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Autore: Euachkatzl    30/05/2014    5 recensioni
2013: la rivista Rolling Stone decide di pubblicare una biografia di uno dei gruppi rock più grandi di sempre, i Guns n' Roses. Ogni ex componente del gruppo viene intervistato singolarmente, vengono poste loro identiche domande. Ad una, però, rispondono tutti allo stesso modo.
"Un periodo della tua vita al quale vorresti tornare?"
"Febbraio 1986"
Ma che è successo, nel febbraio 1986?
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sento qualche passo girovagare incerto per il salotto, la luce della cucina scattare e un rumore di tazze e piatti che sbattono. Decido di non alzarmi, mi accoccolo meglio nella coperta calda e tento di ignorare tutto il rumore che non so chi sta facendo dalla cucina. Sembra un dinosauro che sta cercando il tesoro perduto, non un ventenne che tenta di farsi la colazione. Spero solo che smetta presto.
 
Non possono essersi già mangiati tutti i biscotti. Duff e la stronzetta hanno fatto la spesa una settimana fa ed erano tornati con una quantità di biscotti che poteva risolvere la fame del mondo. Non possono essere già finiti.
Apro l’ultima credenza nella quale non ho ancora guardato e finalmente, seminascosto dietro ad un muro di carta igienica (che non ho ancora capito perché teniamo in cucina), scovo quel pacco di frollini che ho cercato con tanto impegno. Penso proprio di meritarmeli, dopo tanta fatica. Soddisfatto, mi verso un po’ di latte nella tazza e ci intingo qualche biscotto. Mi sporgo a guardare il salotto, Jeanette dorme ancora nonostante la luce del sole che filtra dalle tapparelle. Continua a muoversi sul divano, ho come l’impressione che non stia dormendo tanto pacificamente. Scuoto la testa e mi siedo al tavolo della cucina, rimuginando su quello che mi ha detto ieri. “A te da piccolo bastava uscire di casa ed era tutto finito”. Ma fottiti, acida del cazzo.

 
Sto camminando a caso, come faccio di solito quando ho bisogno di sciogliermi un po’ i nervi. Sono arrabbiata. Non so perché o per colpa di chi, non so cosa sia successo. Continuo a camminare per una strada che non finisce mai, sembra ripetersi sempre uguale. Cerco qualche punto di riferimento. Un lampione rosso, che si distingue dagli altri neri per il suo colore sgargiante. Continuando a camminare noto un altro lampione rosso. Identico. Cerco qualche altro elemento particolare. Sul muro di una palazzina, a grandi lettere scarlatte, c’è una scritta tracciata con una bomboletta spray. “NOT ME”. Sembra un urlo disperato di qualcuno che è sempre stato ascoltato solo superficialmente. Per sicurezza, mi fisso in testa anche l’immagine di una finestra rotta, posta al quinto piano dell’edificio di fronte a quello della scritta. Più tranquilla, ricomincio a camminare, finchè non rivedo il lampione rosso. Muovo qualche passo incerto, di nuovo la scritta sgargiante, grande sul muro di mattoni. Mi volto. La finestra rotta è sempre nello stesso punto. Comincio a correre lungo quella strada della quale posso vedere la fine. Posso vedere il mare, una spiaggia dorata affollatissima. Il lampione rosso ricompare alla mia destra. La scritta. La finestra rotta. Continuo a correre. Lampione rosso, scritta, finestra rotta. Lampione rosso, scritta, finestra rotta. Lampione, scritta, finestra. Mi blocco ormai senza fiato. Butto un occhio sull’edificio della finestra. Noto che non è più al quinto piano. Abbasso lo sguardo. E’ al secondo. Rilassata, mi avvio verso quella spiaggia che si vede ancora alla fine della strada. Sembra sia sempre alla stessa distanza. Rivedo il lampione rosso, ma non mi preoccupo più di tanto. Probabilmente ne hanno posto uno ogni tot di lampioni. Così come per la scritta: qualche ragazzo che non aveva niente di meglio da fare l’ha scritta su tutte le palazzine al lato destro della strada. Giusto per sicurezza, guardo l’edificio di fronte. Come volevasi dimostrare, la finestra rotta è al primo piano. Incuriosita, mi avvicino. Chissà cosa c’è dentro. Chissà perché qualcuno l’ha rotta. Ma prima che io possa arrivare ad una distanza tale da permettermi di sbirciare all’interno, un uomo esce da quella finestra. E’ calvo, indossa dei larghi pantaloni militari e una canottiera nera. E’ alto, muscoloso. Non gli costa molta fatica spingermi contro il muro della palazzina, esattamente sulla scritta “NOT ME” che mi macchia la schiena, come se fosse appena stata disegnata. Solo ora mi accorgo di essere senza vestiti. Le mani di quell’uomo sono incredibilmente fredde. Si appoggiano sui miei seni, mentre lui mi bacia. Rabbrividisco, sia per la paura che per il freddo che sento solo ora. Provo a dire qualcosa, ma non riesco ad emettere nessun suono. Provo a divincolarmi, ma tutto il mio corpo è intorpidito, non riesco a muovermi. Le labbra dell’uomo passano sul mio collo, fredde come le sue mani.
Mi sveglio con davanti il viso di uno Steven decisamente preoccupato che mi sta accarezzando i capelli.
“Stai bene?” mi chiede. Sono un bagno di sudore. E’ stato tutto un brutto sogno. Duff si precipita di fianco a Steve.
“Oh, ti sei svegliata. Che stavi sognando?”
Chiudo gli occhi e prendo un grande respiro. Scalcio via la coperta, decisamente di troppo.
“Niente. Perché?”
“Ad un certo punto hai cominciato ad agitarti, hai detto qualcosa… Stavamo pensando di chiamare un esorcista” scherza Steve, riuscendo a farmi ridere. Pigramente mi alzo e vado in bagno, ho assolutamente bisogno di una doccia.
 
