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Autore: Aleu    30/05/2014    1 recensioni
"Avevano ucciso, ingannato, manipolato ed erano sopravvissuti... ma non si erano salvati.
Come un incendio che inizia in sordina per poi divampare mortale, le lingue di fuoco di ricordi aberranti li avevano avvolti e bruciati vivi, lentamente, con una flemma malsana che ancora si trascinavano dietro.
E, così, loro erano sopravvissuti, ma non erano vivi."
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Non sapeva quante ore fossero passate.
Forse una, quattro o dieci.
Forse i giorni le erano scivolati addosso senza trovarla, senza sfiorarla nemmeno, perché le sembrava che neanche il Tempo avrebbe potuto accorgersi di lei in quel luogo.
Di lei distesa, arresa, tra le avvizzite foglie boschive.
Di lei con gli occhi chiusi per non dover rendere conto neanche al cielo.
Di lei che lasciava che lacrime di pioggia le violassero la pelle, sperando, forse, che alleviassero il dolore dei marchi lasciati dalle fiamme.
Di lei sola, lì, che pensava fosse comunque troppo presto per tornare.
Di lei che aveva capito, ormai, che sarebbe stato impossibile guarire.
Perchè le parole di Peeta non erano frutto del depistaggio, non tutte, perlomeno. 
Sapeva benissimo che il veleno ne aveva modellato l'esposizione, ma quei pensieri erano reali.
E Katniss, forse per la prima volta, aveva veramente avuto paura di lui e non per quello che fisicamente avrebbe potuto farle, ma perché si era sentita scoperta, vulnerabile, perché lui col tempo aveva preso sempre più coscienza di quello che realmente era: una stronza egoista.
Ed era fuggita al suo comando, non per evitare che avesse la possibilità di ferirla, cosa che l'avrebbe mandato in crisi una volta ritrovato il senno, ma l'aveva fatto per se stessa, perché non voleva più ascoltare Peeta Mellark che la smascherava incessantemente, rivelando quanto meschina ed ipocrita fosse.
Ed anche in questo era stata egoista.
Era fuggita perché non avrebbe sopportato oltre.
Era fuggita per nascondersi ai suoi stessi occhi.
Si maledisse perché nessuna di quelle gocce argentee sul viso era nata dai suoi occhi e si sentì come catapultata in quei mesi bui, quando l'unica speranza era quella di morire.
Quando lui non era ancora tornato, perché troppo presto.
Quando ogni respiro le dilaniava l'anima tra la vergogna ed il pazzo dolore per l'essere sopravvissuta, perché, sì, proprio lei così cinica, così incapace di vivere ed amare, era sopravvissuta.
«Prim, Prim, Prim...» il suo era solo un triste alito di disperazione nella tempesta che imperversava. 
«Prim, mi dispiace, non me lo merito, non ne sono capace...» e non sapeva più neanche a cosa si riferisse, se a Peeta o all'essere viva.
Probabilmente nessuna delle due opizioni sarebbe stata errata.
«Prim!» Katniss urlò a pieni polmoni spalancando le palpebre. Il buio non impediva al fuoco di divampare.
Ma non aveva lacrime, non più, ed il dolore sordo non aveva vie d'uscita.
Gli ultimi spasmi di luce filtravano dalle nuvole livide quando si guardò attorno: la pioggia batteva sulle fronde degli alberi e sulla superficie del lago che quel giorno appariva minaccioso e maligno anche ai suoi occhi.
Acconciò i capelli fradici nella solita treccia per tenere la mente occupata. Il gesto la riportò al Distretto 13 ed a Finnick che le insegnava a fare i nodi. 
Serrò le palpebre, respirò a fondo e, di nuovo, liberò le iridi di fumo.
Finnick non voleva che lei impazzisse e doveva mantener fede alla promessa. Lui le diede il filo per salvarla, per tenerla ancorata alla realtà, per Peeta.
Peeta.
Scattò in piedi, come se tutto ad un tratto avesse realizzato che lo aveva lasciato solo.
Ed anche se una parte di lei egoisticamente pensava fosse troppo presto per tornare, gli stivali di Katniss affondavano già nel fango sul sentiero del ritorno, veloci, spinti dalla paura che fosse perfino troppo tardi.

