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Autore: _Arika_    05/08/2008    2 recensioni
-Conosci i Sayan?
Lektar sembrava leggere i miei pensieri. Mi scrutava in attesa che dentro di me prendessi una decisione.
Decisi di mantenere una linea il più corretta possibile.
-Non credo di poterti dire davvero come li conosco- dissi –Però vengo da talmente avanti nel tempo che non credo di poter essere un pericolo per voi. Io non sono una Sayan, se questo può tranquillizzarti, ma sono sicura che l’avessi già capito. E’ anche vero quanto ho detto prima, e cioè che la mia razza è molto debole, quindi non credo di poter essere un pericolo. E in ogni caso io NON VOGLIO, essere un pericolo.
Lektar si avvicinò di nuovo e si risedette sul cubo bianco.
–Quindi li conosci da vicino, se dici che è per via del divario temporale che non puoi essere un pericolo.
Anuii lentamente. –Li conosco bene. Ma nel mio mondo credo che loro siano molto diversi da come credo siano nel vostro.
-Sono esseri crudeli e sanguinari?
-No.
-Allora sì, sono molto diversi.
Genere: Drammatico, Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Nuovo personaggio, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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LA GUERRA DEI MONDI

LA GUERRA DEI MONDI

 

DISCLAIMER: Vegeta, Bulma, Crilin e Yamcha sono personaggi del manga Dragon ball di Akira Toriyama. Jasper, Lektar, il popolo degli Skatos, Spartack, Celia e il Vegeta del passato sono invece personaggi frutto della fantasia dell’autrice. La presente storia non persegue scopo di lucro, e ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.

Non si dichiara intesa nessuna violazione delle norme riguardanti il diritto d'autore.

E' possibile utilizzare personaggi, trama o parti del testo solo con il consenso dell'autrice.

 

PARTE OTTAVA: …VEGETA…?

Spartack diede l’ordine alle terze classi di avvicinarsi alla città dal lato ovest, distruggendo tutto ma restando a debita distanza.
Dalle retrovie il Sayan riusciva a vedere gli Ozaru avanzare scompostamente in direzione della città, emettendo raggi dalle grosse fauci e battendosi i pugni sui petti possenti.
Accanto a lui Celia agitava la coda con impazienza.
Spartack attese che gli Ozaru fossero a pochi metri dall’ingresso.
-Puoi andare-disse a Celia, continuando a fissare le grandi scimmie senza alzare gli occhi al cielo. Non poteva trasformarsi, doveva restare lucido e controllare.
La ragazza annuii con la testa, poi sparì nella vegetazione senza alzarsi in volo, diretta verso la porta a Est della città.
Con un po’ di fortuna sarebbe entrata senza problemi.
Ma Spartack non riusciva a essere calmo. Aveva paura che la figlia e il ragazzo non si sarebbero limitati a scappare, finendo poi con essere ammazzati dalle macchine degli Skatos.
Se Vegeta fosse stato in forze avrebbe fatto una strage, e Celia l’avrebbe seguito. Erano intelligenti, ma erano giovani, e questo bastava per essere un pericolo.
Spartack pensò a cosa avrebbe potuto fare Vegeta se fosse stato abbastanza in forze da stare in piedi.
Allora sperò che il ragazzo fosse vivo, ma che fosse abbastanza debole da non poter far altro che lasciarsi condurre in salvo.
Spartack diede l’ordine di lanciare una sfera d’energia davanti al cancello ovest quando vide la chioma nera della figlia rannicchiata davanti all’entrata est.
In pochi secondi un gruppo di Skatos apparve sulle mura in direzioni degli Ozaru.
Spartack sperò che fossero tutti lì, perché se qualcuno fosse rimasto a controllare le camere di sorveglianza sarebbe stato impossibile ignorare la figura snella e nervosa che scavalcava le mura e spariva nella città.
Guardando la figura della ragazza sparire, Spartack strinse i pugni e agitò la coda.
-Distruggete tutto!-urlò poi, in direzione degli Ozaru.