“Allora? Cos’aveva?” chiede spazientito Axl, ancora seduto a mangiare biscotti.
“Hai quasi finito il pacchetto. Ci sono anche gli altri, non so se te ne ricordi” gli faccio notare, ignorando completamente la sua domanda. Lui fa spallucce.
“Sono incazzato, mangio”
Gli strappo la busta dalla mani e la rimetto a posto nella credenza. Il rosso borbotta qualcosa, ma ormai sono talmente abituato alle sue lamentele che non ci faccio neanche più caso. E’ tutto un ignorare, in questa casa. Si passa sopra a tutto, sperando che non crei ripercussioni future. Anche perché, se badassimo a qualsiasi piccola cosa, arriveremmo alle mani in appena un paio d’ore.
“Come mai sei incazzato?” tento di fare conversazione, ma tutti i miei sforzi risultano vani appena Steve dice: “Non è ora di pulizie, qui?”
“Senti bello, le abbiamo fatte noi appena tu te ne sei andato, e a me la casa è sembrata perfetta per tutto il tempo in cui non c’eri. Quindi, se vuoi farci un favore, elimina il problema alla radice. La porta sai dov’è”
“E invece io resto. Perché non ci vivi solo tu qui e perché sei l’unico che si fa problemi”
“Ah sì? Solo io mi faccio problemi? Chiediamo a Slash appena si sveglia. O meglio ancora, chiediamo a Jeff che ha un polso a pezzi per colpa tua e della troia che sta qua abusivamente”
“No senti, non toccare Jeanette. Non è un bel momento questo per lei” mi intrometto anch’io. Non che Jeanette sia una santa, per carità, ma con tutto quello che le è successo da quando è arrivata qui dev’essersi pentita di non essere andata a fare la groupie da qualche altra parte.
“Ah, non devo dire male di Jeanette? Dopo quello che lei ha detto a me? Dopo quello che ha fatto a Jeff? Vedi di aprire gli occhi, quella ci gioca con noi”
Sbuffo e vado in camera mia. Mi siedo sul letto e prendo in mano la chitarra classica di Slash, che non so come sia finita in camera mia. Strimpello un po’, la scopro scordata. Ma non mi interessa, ormai non ho più nemmeno la pazienza per accordarmi la chitarra. Suono a caso, facendo uscire note stonate e melodie assurde. Anche perché sto continuando a schiacciare tasti a caso. Sto pensando al fatto che Axl potrebbe avere ragione. Che magari Jeanette ha imparato a giocarci davvero bene, con la gente. In fondo, ha vissuto sola per sedici anni, si è fatta le regole a suo piacimento. Chissà a quanta gente ha messo i piedi in testa, per avere quello che voleva. Chissà se è davvero spaventata o se vuole solo ancora più attenzione.
La porta si apre e la ragazzina entra, un asciugamano candido avvolto attorno al corpo.
“Scusa, puoi uscire? Devo vestirmi, ci metto un attimo”
Lascio  la chitarra sul letto e mi avvicino alla porta. Appoggio la mano alla maniglia, ma qualcosa mi blocca. Forse questa è una buona occasione per trovare la risposta almeno all’ultima delle mie domande.
 

Fisso Duff, che si è voltato a guardarmi, con una mano sulla maniglia della porta.
“Devi abbassarla, poi la porta si apre” gli suggerisco e lui, ignorando totalmente il mio consiglio, si avvicina a me e mi abbraccia. Mi irrigidisco di botto. Che cazzo vuoi combinare, biondo?
“Mi dispiace per come stanno andando le cose da quando sei arrivata qui” mormora quando finalmente si stacca da me. Fa correre un dito per la mia spalla nuda, su, dietro al collo. Quel dito scorre leggero sulla nuca, scioglie lo chignon improvvisato che mi ero fatta. Una cascata di capelli neri cade morbida giù per la mia schiena, mentre la mano di Duff si è già interessata al bordo dell’asciugamano. Io sono ancora immobile, a fissare il vuoto. Un punto indefinito sulla porta. Spero solo che si apra e che entri qualcuno a fermare Duff. L’asciugamano cade in un fruscio. Una ventata d’aria fredda mi investe. Tremo, sia per il freddo perennemente presente in questa casa sia per il biondo che mi bacia il collo. La porta è ancora chiusa. Non entrerà nessuno, temo.
“Che c’è?” chiede premuroso Duff. Finalmente mi guarda negli occhi. Finalmente tira indietro le mani e se le mette in tasca.
“Scusa” dice frettolosamente, prima di uscire dalla stanza e lasciarmi lì, sola, nuda e con la pelle d’oca.
 