Non sapeva se l'avrebbe trovato ancora da lei, ma fu il primo posto in cui lo cercò.
Lasciò impronte di limo su per le scale, incurante di togliere le scarpe ed i suoi vestiti fradici impressero una macchia sul divano quando ci inciampò nel buio.
Aprì trafelata la porta della sua camera.
Il letto era ancora disfatto ed entrambi i cuscini giacevano scomposti al suolo. 
Lui non era lì.
Katniss fece un passo avanti con l'intenzione di controllare anche in bagno, ma nello stesso momento in cui le sue dita si chiusero attorno all'ottone della maniglia, elaborò un dettaglio sfuggito alla prima ispezione.
Un'ammaccatura strideva sulla severa linea rigida della porta.
Ne ispezionò i contorni, tastandola, ed i polpastrelli si tinsero di sangue.
Ritrasse subito la mano deglutendo rumorosamente, il panico che iniziava a fluire nelle vene.
Mai, non si sarebbe mai liberata del sangue.
Indugiò ancora un po' sull'ammaccatura per poi forzare la maniglia.
Dal primo spiraglio di luce che la porta rivelò, le sembrò che le viscere si attorcigliassero.
Creme, piccoli flaconcini di lozioni imbrattavano i muri e le tendine della finestra, gli asciugamani erano finiti un po' sopra lo specchio, un po' sul pavimento ed il kit del pronto soccorso, usato poche ore prima per lenire grottescamente un dolore che di fisico aveva ben poco, era stato apparentemente scagliato sul muro e, apertosi per l'impatto, aveva riversato il suo contenuto ai piedi della tazza.
Fece un passo avanti, troppo sbigottita per accorgersi della sagoma accucciata dietro la porta finché questa non emise un gemito.
Katniss si voltò di scatto, facendo balzare la treccia dietro la scapola destra.
Peeta era seduto contro il muro, una gamba a comprimere il petto, l'altra, quella con la protesi, abbandonata sulle piastrelle.
Quando aprì gli occhi, iridi azzurre, ma spaventate, iniziarono a studiarla intensamente mentre le labbra si schiusero ed un singulto lo scosse.
«Tu... io ti ho uccisa, vero o falso?» Peeta balbettava, trascinando le sillabe come se stesse impiegando le sue ultime forze per farsi capire.
«Falso» rispose lei, tenendosi a distanza, rispettando la muta richiesta di Peeta.
Il volto del ragazzo si fece assorto, corrucciò la fronte e sbattè le palpebre, come per eliminare la brillante grana dei suoi ricordi falsati.
«Ma ti ho aggredita, vero o falso?» insistette continuando a perdersi in se stesso.
«Falso, Peeta, falso» . 
«Katniss...» la sua voce uscì come un lamento e chiuse ancora una volta gli occhi per sottrarsi a quelli da giacimento.
La ragazza non aspettò oltre e si inginocchiò al suo fianco stringendolo tra le braccia.
«Shh...no, Peeta, va tutto bene» disse mordendosi le labbra quando i singhiozzo dell'uomo che amava e cercava di proteggere riempirono la stanza.
«Credevo, sul serio, credevo di averti... oh, Katniss...» i singulti si fecero più prepotenti e lei, con lo stomaco stretto in una morsa di spine, iniziò a depositare baci lenti e leggeri sulla sua fronte, scostando come meglio riusciva la cortina di riccioli biondi decisa ad ostacolare i suoi goffi tentativi d'alleviare il dolore di chi conosce innumerevoli lacrime.
Piano, una volta che i tremiti divennero sempre più radi, gli alzò il mento ed anche lei chiuse gli occhi, lasciandosi guidare da quelle strane, ma ora consapevoli, emozioni che il tempo trascorso con quel ragazzo aveva fatto emergere dai suoi più neri abissi.
Prima sfiorò le sue labbra inumidite dalle lacrime per poi allontanarsene e guardarlo.
Le parve essere ritornato piccolo, il suo Peeta, piccolo e stremato.
