così opaco e squallido dietro il pulviscolo sollevato dalle bombe nucleari.

Annegata in quella luce spenta, ogni cosa sembrava morta: i fiori della terrazza, le patate piantate quando avevano conquistato l’albergo, il cielo deserto di uccelli, la speranza e l’anima di Ginevra.

«Ricordami come abbiamo fatto a sopravvivere.»

Nicola non rispose immediatamente, forse perché rimasto per una volta a corto di arguzie sarcastiche, forse perché conoscevano entrambi la risposta e sapevano che Ginevra non desiderava udirla davvero

«Eravamo preparati.»

Era vero naturalmente. Nel panico e nel disordine, nella confusione concitata del crollo della civiltà loro erano stati pronti, storditi ma decisi nel seguire senza pensare il piano sanguinolento e ben congeniato che avevano messo a punto un venerdì sera dopo l’altro in un susseguirsi apparentemente infinito di discussioni nerd ai limiti dell’ossessivo.

“Come sopravvivere a un’apocalisse zombie?” era una domanda che avevano fatto rimbalzare spesso, fra birra e panini caldi, discutendo degli errori sciocchi dei protagonisti dei film di Romero o del gruppo di Walking Dead. Avevano soppesato ogni dettaglio: dal rifugio alle armi, dai compagni allo zaino da avere sempre pronto che Ginevra e Massimiliano avevano piazzato ridendo in una bacheca del proprio salotto.

“Rompere in caso di zombie” recitava l’etichetta, uno scherzo allegro, un omaggio alla mania di Ginevra che nessuno aveva mai immaginato avrebbe fatto la differenza fra la vita e la morte.

«E allora perché è andato tutto storto?»

Ginevra sapeva cosa le avrebbe risposto e si pentì di aver posto la domanda. Non voleva guardare verso la strada ma lo fece comunque: gli zombie arrancavano goffamente, mai stanchi e mai lontani, e a Ginevra parve adeguato dover ascoltare le più terribili delle parole osservandoli brancolare fra i resti di quello che un tempo avevano amato.

«È la vita: l’amore finisce, la gente muore e gli zombie ereditano la terra.»

Rise, perché Nicola faceva sempre sembrare tutto prosaico, grigio, privo di sentimento: quasi non fossero stati i suoi affetti ad essere finiti, i suoi amici ad essere stati uccisi, la sua terra ad essere divenuta dominio degli zombie. Era un aspetto di lui che l’aveva sempre turbata, ferita e disgustata insieme, eppure, confrontando il tono piatto di quell’affermazione con la sofferenza ovattata e sorda che provava da mesi, Ginevra si trovò, non per la prima volta, a domandarsi se non fosse divenuta simile a Nicola più di quanto desiderasse ammettere.  La giovane donna che adorava l’odore dei libri nuovi e le matite ben temperate, che aveva scrupoli nei confronti delle formiche e ondate di rimpianto per i fiori recisi, non avrebbe potuto restare immobile in una sera di maggio con i pantaloni e la coscienza sporchi di sangue senza piangere, gridare e desiderare la morte.

Ginevra non faceva nessuna di quelle cose da oltre un anno, dalla mattina ventosa e grigia in cui Massimiliano si era visto tagliare la strada da venti zombie spuntati dal vicolo a pochi passi dal portone; ne aveva uccisi alcuni, perché era forte e sapeva usare davvero la spada che brandiva, ma ancora prima che accadesse, guardando la scena dall’alto della terrazza, Ginevra aveva saputo che sarebbe stato sopraffatto e vinto. Aveva provato a sparare e, in quel momento, immobile nello stesso punto di allora, le parve di sentire di nuovo l’eco secco dei propri colpi goffi e privi di mira, il suono strozzato della propria inutile invocazione, il tono duro con cui Nicola le aveva ordinato di non sprecare munizioni, il tocco caldo e crudele delle sue mani quando le aveva strappato il fucile.

«Non mi hai mai perdonato, vero?»

La sua voce era tale da lasciarle intendere fosse abbastanza vicino da portela afferrare con facilità, soffocandola con il braccio come aveva iniziato a fare quel giorno, quando lei si era rifiutata di ascoltare.

«Mai.»

Una replica facile e sincera, tuttavia Ginevra sapeva che per essere onesta sino in fondo avrebbe dovuto ammettere di non portagli nemmeno rancore: assoluzione e livore erano entrambi stati dello spirito troppo complessi per il corpo dedito alla mera sopravvivenza che era diventata.

«È per questo che mi hai ucciso?»

C’era qualcosa di vagamente retorico nella domanda, un retrogusto sarcastico incapace di nascondere del tutto la serietà dell’interrogativo che la costrinse a voltarsi e ad affrontare il viso equino e pallido di Nicola, il luccichio salace e distante dei suoi occhi marroni.

«No.»

La risposta suonò distaccata e piatta al punto che Ginevra fece fatica a riconoscere la voce come propria. Nicola non replicò; rimase a guardarla in silenzio, sul volto la stessa espressione decisa e affatto combattuta con cui l’aveva scrutata fuori dalla farmacia quando avevano sentito i primi rumori provenire dal palazzo antistante. Ginevra ricordava di non essere rimasta neppure troppo delusa quando all’apparire del primo zombie lui l’aveva spinta via per correre verso il rifugio, atletico e troppo veloce, gli antibiotici per Sara stretti fermamente nella mano sinistra.