Vedo Duff uscire dalla sua camera nemmeno mezz’ora dopo esserci entrato. Finalmente riesco a sciogliere un nodo impossibile dai lacci delle scarpe e le infilo con poca grazia. Afferro il cappotto passando davanti agli appendini e senza nemmeno salutare apro il portone e faccio per andarmene. Tanto a che serve salutare, in questa casa? Appena torno mi rimetterò a litigare con qualcuno e a urlargli di andarsene. Forse è davvero arrivata l’ora di un discorsetto serio su come gestire le cose qui. O più semplicemente su come voltare pagina e deciderci a farci una vera vita.
“Stai uscendo?” La voce ancora impastata di Izzy mi blocca sull’uscio. Mi volto scocciato e lo vedo avanzare nel salotto strofinandosi gli occhi, piuttosto incerto sul dove appoggiare i piedi. Uno Slash già più sicuro sulle gambe lo sorpassa e scompare in cucina.
“No, mi piace aprire la porta e guardare il pianerottolo” Ormai le risposte stronze fanno parte di me. Le faccio partire a random, senza nemmeno un valido motivo. Per abitudine, più che altro.
“No aspetta, mi vesto e esco anch’io” mi dice tranquillo, senza che la mia risposta lo scalfisca minimamente, non so se per il sonno o perché lui è Jeff e un modo per fargli perdere le staffe non lo troverai mai.
Mi appoggio allo stipite della porta e guardo distratto il disordine che la fa da padrone nel nostro salotto. La solita montagna di roba abbandonata tra il divano e il televisore, mucchio nel quale solo Slash riesce a trovare un ordine logico; la coperta che giace aggrovigliata sul divano da quando Jeanette è arrivata in casa, un paio di scarpe col tacco in mezzo alle nostre converse, il flacone del detersivo per i piatti che chissà come è arrivato di fianco al comò.
“E’ finita anche la pasta” sento Duff constatare dalla cucina.

 
“Perché, pensavi di fare colazione con la pasta?” mi chiede ironico Slash, che non so se sia in vena di battute o se sia ancora addormentato.
“Pensavi di pranzare con i biscotti?” gli rispondo acido, senza neanche un motivo. Sto ancora ripensando a cosa ho fatto a Jeanette. E mi vergogno tanto. Davvero pensavo si potesse risolvere tutto così? Che ho al posto del cervello, le arachidi?
“Perché no? Io vivrei di biscotti”
Steven si becca una fulminata sia da me che da Slash.
“Tu di soldi non ne hai proprio?” si informa il chitarrista. Il biondo lo guarda un po’, riflettendo sulle risposte che ha a disposizione e sulle conseguenze di ciascuna. Alla fine scuote la testa.
“Nulla”
Slash sbuffa e appoggia i gomiti sul tavolo, si nasconde il viso tra le mani.
“Dobbiamo fare qualcosa” dice lasciandomi un po’ di merda. Da quand’è che Saul fa il saggio?
“Potremmo trovarci un lavoro” propone Steve, interrompendo quel momento di calma che Slash stava sfruttando per elaborare un’idea e prendendosi un’altra fulminata.
“Cazzo, sei geniale sai. Non ci avevo proprio pensato, ad un lavoro. La mia idea principale era andare a rubare nei negozi di caramelle” si sfoga Slash, per poi riaffondare nelle sue rimuginazioni. Steven parte con la solita lagna che noi non lo badiamo mai eccetera. Lo porto in camera nostra prima che parta un pugno nella sua direzione.
Jeanette si sta pettinando distrattamente i capelli con le mani, seduta sul letto di Steve, quando noi entriamo. Per sbaglio incrocio il suo sguardo, ma trovo velocemente qualcos’altro da fissare. Steven le sorride a trentadue denti, con la sua faccia da cucciolo.
Ci sediamo entrambi sul mio letto, io rivolto verso la finestra e Steve che guarda Jeanette.
“Come va stamattina?” chiede tranquillo il batterista. Nessun problema, per lui. Nessun senso di colpa.
“Tutto bene” risponde vaga lei, poi la sento alzarsi e uscire.

 
Vedo Jeanette uscire dalla camera dei biondoni e entrare nella mia. Si ferma un attimo sull’uscio per lasciar passare Izzy, che le sorride debolmente.
“Andiamo?” mi chiede lui qualche secondo dopo, passandomi una mano davanti al viso. Mi ero piantato a guardare un punto indefinito del corridoio, lasciando scorrere una mole di pensieri troppo grande da elaborare tutta in una volta.
“Andiamo” rispondo, prima di aprire il portone e uscire.

 
Non è che passare da una stanza all’altra sia la cosa più divertente del mondo. E’ che voglio stare da sola. In silenzio. E magari pure al buio. Do un’occhiata alla finestra aperta, che lascia entrare nella stanza troppa luce per i miei gusti, ma è troppo lontana dal letto sul quale sono distesa. Decido che in fondo la luce non è un grande problema e continuo a guardarmi intorno, cercando qualcosa sul quale focalizzare la mia attenzione per far passare il tempo, che sta scorrendo lentissimo. Recupero da sotto il letto di Jeff la scatola che mamma aveva mandato un paio di settimane fa. La apro e dispongo ordinatamente gli oggetti sul lenzuolo chiaro. Due videocassette, una maglietta lilla, un cappellino, la foto spiegazzata di me a dieci anni, con la stessa faccia da stronza che ho oggi. Mi guardo mentre mi rigiro la maglietta tra le mani. Al collo avevo il ciondolo che mi aveva regalato mamma. Era d’oro, mi è tornato utile quando ero arrivata a Dallas senza neanche un soldo. Io e il mio ragazzo siamo riusciti a campare quasi una settimana, grazie a quello che ci aveva fatto guadagnare quella collanina che avrebbe dovuto significare così tanto per me. Era già un miracolo che non l’avessi persa da qualche parte in collegio.
Mi sfiora l’idea di guardarmi le due videocassette, ma la respingo subito: sicuramente in salotto c’è qualcuno, e non mi va di fare conversazione. Rimetto tutto dentro la scatola e raccolgo da terra la chitarra bianca di non so chi. Pizzico qualche corda a caso, inventandomi accordi improbabili e inascoltabili per la maggior parte della gente.
 