Non aprì gli occhi, forse troppo stanco o forse troppo impaurito, si lasciò osservare placido, rassegnato, quasi, ad una realtà che lo aveva sconvolto, che lo aveva rivoltato come un guanto, strappato da se stesso.
Un mero destino che aveva giocato con le sue parole, rivolgendogliele contro.
Accarezzò il profilo della sua guancia e, piano, scese lungo il collo, la spalla, per arrivare al braccio e trovare, infine, la sua mano. E la sua forte stretta venne ricambiata.
Si avvicinò a lui ancora una volta, richiudendo gli occhi, un poco esitante fece combaciare la loro bocca e, di nuovo, si scostò di qualche centimetro.
Respirò a fondo, in cerca della lucidità necessaria per controllarsi e non fare il patetico errore di “saltargli addosso”, nonostante bramasse tutto di lui.
Ed ecco che tornò a lambire le sue labbra, lentamente, con leggerezza. Baci balsamici che sapevano di tranquillità, di sicurezza, sentimenti che faticavano ad attecchire nell'animo in fiamme di Katniss, ma che si sforzava di fare propri nei momenti in cui il suo aiuto era necessario.
Uno dei suoi pochi gesti altruistici, rivolto alla persona che amava.
Le ultime difese di Peeta parvero crollare ed il suo corpo si arrese all'impaziente stretta di Katniss.
La attirò a sé, premendo le mani contro le scapole sporgenti mente la lingua andava ad aprire il varco delle sue labbra in una danza di lente provocazioni e morbide carezze.
Labbra come braci, che ardevano sotto il suo tocco tremante e palpitavano come se tutta la sua vita dovesse dispiegarsi lì, in quell'attimo, tra quei petali infocati e frementi che bruciavano sulla pelle senza lasciare ustioni, dipanando i nodi in gola, colmando il vuoto dei singulti, elargendo nuova linfa nelle sue vene corrose da quel siero bestiale.
Katniss affondò le dita tra i riccioli ambrati, stringendosi sempre più al petto di Peeta, quasi avesse paura che , una volta mollata un po' la presa, le sarebbe scivolato via dalle mani infrangendosi con un altro sé.
Negli ultimi anni l'aveva visto combattere e cadere contro un nemico fantasma, dalla presenza assidua e molesta, mordace e frenetico e le urla di Peeta, la notte, continuavano ancora a fracassarle le ossa all'altezza del petto, sotto un peso che poteva trovar sollievo solo quando lui la prendeva tra le braccia, una volta passato, e le sussurrava piano che stava meglio, che ora erano al sicuro, che non era colpa sua. 
Ma era proprio questo a non essere reale.
E quando le spire del buio filtravano per sottrarla a quel limpido cielo, che era stato e continuava ad essere la sua sicurezza, e gridava il nome di coloro che aveva ucciso, o per volontà diretta o per imprudenza, Katniss ne aveva la certezza: lei era colpevole, se di poco o di tutto ciò che era successo, non le importava, ma i volti dei morti mai le accordavano pietà.
Giorno e notte, aveva impresso quello sguardo carico d'odio e delusione che le attorcigliava le budella e l'eco della disperazione di Peeta era difficile da tener dentro senza vomitare la cena.
Si domandava, a volte, se tutto quello non facesse parte di una specie di espiazione e rabbrividiva quando, tra le lacrime, singhiozzava che non sarebbe finita mai.
Poi arrivava lui, Peeta, che la correggeva paziente, regalandole quella speranza che lei, sbagliata com'era, non era capace di dargli e, mentre la cullava, diceva: «No, Katniss, andrà meglio. È solo troppo presto» .
E lei finiva col crederci ed era sicura che, col tempo, ne sarebbe stata convinta. Perché ognuno ha bisogno delle sue bugie e se queste ti vengono concesse da degli occhi che è come se guardassi l'oceano, le devi accettare e crederci per forza, perché non puoi impedire all'oceano di entrarti dentro l'anima ed inondarla.
E le loro paure continuarono ad accavallarsi sulle bocche arrossate, alla ricerca di conforto, finché non rimase più fiato per ossigenarle e morirono nello stesso momento in cui schiusero le palpebre e si guardarono mentre un ultimo bacio sigillava l'unione delle loro dita che, ancora una volta, andavano ad allacciarsi a quelle dell'altro.