«No. Ti ho sparato solo perché non volevo essere io a morire.»

Una raffica di mitraglia verso la sua schiena in allontanamento e Ginevra era stata in grado di raggiungerlo e superarlo, lasciandoselo alle spalle perché venisse sbranato dagli zombie e le facesse guadagnare tempo; gli antibiotici dimenticati e abbandonati sull’asfalto.

«Non sono pentita.»

Nicola emise uno sbuffo irridente, la parodia di una risata allegra fatta alle spalle di qualcuno, un gesto familiare eppure talmente fuori posto da farle digrignare i denti.

«Ed è per questo che sono qui? Perché non sei né pentita né tormentata dal fatto di avermi assassinato?»

Ginevra gli si scagliò contro con la frustrazione disperata della rabbia assoluta e cadde in avanti senza che la figura distaccata e falsa di Nicola potesse fermare la sua caduta. Sbatté la testa contro il duro granito della terrazza e annaspò per un istante, soffocata dall’inconsistenza delle proprie menzogne; dalla vacuità che gli affetti avevano dimostrato dinnanzi alla prova; dalla meschinità del proprio autoinganno morale; da quell’ultima, articolata illusione che erano i fantasmi delle persone che aveva creduto di amare.

Sentì un sapore dolciastro e nauseante in bocca e si accorse di essersi morsa la lingua, sputò sangue e alzò gli occhi abbracciando la propria lucida solitudine: in terrazza non c’era nessuno.

Corse via.

La porta sbatté rumorosamente alla sue spalle e, mentre il rumore echeggiava nel corridoio come l’urlo a cui non aveva avuto coraggio di abbandonarsi, Ginevra scese precipitosamente le scale. Superò il parquet divelto dalle pallottole fra il quarto e il quinto piano e la stanza dove Sara era agonizzata per colpa sua e degli antibiotici che non si era fermata a raccogliere. Si domandò se avesse smesso di amarla perché l’aveva uccisa o se l’avesse uccisa perché non l’aveva mai amata, ma non trovò il tempo di darsi alcuna risposta mentre inciampava, ruzzolando impietosamente sugli scalini, fino a crollare a terra nel corridoio sporco di sangue rappreso che Marta non stava pulendo, che non avrebbe potuto pulire, poiché anche il suo corpo era appeso a un gancio nella camera 101.

Avrebbe pianto se ne avesse avuto il tempo, ma temeva che quel momento di consapevolezza nitida sarebbe passato e così scappò verso la propria stanza, chiudendosi la porte alle spalle come se quel gesto futile bastasse a chiudere fuori la follia che la inseguiva per reinghiottirla.

Afferrò la matita con la determinazione secca con cui un guerriero estrae la spada per combattere la propria ultima battaglia.

Sono sola: sola in questo palazzo, sola in questo quartiere, forse sola in questa città e nel mondo intero: ultimo essere umano che nuota controcorrente in questo fiume di lacrime; ultima mano a reggere una matita, ogni parola sull’orlo di essere l’ultima della storia.

Anche se ci fosse qualcun altro, comunque, non avrebbe importanza: la più dura guerra di successione di tutti i tempi è stata combattuta e l’umanità l’ha persa irrimediabilmente. Non saremo noi superstiti gli eredi della terra: i miti, cui era stata promessa dall’alto di una montagna, sono diventati tutti zombie, nonostante o forse proprio a causa della loro mitezza, e noi che abbiamo ucciso, abbandonato e tradito non meritiamo altro lascito che la morte cruenta che ci attende.

I miei amici sono morti, alcuni per mano mia, altri per causa mia e io l’avevo dimenticato. Forse è questo quello che succede quando veniamo messi alla prova in tutto ciò che ci rende umani e falliamo; forse l’apocalisse merita il mondo e il mondo merita l’apocalisse. Se sono io l’ultimo uomo sulla terra, cosa dice questo della razza umana?

Non rilesse quello che aveva scritto, lasciando che il periodare fosse erratico, contorto e contraddittorio come i suoi pensieri.

Non so dire perché stia scrivendo queste parole, se siano testimonianza, lamento o confessione; forse, nonostante tutto, nonostante sappia che tutte le brutture dell’animo umano erano anche allora in agguato, questo muro intriso di cattiva grafia non è che la mia personale dichiarazione d’amore per il passato: per prima dell’apocalisse, prima che diventassimo tutti zombie.

Strinse la matita nel pugno per un momento, poi la gettò con decisione oltre la finestra aperta.



[1] Ovviamente questa frase non è mia, ma è una citazione di 1984.

Note dell'autrice:  

Che dire? Questa storia non mi piace. Guardo a lei con lo stesso sentimento sconfitto con cui si affronta un dolce al quale si è lavorato tanto ma che non è lievitato. La pubblico perchè l'ho spedita al "Contest Lettario Bookshelf" e l'ho sepedita perchè ormai l'avevo scritta. 

Ho tentato e credo di aver fallito. Alcune persone reali della mia vita potrebbero riconoscersi nella storia, ma per fortuna non la leggeranno mai. Nel caso invece foste qui amici miei, vi prego, non odiatemi: quelli non siete davvero voi e quella non sono davvero io, ho solo completamente perso il controllo di quello che volevo dire (vi voglio bene!!).

   
 
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