“Dov’è che devi andare?” mi chiede Jeff.
“Ho saputo che un mio amico è a Los Angeles, volevo andarlo a trovare” chiudo il discorso. Continuo a fissarmi i piedi mentre cammino.
“Te la ricordi Jennifer, la cugina che in realtà non era mia cugina ma che io chiamavo cugina?” continua Izzy, che non ha ben capito che non ho la minima voglia di fare conversazione.
“No”
“Sì non te la puoi essere dimenticata, ci è venuta dietro per un po’ perché voleva imparare a suonare il basso, solo che Duff non la considerava minimamente. Quella che dicevi che non aveva tette e quindi non era classificabile tra le ragazze degne di attenzioni” ride Jeff. Intravedo un vicolo sulla destra e saluto frettolosamente il mio accompagnatore non gradito. Se non ho voglia di parlare non ne ho voglia, che c’è di difficile da capire? Tiro fuori dalla tasca dei mei jeans un pacchetto di sigarette e me ne fumo una con tutta la calma del mondo, aspettando che Izzy vada avanti e non mi veda fare la sua stessa strada.

 
Stanco di stare in silenzio con Steve, esco dalla mia stanza e vado da Slash, ancora in cucina a rimuginare su cosa possiamo fare per tirare su qualche soldo.
“Hai idea di qualche posto dove possiamo trovare un lavoro?” gli chiedo, sedendomi sulla sedia di fronte a lui. Scuote la testa.
“Non è tanto trovare un lavoro, basta anche una cazzata per un giorno, perché siamo proprio senza soldi. A zero”
Appoggio la testa al tavolo e chiudo gli occhi.
“Tempo fa lavoravo in un negozio di dischi, ti ricordi?” butto lì l’idea.
“E vai a chiedere, che cazzo aspetti?”
“Quando me ne sono andato ho urlato ‘Andate a fanculo tutti, vendete solo musica di merda’”
“Geniale”
“Appunto”
Ripiomba il silenzio. Io sono ancora con la testa appoggiata al tavolo. Ora sto fissando le piastrelle scure sul pavimento. Seguo le righe delle fughe.
“L’unica cosa possibile sarebbe cominciare a mettere avvisi in giro o qualcosa del genere” si arrende Slash.
“E che ci scriviamo? ‘Ciao non sappiamo fare un cazzo a parte suonare solo che ci hanno sgamati mentre facevamo un concerto in playback e ora siamo senza soldi’?”
“Senti, tu hai altre idee? Che è, vuoi dare via il culo?”
Tiro su la testa e lo guardo.
“Ma sei coglione?” alzo la voce.
“Coglione sarai te, che continui a fare battute del cazzo. Sto tentando di trovare una cazzo di idea perché non possiamo neanche andarci a comprare un cetriolo del cazzo. E tu mi esci con queste cazzate. Io perdo pure la pazienza, cazzo”
Saggiamente, decido di andarmene dalla cucina. Quando Slash comincia a dire troppe volte ‘cazzo’, è il segno che devi sloggiare se ci tieni ad avere una lunga e piacevole esistenza.
Recupero Steve dalla nostra camera ed esco insieme a lui. Andiamo a cercare questo fottuto lavoro, allora.
 

Arrivo in un piccolo parco pubblico abbastanza fuori mano. In teoria il mio amico dovrebbe arrivare a momenti. In teoria. Perché non sarebbe la prima volta che mi da buca. Mi siedo su una panchina, e dopo aver dato una rapida occhiata a tutto il parco concludo che mi sono seduto esattamente sulla panchina dove mi ero scopato la cugina di Jeff, quella di cui lui mi stava parlando prima. Cazzo se me la ricordo. Poche tette, devo ammetterlo, ma aveva un carattere con il quale ti sapeva girare come voleva, soprattutto perchè la sua miglior qualità era l'essere rompicoglioni. Sospiro e mi passo le mani sul viso, quando mi sento appoggiare una mano su una spalla. Mi volto di scatto, pronto a prendere a pugni quel drogato che ha avuto la malsana idea di interrompere i miei ragionamenti.
“Tanto tempo, che non ci vediamo”
“Solo perché tu abiti in culo al mondo”
Questo il mio breve saluto a Joe, che dopo un abbraccio piuttosto freddo si siede di fianco a me.
“Come mai a Los Angeles?” tento un discorso.
“Non so, tutti dicono sempre che Los Angeles è tanto figa, volevo vedere se era vero”
“E invece non è vero”
“Esatto”
Sorrido. Lo so perfettamente, anch’io ero stato illuso dalle belle storie che girano sulla città degli angeli, il successo facile, i soldi che cadono dal cielo. I soldi. Che invece non ci sono.
“E a te come va?” riprende Joe. Si appoggia allo schienale della panchina e butta indietro la testa, lasciando scivolare quei capelli lunghi da far invidia ad una donna.
“Ma niente, sono successi un po’ di casini e adesso siamo in sei in casa, senza soldi, con un’isterica che spara cazzate tutto il tempo e non fa niente di utile”
“Sei tu quell’isterica?” suggerisce lui, ricevendo un pugno dal sottoscritto.
“Vaffanculo” gli rispondo. La ritengo una risposta alquanto esauriente. Sul viso di Joe compare un mezzo sorriso.
“Volevo chiederti se avevate posto in casa per qualcun altro, ma forse è meglio che vada sotto i ponti”
Lo guardo storto.
“Sei venuto giù dal Canada solo per questo?”
“Lo sai che ho sempre quella mezza idea”
“Lo sai che non ti dirò mai di sì”
“Allora d’accordo” chiude lui. Si alza e si avvia verso l’uscita del parco. Lo guardo allontanarsi, finchè non mi arrendo all’evidenza. Ho bisogno di una mano con i soldi e lui è l’unico che può aiutarmi. O tirarmi giù nella fossa insieme a lui, dipende da come vanno le cose.
“E se invece mi andasse bene?” gli urlo. Non si merita che mi alzi per lui.
“Allora ci vediamo domani sera, sempre qui” mi risponde senza nemmeno voltarsi.