Fu Peeta il primo a parlare, ancora scosso nonostante quella strana leggerezza che lo aveva invaso, posando il capo sulla spalla di Katniss. 
«Sono stanco».
Lei non dovette neanche sforzarsi di ridere, anche se le sembrava assurdo che fosse proprio la sua risata quella ad irrompere divertita nell'irrealtà, che oramai era divenuta la loro quotidianità, di quel momento.
«Mi hai distrutto il bagno. Se non conoscessi le tue mirabolanti risorse di fornaio sarei stupita di vederti con ancora la forza per biascicare qualcosa» finì accarezzandogli la nuca.
Peeta sorrise sinceramente, apprezzando che non avesse accennato alla vera causa della sua spossatezza, ma non per questo meno deciso a parlarne.
«Oh, sì, mi ci sono dovuto applicare parecchio» ironizzò per poi continuare serio.
«Ho avuto veramente paura. No, non era semplicemente paura. Ricordi quando nella seconda arena pensavi fossi morto folgorato?» si interruppe per aspettare il mormorio d'assenso. 
«Ecco, rivivi ciò che hai provato in quel momento e fai finta che fossi stata tu, di tua sponte, a farmi sbattere contro il campo di forza. Questo, forse, ti può dare un'idea... un'idea molto blanda di come io...» non riuscì a finire la frase, sfinito com'era, e tirò su col naso.
Katniss non aprì bocca, continuò solo a sfioragli la schiena disegnando figure astratte mentre aspettava che ricominciasse a parlare.
Il Dottor Aurelius aveva sempre insistito su questo: dovevano sforzarsi di condividere le loro paure e, in particolar modo, aveva fatto pressioni su Peeta affinché la rendesse partecipe di ciò che accadeva nella sua testa durante gli episodi.
Lui, che di solito accettava di buon grado i suoi consigli, contrariamente alla sua compagna, aveva trovato non poche difficoltà nel mettere in pratica quest'ultimo. 
Si vergognava, si disprezzava, ma ora che finalmente ci stava provando, Katniss non voleva dargli alcun pretesto per interrompersi. Infatti, dopo qualche minuto, Peeta parlò di nuovo.
«Ti avevo uccisa, l'avevo fatto. C'era il tuo sangue dappertutto, anche sulla mia faccia. E tu eri lì, sul pavimento... la tua posizione era strana, sembrava quella di una bambola, senza ossa a tenerla insieme. Eri rotta. Avevi il cranio aperto e potevo vedere... io ti avevo uccisa, ero stato io.
E quando l'ho realizzato, realizzato veramente, intendo, io... non lo so, non c'ho capito più niente» Peeta si fermava spesso per riprendere fiato, come se ciò che raccontava lo stesse sfinendo e piangeva, ma era un pianto strano, stanco, esausto, fatto di sole lacrime, senza singhiozzi o alterazioni del tono.
Katniss sentì una fila di lacrime scivolarle dagli occhi, ma stette bene attenta a non farsi scoprire. 
«Poi sono venuto qui dentro. Capisci, avevo paura di tornare lì e vedere veramente il tuo corpo a terra. Non sapevo quello che avevo fatto, io... non sono riuscito a distinguerlo, questa volta, il vero dal falso. E non puoi immaginare cosa... cosa pensavo e non riuscivo a muovermi, ero paralizzato. Katniss, mandami via... va' via,  non posso più sopportarlo» iniziò a gemere.
Lei si irrigidì ed un irrefrenabile tremore si impossessò delle sue mani.
Le stava chiedendo di andarsene.
Erano passati quasi sette mesi dall'ultima volta in cui aveva dovuto fare i conti con quelle parole e, ingenuamente, aveva sperato che mai più le avrebbe sentite.
Perse l'ultimo barlume di lucidità quando ricordò quello che Peeta le aveva urlato poche ore prima, quello da cui era fuggita via.
Era egoismo anche quello, forzare Peeta a starle vicino, incurante delle sue esigenze.
Se fosse riuscita a conservare quel tocco di raziocinio in più, forse gli avrebbe ricordato che c'erano già passati, avevano già provato a stare lontani, ma i risultati erano stati pressoché inesistenti e non aveva giovato a nessuno dei due. Sì, magari l'avrebbe fatto. Ma non era mai stata brava a parlare e la sua attenzione non sembrava volersi schiodare dall'unico pensiero ora padrone della sua mente, così, l'unica frase sensata che riuscì a sussurrare, quasi avesse paura di farsi sentire, fu: «Vuoi veramente che vada via?».
Peeta ascoltò quella nuvola di parole confuse, cadute come foglie vittime d'un debole soffio autunnale e si strinse ancora di più alla ragazza.
Si era accorto di averla impaurita perché le sue mani avevano smesso di carezzargli le spalle e le aveva lasciate cadere moribonde lungo i fianchi mentre il suo corpo iniziava a tremare.
Sapeva bene che non erano capaci di stare lontani, per quanto ci avessero provato negli anni precedenti e, nonostante questa consapevolezza, a volte lo sconforto era tale da non riuscir a non esternare le chimere che covava dentro. Senza la sua presenza, Katniss sarebbe stata salva, almeno fisicamente, e nulla ai suoi occhi sembrava più allettante della sua sicurezza.
Ma entrambi avevano imparato che non sempre ciò che ti salva la pelle salva anche il tuo animo o cervello, come lo si vuole chiamare.
Avevano ucciso, ingannato, manipolato ed erano sopravvissuti... ma non si erano salvati.
Come un incendio che inizia in sordina per poi divampare mortale, le lingue di fuoco di ricordi aberranti li avevano avvolti e bruciati vivi, lentamente, con una flemma malsana che ancora si trascinavano dietro.
E, così, loro erano sopravvissuti, ma non erano vivi.
O, almeno, si sentivano vivi, nonostante le difficoltà che sembravano inghiottirli, solo in presenza l'uno dell'altro e quando lui rimuginava su ciò che Gale gli aveva confidato quella notte di due anni addietro, un sorriso amaro gli sporcava il viso. 
Nel corso del tempo aveva capito quanto ambedue si fossero sbagliati: Katniss non aveva scelto colui che le aveva garantito la sopravvivenza, ma la persona che le aveva sempre dato la speranza di vivere.
«Katniss» mugugnò sulla sua spalla «Scusa».
Lei non si mosse, continuò a fissare rigida la notte che calava oltre la finestra.
«Non voglio che tu vada via, lo sai bene. Ma non riesco a darmi pace... tu qui, con me che ho appena visto il tuo cadavere tra le mie braccia, non è... sicuro, questo» alzò la testa per guardarla negli occhi temendo (e si maledisse perché, appunto, lo temeva) di scorgere quella sana paura che l'avrebbe portata via da lui. Ma i suoi occhi erano vuoti, inespressivi.
«Scusami, ti prego, sono stanco. Non voglio che tu vada via» ripeté cercando di incontrare il suo sguardo «Anche se, ovviamente, sotto molti aspetti, sarebbe la cosa più giusta da fare se...».
«Se io non ti amassi» e la ragazza si sentì avvampare, piegò la testa verso le gambe sentendosi incredibilmente imbarazzata. Nonostante avesse già detto più volte a Peeta che lo amava, continuava a sentirsi a disagio, non perché avesse ancora dubbi, questo no, ma la sua natura schiva e spigolosa cozzava con parole così pure e profonde tanto da farla sussultare ogni rara volta che queste le solleticavano le labbra.
Peeta le sollevò il mento delicatamente e lei si ritrovò a fissare il suo viso illuminato da quel dolce sorriso che, da sempre, stemperava le angosce.
«E, di', il mio Amore non conta proprio niente?» ironizzò lui, senza più tracce di lacrime sulle guance. 
«Non è la stessa cosa. Tu per me lo sacrificheresti, l'hai fatto in passato ed avresti continuato a farlo se io non... se io non volessi più rinunciarci» non riusciva a guardarlo negli occhi e si concentrò sulle dita che si stritolavano a vicenda.
«D'altra parte, sai quanto sono... egoista. Mi dispiace» aggiunse avvilita non riuscendo a frenare la lingua.