 
“Buongiorno” saluto educatamente la vecchia proprietaria del negozio di dischi. E’ sempre lei, sempre quella vecchia scorbutica alta un metro e un tappo che squadra ogni singola persona entri nel negozio, con una faccia del tipo ‘Prova a muovere un passo se ne hai il coraggio’. Mi becco una delle occhiatacce che era solita riservarmi ogni volta che arrivavo per il mio turno di lavoro.
“No non abbiamo quella musica di Satana qui, arrivederci” gracchia lei con il suo accento da perfetta londinese finita chissà come in America. Ma non poteva stare a rompere le palle in Inghilterra?
“E un lavoro, ce l’avete?” taglio corto. Lei mi squadra di nuovo dietro i suoi occhialetti a mezzaluna. Dopo quasi un minuto che ha gli occhi piantati nei miei, si leva gli occhiali e ne prende un altro paio da un cassetto sotto la scrivania. Li pulisce con tutta la calma del mondo e finalmente se li infila.
“Tu sei quello che lavorava qui tempo fa” ricorda sporgendosi un po’ di più verso di me e allungando pericolosamente una mano verso i miei capelli. “Quello che mio marito diceva che mangiava i bambini”
“Che cosa?” esclamo. Da dove cazzo arriva sta storia?
“No, lascia perdere. Comunque non assumiamo” chiude lei e finalmente sposta il suo sguardo verso qualcosa che non sia io. Seguo la direzione dei suoi occhi fin dietro di me, dove una bambina che avrà sì e no cinque anni sta giocando su un tappeto giallo vomito. Mi guarda e mi sorride contenta. La vecchia alla cassa, dopo aver notato che anch’io sto guardando la bambina, si precipita verso di lei con un’agilità che mai le avrei dato e la prende tra le braccia.
“Altro da chiedere?” domanda impaziente, sbattendo il piede destro sul pavimento. Scuoto la testa, ripensando ancora alla musica di Satana e a me che mangio bambini.
“E adesso dov’è che andiamo?” vuole sapere Steven appena mettiamo piede fuori da quel negozio che puzzava di vecchio e di chiuso.
“Non lo so”

 
Sento la porta di casa aprirsi e Slash salutare, la voce di mio fratello che gli risponde. Lascio sulla scrivania i fogli che stavo leggendo distrattamente e faccio capolino dalla porta.
“Ciao” Jeff mi rivolge un sorriso a trentadue denti. “Pensavo ti avrebbe fatto piacere un’amica”
Da dietro le sue spalle spunta Jennifer, la mia pseudo sorella. Trattengo a stento un urletto, prima di correre ad abbracciarla.
“Ma che cazzo ci fai qui?” mi chiede quando sciogliamo quell’abbraccio. Scuoto la testa e la porto nella stanza dov’ero prima, abbiamo parecchio di cui parlare.
 
“Quindi dovrei venire un finesettimana sì e uno no, farmi un turno da dieci ore consective per prendermi sette dollari ogni volta che vengo?”
“Esatto”
Squadro il proprietario della pizzeria che mi ha proposto questo lavoro, tentando di capire se mi stia prendendo per il culo o se stia parlando sul serio.
“Mi stai prendendo per il culo o stai parlando sul serio?”
“Sono serissimo”
“Questo è sfruttamento”
“Sei maggiorenne e vaccinato, sei pagato e sei coperto dall’assicurazione”
“E se rinunciassi all’assicurazione? Non credo di rischiare la vita portando pizze ai tavoli”
“Stiamo cercando un cameriere perché l’ultimo si è tagliato due vene con un piatto rotto”
Rabbrividisco e guardo Steven, qualche decina di centimetri sotto di me. Mi rivolge una faccia rassegnata.
“Sempre meglio di niente” mi suggerisce. Accetto il lavoro a malincuore. Sette dollari ogni volta che vado significano quattordici dollari per finesettimana. Considerando che devo andare un finesettimana sì e uno no, sono ventotto dollari al mese. Appunto quel numero nella mia mente. Ora, pensando che per l’ultima spesa io e Jeanette abbiamo speso cento dollari, togliendone magari venti per i detersivi (possiamo anche vivere in una casa sporca senza problemi), la spesa ci costerebbe ottanta dollari a settimana. Trecentoventi al mese. E io ne tiro su ventotto, in un mese.
Rivolgo uno sguardo sconsolato a Steven, seduto sulla panchina di fronte a me, che sto camminando come un forsennato sullo stesso metro quadrato da un quarto d’ora.
“Andiamo a trovare un lavoro anche per te” sospiro.