Peeta le lasciò andare il mento e sospirò a fondo.
«Katniss» la chiamò aspettando che riportasse mestamente lo sguardo sul suo volto. 
«Non so bene cosa possa averti detto, ma sai benissimo che non ero... bèh, dire che non ero nel pieno delle mie facoltà mentali è un eufemismo».
Katniss scosse il capo. 
«Eri ancora in te quando...».
«Senti, sì, è vero, sei un tantino egoista, ma questo non è necessariamente un male: del sano egoismo non nuoce a nessuno. E sei... va bene, sei veramente poco empatica, ma sono dei lati di te con cui convivo serenamente e che non mi hanno mai creato problemi» poi si bloccò, assumendo un'espressione pensierosa. 
«Cioè, quasi mai» si corresse ghignando.
Katniss piegò le labbra in un sorriso teso mentre la mano destra di Peeta andava ad accarezzarle una guancia.
«Tuttavia...» riprese mantenendo un tono affabile «Per quanto riguarda questo specifico caso... sì, ho riscontrato diversi problemi nella gestione della “Katniss-zuccona”».
Lei si sentì implodere e, ancora una volta, il sangue corse a colorarle le gote.
Per un attimo aveva perso di vista il reale motivo che aveva portato Peeta ad avere un altro episodio, concentrata com'era a martoriarsi da sola.
Aprì la bocca alla ricerca di qualcosa da dire, ma riuscì solo a rendersi ancora più ridicola, con quelle labbra a forma di “o”, lo sguardo disorientato e la faccia paonazza.
Doveva proprio essere il ritratto di un'insolita specie di pesce palla agonizzante perché Peeta non riuscì più a trattenere le risate.
«Kat, va tutto bene? Sai, non sembravi così pudica qualche ora fa» la canzonò in cerca di una qualsiasi reazione che non contemplasse l'apnea.
Katniss si spinse un po' più il là sul pavimento, un'azione istintiva per cercare di mettere più distanza possibile tra lei e l'imbarazzo, ma, quando si accorse che in quella posizione Peeta poteva godere di una visuale più ampia del suo viso e, quindi, della sua espressione impacciata, subito si gettò in avanti, nascondendo il viso nell'incavo del collo del ragazzo e sbuffò mentre si faceva spazio sul suo petto.
La risata di Peeta risultava particolarmente divertita e lei non fece a meno di pensare che, in fondo, dopo una giornata del genere si meritasse d'essere punzecchiata un po'.
«Io... non so cosa mi sia successo... questa mattina, intendo. Non accadrà più» riuscì a sussurrare contro la sua maglietta.
Peeta la circondò con le braccia stringendola a sé e, mentre parlò, le sue mani andarono a scioglierle la treccia.
«Oh, io vorrei che accadesse di nuovo, invece. E non credo tu riesca a capire quanto vorrei accontentarti».
A quelle parole, il cuore di Katniss prese a battere frenetico ed un penetrante tremolio la portò a chiudere gli occhi e respirare a fondo.
Peeta, con le ciocche arricciate ancora tra le dita e la fronte corrucciata, riprese: «Ma, Katniss, è...».
«È troppo presto» finì per lui.
Peeta, accorato, inspirò a lungo il profumo silvestre di quei capelli corvini.
«Già» fiatò fiacco «Scusa».
«Non farlo, non ti scusare, non ne hai alcun motivo, Peeta, lo so, è solo che alcune volte... come dire, per noi è un po' tutto più difficile, no?» Katniss alzò il capo per specchiarsi nei suoi occhi.
Non avevano bisogno di fiumi di parole per capirsi e Peeta, in quel momento, realizzò che gli avrebbe lasciato tutto il tempo di cui ancora necessitava per incominciare a fidarsi di se stesso.
«Se Haimitch ha iniziato ad allevare oche, perché noi non dovremmo riuscire ad Amarci, Katniss?» e fissò gli occhi in quelli di lei che rilucevano divertiti di gioia, di passione e poi vi scorse qualcosa di sconvolgente, in quegli occhi, qualcosa che lei gli stava inaspettatamente donando, qualcosa che aveva bramato a lungo senza mai neanche concedersi il lusso di accarezzarla con l'immaginazione.
Peeta Mellark, quella sera, s'imbattè nella Speranza che sfavillava testarda negli occhi di Katniss Everdeen ed ebbe la certezza, forse per la prima volta dopo anni, che non era poi troppo presto per iniziare a Vivere.





NDA: *si nasconde dietro una confezione di sfogliatine glassate *
… …. 

Ancora non posso credere di aver completato una storia, seppur breve.
Scusate, veniamo a noi: salve, gente! ^^
Meritereste un premio solo per essere riusciti ad arrivare alla fine, se state leggendo questo! XD
Non ho molto da dire su questa ff... il che vuol dire che ho veramente troppo da dire e che sto cercando di autoconvincermi di non avere argomenti per non tediarvi ancora, ma non funzionerà, quindi mi dilungherò come mio solito. Ed essendo la prima volta che scrivo in questo fandom sento il dovere di precisare la mia posizione u_u
Bene, ora lo sapete.
Scrivere questa ff è stato... bellissimo e terapeutico. 
Innanzitutto il finale di Mockingjay fa schifo (scusate la mia schiettezza). Cioè, io l'ho odiato oltremisura. Mi chiedo come la Collins abbia potuto liquidare un elemento della saga così importante, quale il legame tra Katniss e Peeta,  in così poche battute. Dopo tutto quello che hanno passato questi due e dopo tutte le seghe mentali di Katniss, io mi sarei aspettata di più, sinceramente.
Ma vabbè, forse sono io quella eccessivamente fissata con le dinamiche psichiche dei personaggi.
Quindi, sentivo il bisogno di metterci qualcosa di mio, anche se breve breve, in quella che sarebbe potuta essere la loro vita.
Adoro Peeta. Cioè, lo amo, in realtà, non so quanto traspaia dalla storia. 
Pochi personaggi mi sono così cari. 
Quando penso che al mondo potrebbero esistere persone come lui (valle a trovare!) mi sento meglio. E non perché sia privo di quei difetti che lo rendono umano, non perché non abbia pensieri negativi o sia così perfetto da essere irreale (chi ha letto attentamente i libri sa che non è così ed ho voluto sottolinearlo anche nella ff), ma per la sua integrità, passione e per i suoi ideali che lo rendono, passatemi la semplificazione ma ci sta tutta, una brava persona.
Nutro una profonda antipatia verso Katniss, il che è strano, perché solitamente prediligo i personaggi “induriti” dalle vicissitudini della vita, ma lei, abbiate pazienza, proprio non mi va giù. Sarà per il suo egoismo e la sua freddezza apatica che contribuiscono a renderla un personaggio quasi privo di morale? Sì, credo proprio di sì.
Ed anche se sono d'accordo con Haymitch (“Potresti vivere cento vite ed ancora non lo meriteresti”), credo che, tutto sommato, abbiano realmente bisogno l'uno dell'altro per equilibrarsi. Sì, la reputo una coppia molto più verosimile di quanto lo sarebbe stata una Katniss/Gale.
Ho voluto ritrarli così, in quella che ho immaginato potesse essere la loro irrealtà che, come dico, diviene quasi una routine, rotti, devastati e tristi come sono. 
Non c'è una figura che prevale nell'aiutare l'altro, è un sostenersi a vicenda in una danza di scuse, paure, baci, dolore, rabbia e veleno che solo insieme possono gestire. 
E, per Amore, ho voluto vedere Katniss cambiare, fare dei piccoli passi che potrebbero renderla una persona migliore. Una fatta di carne, insomma, e, finalmente, la carne chiama! U_U
Avevo pensato ad un finale diverso, molto meno sentimentale, ma questo si è scritto da solo e l'ho trovato perfetto. Per loro, ma anche per me, perché in quel momento sentivo che fosse l'incastro ideale. 
Finisco ringraziando tutti coloro che hanno messo la storia tra le preferite e le seguite e la cara TheJessShow per aver recensito lo scorso capitolo! ;)
Magari ci ritroveremo ancora in questo fandom.
 
Ja ne!
  
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