 
“Ma aspetta, c’è una cosa che non mi torna” mi blocca Jennifer, mentre le sto raccontando di quell’assurda scommessa che ho fatto con Axl e Duff e della quale loro si sono già dimenticati, molto probabilmente. La ascolto paziente, prendendo una cucchiata del gelato che abbiamo fregato dalle mani di Slash poco fa.
“L’ultima volta che ci siamo viste eravamo a Las Vegas più o meno un anno fa. Io ero con il giocatore di poker e tu eri con quel cantante con la bocca larga. Come ci sei arrivata in California?”
Rido per l’aggettivo che Jen ha usato per descrivere Steven. Era un po’ che non ridevo, e a momenti mi uccido strozzandomi con il gelato. Tossisco un attimo prima di risponderle.
“Ti ricordi che ero in tour con loro, no? Un mese dopo siamo arrivati a Los Angeles e lì mi ha mollata. Avevo sentito dire che Jeff viveva in città e quindi mi sono sistemata qui”
“Ma non ci avevi litigato, con Jeff?”
Abbasso la testa, riflettendo su quanto avevo raccontato a Jennifer riguardo la storia della mia vita prima del collegio. E’ lì che l’ho conosciuta, in quella specie di scuola nella quale i miei mi avevano mandata per liberarsi di me. Lei era la mia compagna di stanza, insieme ad altre due ragazze che, a detta delle suore che gestivano tutto, ‘Avevano ricevuto la chiamata del nostro Signore’ e avevano deciso di frequentare quel collegio. Io e Jennifer ci siamo sempre tenute a distanza da loro, non volevamo essere contagiate. Così abbiamo stretto amicizia. Abbiamo condiviso tutto, nella candida innocenza che contraddistingue i bambini. Vari ricordi mi tornano in mente, il migiore è quello della prima volta che mi sono arrivate le mestruazioni. Chiamai Jennifer spavenatissima, con le lacrime agli occhi. Le dissi che non capivo come ma mi ero tagliata in mezzo alle gambe senza accorgermene. Lei era più spaventata di me, anche perché le suore ci avevano sempre detto che quel buchetto che abbiamo in mezzo alle gambe è il male e che se ci avessero scoperto intente ad usarlo ci avrebbero tagliato la lingua. Sempre state simpatiche, le suore. Visto che alla lingua ci tenevamo e non volevamo certo farcela tagliare, riparammo al danno tamponando con un po’ di fazzolettini. Passammo la serata a tamponare in mezzo alle mie gambe, ma il sangue non si decideva a fermarsi. Quando, la mattina dopo, mi accorsi di aver macchiato il letto, cominciammo a piangere, convinte che se le suore ci avessero scoperte non avremmo più potuto parlare per il resto delle nostre vite. Le altre due compagne di stanza, da brave bambine, corsero a dire tutto alla direttrice del collegio, che quel pomeriggio mi portò via dalla classe di storia senza lasciarmi finire la lezione. Non che me ne importasse tanto, anzi: quella strega mi aveva appena salvato dal classico discorso di fine ora su quanto il nostro Dio ci amasse e cazzate varie. Mi ritrovai nell’ufficio della direttrice, in piedi davanti alla sua scrivania, a fissare il pavimento. Quando lei mi guardò con quei suoi occhi blu ghiaccio che riuscivano a farti pentire anche se non avevi fatto nulla, istintivamente serrai le labbra: la mia lingua non sarebbe stata tagliata per nulla al mondo. La suora mi chiese di riassumerle cos’era successo e io, come sempre, mentii. Dissi che mi ero tagliata una coscia. Ovviamente, quella strega non ci credette. Dopo mezz’ora sotto lo sguardo di quegli occhi tremendi, vuotai il sacco e le spiegai che dal pomeriggio precendente continuavo a sanguinare e non capivo perché, che io non avevo fatto niente, che non sapevo nemmeno come si usava quel buchetto che avevo in mezzo alle gambe. Lei, in tutta la sua magnanimità, mi spiegò che avrei sanguinato così una volta al mese, per più o meno cinque giorni, e che quando sarebbe successo gliel’avrei dovuto dire immediatamente. Annuii, continuando a fissare il pavimento. Lei mi diede una carezza sulla nuca e mi consegnò delle specie di fazzoletti da mettermi nelle mutandine.
“Ma quel buchetto come si usa?”
“Meno ne sai e meglio è”
“Ma se magari lo uso per sbaglio e non me ne accorgo perché non so come si fa?”
“Isbell, conoscendoti, sono sicura che imparerai ad usarlo molto presto”
Una settimana dopo mi ero già dimenticata delle mestruazioni e di tutto quel panico che mi aveva preso: il mio unico dubbio era come si usava quel dannatissimo buco. Tentai tutte le teorie con Jennifer, finchè una suora ci sentì e tornai nell’ufficio della direttrice, pronta per un’altra lavata di capo.
“Ragazze, io non so cosa fare con voi. Volete sapere come si usa? Ve lo spiego, se volete. Ma sappiate che è peccato e che se il Signore vi vedrà vi punirà. Andrete all’inferno. Non potrete più fare un sacco di cose”
Vedendo che le nostre facce non erano per niente preoccupate, ma che la curiosità cresceva sempre di più, la direttrice sospirò e ci spiegò che i maschi non avevano quel buchetto, avevano un bastoncino, e che a parecchie persone piaceva infilarsi quel bastoncino in quel buchetto. Lì per lì ci mettemmo a ridere come pazze, ma la sera una nuova idea si era già insinuata nelle nostre testoline: se c’era così tanta gente che faceva questa cosa, non doveva essere poi così male.
“Jennifer, dobbiamo trovare un maschio e chiedergli di provare”
“I maschi sono dall’altra parte del collegio e neanche possiamo parlarci. E se facciamo tutto tra di noi?”
“Ma tu non hai il bastoncino”
“Ma secondo me non serve per forza. Cioè, secondo te quanto grosso è, questo bastone?”
Ci riflettei un po’. Non era una domanda così facile. Jennifer propose la sua teoria.
“Qualcosa come un dito?”
Mi mostrò la sua manina. Valutai quell’idea, e alla fine convenni che dovesse essere così. E poi nulla, qualche anno dopo scoprii che il bastoncino non era grosso come un dito e che in un carto senso avevo perso la verginità con la mia migliore amica, quando avevamo appena dieci anni. E da quell’episodio ho imparato che è sempre bene informarsi, prima di fare qualcosa.
Condividemmo parecchie altre situazioni scomode e uscimmo brillantemente da tutte, finchè una sera decisi di andarmene con il mio ragazzo, con il quale stavo insieme clandestinamente da più o meno sette mesi. Salutai Jennifer e me ne andai. Non so quanto tempo passò prima che anche lei decidesse di uscire da quella scuola, ma appena un anno dopo la ritrovai da qualche parte in Illinois. La reincontrai l’anno dopo, e l’anno dopo ancora. Forse è vero che certe persone sono destinate a stare insieme.
 
“Io sono stata adottata” le dico tutto d’un fiato, lasciandola un attimo con la bocca spalancata. “L’ho scoperto un paio di giorni fa. Da lì il mio rapporto con Jeff è abbastanza cambiato, ci siamo avvicinati di colpo”
Lei annusice, incapace di dire qualsiasi cosa.
“Mi dispiace”
“Non è una gran cosa, ho sempre odiato i miei e tutto il resto di famiglia. E’ solo che mi sono sentita persa”
“E’ per questo che ultimamente sei così strana?”
Guardo Jennifer senza capire.
“Jeff mi ha detto che ultimamente vuoi sempre stare da sola, litighi con tutti, non vuoi uscire… E’ per questo che mi ha chiesto di venire qui da te” mi spiega lei.
Le racconto brevemente di come io e Axl siamo finiti a farci prendere a pugni senza un motivo logico. Rabbrividisco al ricordo. Lei non si perde nemmeno una parola della storia, mi guarda con un non so che di spaventato.
“E quindi non vuoi mai più uscire o incontrare gente?”
“Non lo so” rispondo sinceramente. Non so davvero cosa fare. Non posso certo segregarmi in casa per sempre, ma ho paura ad uscire. Ne ho davvero tanta.
 
Tornando a casa, io e Steven incrociamo Axl, che con infinita nonchalance imbocca un’altra strada che, tra parentesi, è un vicolo cieco.
“Non attacchiamo la lebbra” gli urlo, per poi vederlo uscire dopo un paio di minuti e unirsi di malavoglia a noi. Non capisco che cazzo abbia contro Steven, o contro tutta la specie umana in generale. Lui non vuole averci niente a che fare.
“Duff ha trovato un lavoro” improvvisa una conversazione Steve, ma non viene ascoltato da nessuno e gli ultimi dieci minuti di strada passano nel silenzio più assoluto.

 
Mi chiedo perché quel nostro bravo Dio che ci ama tanto ha spinto Slash a chiamare Steven, quella sera in cui cercavamo un batterista. E soprattutto, perché sempre quel buon Dio mi ha mandato in casa una che l’ha fatto tornare indietro quando finalmente se n’era andato. Non lo sopporto, cazzo. E’ un bambino. Solo a guardarlo, si capisce che è un bambino. Perché ho ascoltato Duff, quando mi diceva di non fidarmi delle apparenze e di lasciarlo entrare nella band? Perché tengo ancora in piedi una band, se tanto abbiamo finito di suonare, per questa vita? Perché per loro mi sto mettendo nei casini con Joe e quella sua cazzo di idea con la quale mi rompe da quando l’ho conosciuto?
 
Entriamo in casa e Steven comunica subito la notizia del mio nuovo lavoro a tutti. Slash, in un momento di euforia, mi abbraccia, rimanendoci un po’ male al sapere che guadagno ventotto dollari al mese. Ma sempre meglio di niente, insomma.
“Anch’io ho trovato qualcosa” ci dice Axl, riallacciando finalmente i contatti con quei poveri umani al di sotto di lui. Lo squadriamo tutti, ansiosi di sapere cos’è riuscito a trovare. Anche se la cosa che ci interessa è quanti soldi riesce a portare a casa, sinceramente.
“Non è nulla di sicuro, un’idea che avevo con un mio amico tempo fa. Domani devo trovarmi di nuovo con lui e sentire se può funzionare”
”E che succede se funziona?” vuole informarsi Slash. Axl sospira.
“Tanto, se siete disposti a rischiare e tenere la bocca chiusa”
“Allora forse è meglio se me ne vado, io non so tenere la bocca chiusa” lo interrompe una voce femminile che non riconosco. Quando tolgo gli occhi da Axl e seguo la direzione dalla quale proviene la voce, il mio cuore perde un battito: è quella rompicoglioni della cugina di Jeff.
“Ve la ricordate, la mia pseudo cugina, no?” la presenta lui, senza alcun bisogno: dopo che una ti rompe le palle per settimane, è impossibile dimenticarsela.
“Sì, la ricordiamo tutti” mormoro a denti stretti, sperando che sia qui solo per una visita ai suoi pseudo parenti, che non capisco perché siano pseudo e non parenti effettivi, e che se ne vada al più presto.
“Allora, forse devo spiegarvi come mai Jeff mi chiama pseudo cugina, non credo di avervelo raccontato, l’altra volta” si offre lei, arrivandomi di fianco.
“Io stavo parlando” le ricorda Axl, abbastanza contrariato.
“Me lo ricordavo, questo brutto caratterino, però è peggiorato parecchio” gli risponde lei con un tono da mamma protettiva, che per lui è decisamente troppo. Se ne va in camera sua sbattendo la porta, lasciando tutti con il dubbio di cos’abbia trovato e una rompicoglioni in salotto.

 
La porta che sbatte mi fa sussultare. Guardo Axl entrare incazzato e buttarsi sul suo letto, senza badarmi di striscio. Dopo cinque minuti buoni, si decide a parlarmi.
“Esci”
“No”
“Fottiti”
Ripiomba il silenzio, fino a quando il gli chiedo: “Hai voglia di gelato?”
Più che altro glielo sto offrendo perché se lo finisco io mi tocca mettere a posto tutto.
“No, non ci tengo a ingrassare come sta succedendo a te, che ogni giorno sei sempre peggio”
Mi alzo dal letto e mi avvicino a quello del rosso con la bocca semiaperta, cercando qualcosa da dire. Non riesco a formulare qualcosa di adeguatamente cattivo. Mi ha spenta. Mi ha detto che sono grassa. Che sono brutta. Lui che il secondo giorno che ci conoscevamo voleva già scoparmi.
Rimango un po’ a cercare ancora quella frase perfida da urlargli, ma non mi esce nulla. Alla fine, arresa, torno in salotto, dove Jeff e Jennifer stanno intrattenendo gli altri, che lo ascoltano poco interessati.
“E quindi la chiami cugina perché sarebbe la pseudo sorella di Jeanette perché si vogliono bene ma tu non te la sentivi di chiamarla sorella e quindi la chiami cugina” tenta di capire Slash, che tra tutti sembra quello meno annoiato.
“Esatto, bravo Slashy” gli risponde lei, beccandosi una fulminata che avrebbe ucciso praticamente qualsiasi persona tranne lei.
 
Alzo gli occhi e vedo Jeanette, appoggiata alla porta della camera di Axl. Sta guardando la sua amica con un sorriso malinconico. Sempre meglio di niente. Almeno sorride. Quando si accorge che la sto fissando, sorride debolmente anche a me. Abbasso la testa e mi metto a guardare un punto indefinito sul tappeto. Mi vergogno ancora di quallo che ho fatto stamattina.
Visto che la sfiga mi ama e mi accompagna in ogni secondo della mia vita, Jeanette si siede sul tappeto, esattamente di fronte a me.
“Non mi hai detto come conosci i ragazzi” chiede a Jennifer, quasi in un sussurro.
“Allora…” inizia l’interpellata, con quella sua voce stridula e insopportabile. Continuo a fissare il tappeto, mentre Jennifer ripercorre il momento in cui ha conosciuto Jeff, in cui ha scoperto che è il fratello di Jeanette (cosa che non era mai arrivata alle nostre orecchie fino a qualche settimana fa), in cui ha scoperto che aveva un gruppo e in cui ha deciso che avrebbe seguito il gruppo dovunque fosse andato perché lei voleva imparare a suonare il basso. Il resto della storia lo so perfettamente: mi è stata attaccata come una cozza per settimane, con la scusa di queste lezioni di merda. Alla fine Axl ha fatto qualcosa, una sera, e il giorno dopo lei si era dileguata. E’ stato uno dei pochi momenti in cui ho adorato il rosso.

 
Quando Jennifer, con grande gioia di tutti tranne me, finisce di raccontare la sua storiella, decide che è ora di tornare a casa. La saluto il più lentamente possibile, non voglio che se ne vada.
“Tanto domani torno” mi dice. Noto un’espressione d’orrore farsi strada sul viso di Duff.
“E domani sera usciamo” aggiunge, facendo comparire la stessa espressione d’orrore sulla mia faccia.
“D’accordo” mormoro.
Lei mi stampa due baci sulle guance prima di aprire la porta e andarsene. Slash, Jeff e Steven si rintanano tutti nelle proprie stanze, lasciando me e Duff soli in salotto. Lui mi sembra strano, a disagio quasi. Non ci bado più di tanto, non ho affatto voglia di fare conversazione, e mi stendo sul divano, sistemando la coperta alla meno peggio.
”Come stai?” mi sento chiedere.
“Tutto bene” taglio corto. Lasciami dormire, Duff.
“D’accordo. Buonanotte, allora”
“Notte”


E’ incazzata. Perché io sono un coglione e devo fare la prima cosa che mi passa per la testa, senza nemmeno pensarci un minuto.
 
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Ciao, sono sempre quella piccola mente bacata che scrive sta storiellina. Mi dispiace se vi ho fatto aspettare secoli (ormai lo dico ad ogni capitolo) e se la storia sta facendo sempre più schifetto (almeno, a me sembra così e vorrei sotterrarmi ma l’idea che ho sul finale mi piace troppo e quindi devo continuare a fare capitoli di merda fino al finale, sorry).
La smetto di lamentarmi, grazie se continuate ancora a seguire la storia, davvero.
Un bacione, ross.
 
  
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