Nella mensa nessuno di mosse, quando ci fu la prima esplosione. Solo tutti tacquero, e una trentina di individui tra cui Jasper e Calisia si alzarono in piedi, dirigendosi ordinatamente verso l’uscita.
Quando andò via la corrente, invece, la sala cadde nel caos.
Dall’altro lato della stanza proruppe un urlo tanto lancinante da sembrare quello di un animale preso in  trappola. Sentii la mano di Lektar strisciare sulla panca e raggiungere la mia, esitare un istante poi, stringerla con forza.
-Non ti muovere-disse, avvicinando le labbra al mio orecchio affinchè Calisia, che alzandosi si era spostata e ora stava a pochi centimetri da me nel buio, non potesse sentirlo.
Sembrava di essere in mezzo a una mandria di animali imbizzarriti. Gli Skatos  che fino a pochi istanti prima mi sorridevano benevoli, ora correvano scompostamente  in direzione dell’uscita. Tutto intorno a me c’erano corpi che sbattevano tra loro, si spingevano e rovesciavano stoviglie che rimbalzavano sul pavimento con assordanti rimbombi metallici.
-State calmi, compagni. State calmi!-urlava inutilmente Jasper, ordinando allo stesso tempo a qualcuno vicino alla porta di sbarrare l’uscita.
Lektar mi portò la mano sulla schiena e mi spinse in avanti con decisione. Capendo la sua intenzione, mi spinsi in avanti con le braccia andandomi a sedere sul pavimento nel buco tra la panca e la gamba centrale della tavolata.
Sentii Lektar sedersi accanto a me. Non eravamo al sicuro, ma almeno non rischiavamo che qualcuno ci calpestasse.
O peggio ci dividesse.
Lektar con un braccio mi circondò una spalla e mi trasse a sé. Sopra di noi qualcuno sbattè contro la panca proprio dietro alla mia schiena. Il tessuto smorzò il rinculo, e io riuscii a non finire con la testa contro la gamba del tavolo.
-Reagiscono così perché senza la luce non riescono a pensare razionalmente- mi urlò Lektar in un orecchio. –Aspettiamo che si attivino i generatori di emergenza e si calmeranno.
Non pensai di chiedergli come mai lui fosse lucido, ma intuii che essere tra gli individui a capo della comunità voleva dire probabilmente essere superiori agli altri. E quello poteva essere un contesto in cui mostrarlo.
Sentii la voce di Jasper ordinare qualcosa a Calisia, poi il rumore di una grossa leva tirata verso il basso, e pochi secondi dopo una luce debole e sfarfallante illuminò la sala, diventando più forte e stabile man mano che avanzava il tempo.
Gli Skatos si immobilizzarono all’istante, separandosi gli uni dagli altri come avesse poggiato le mani su delle pietre arroventate.

Quando tornò il silenzio a parte le esplosioni, mi tolsi le mani dalla testa.
Lektar allentò la presa sulla mia spalla sotto il tavolo. Senza rendermene conto mi ero rannicchiata contro il suo petto in posizione fetale come un cucciolo con la mamma.
Quello sì che era stato un comportamento da animaletto spaurito.
Mi scostai bruscamente, guardandomi attorno per nascondere l’imbarazzo.
Sentii Jasper salire su uno dei tavoli. –Tornate ai vostri tavoli! La cena non è finita.
Ubbidienti gli Skatos tornarono ai propri posti, raccogliendo i piatti e posate che erano caduti come se niente fosse.
Io e Lektar tornammo a sederci sulla panca, ma un altro rombo esplose in lontananza.
Guardai Lektar sperando che anche lui come Jasper, Calisia e quegli altri 30 Skatos dovesse alzarsi e andare a controllare cosa stava succedendo, ma lui non si mosse.
Mi guardò con un’espressione mista fra imbarazzo e indecisione. Jasper gli aveva ordinato di tenermi lì in caso di un attacco, perché quello era un attacco, ci avrei scommesso quei pochi vestiti che avevo indosso, ma lui capiva benissimo che io non avevo intenzione di ignorare ciò che stava succedendo.
-Non posso portarti fuori-disse Lektar, quando il mio sguardo alla “bhe, e allora?” gli divenne insostenibile. –Tu non dovresti neanche sapere cosa sta succedendo.
Mi guardai attorno per controllare che nessuno ci ascoltasse. Tutti erano tornati a mangiare e conversare, e chi aveva rovesciato il piatto era tornato allo sportello, ma il nervosismo era palpabile.
O meglio non sembrava nervosismo, nessuno di loro pareva avere paura di ciò che stava succedendo. Al contrario quello che sentivo era impazienza. Voglia di andare alle macchine per combattere le immonde bestie.
Tornai a fissare Lektar. –Non ti aspetterai che faccia finta di niente mentre fuori succede il finimondo, vero?
Non sarei rimasta lì, con o senza il suo consenso.
Lektar cambiò espressione e aggrottò la fronte.
-Non andrai a vedere i Sayan, quindi che ti piaccia o no torna a mangiare il tuo frutto-disse, con un tono autoritario che suonò poco credibile tanto a me quanto a lui.
Fu in quel momento che mi resi davvero conto di essere una prigioniera. Se non avessi convinto Lektar a confidarsi con me non avrei saputo nulla di quel pianeta, e avrei passato le giornate a pochi metri dai Sayan senza saperlo. Per loro ero una minaccia, ero comunque una donna del futuro, per di più fisicamente più forte di loro.
Ospite un corno.
Anche se sapevo di non poter essere utile volevo uscire da quella stanza. Volevo vedere cosa stava succedendo. Non m’importava nulla di salvare o aiutare gli Skatos, ma nessuno dice a Bulma Brief che cosa può o non può fare.
Con rammarico, perché sapevo che lui non ne poteva nulla, pestai con forza un piede a Lektar, e benchè io fossi a piedi nudi e lui indossasse degli stivali che sembravano di pelle, sotto la pressione del mio tallone Lektar emise un gemito di dolore, sgranando gli occhi dalla sorpresa.
Attorcigliai un polpaccio su una sua gamba affinchè non potesse muoversi. –Adesso tu mi fai uscire di qua, non m’importa se poi mi accompagni o vai a chiamare le guardie, ma mi fai uscire di qua.
Parlai fissandolo dritto negli occhi, con  l’aria minacciosa che solo la cocciutaggine riusciva a farmi assumere.
Non avevo vissuto dieci anni con un Sayan per farmi dire da un debole capellone cosa potevo fare.
Non avevo vissuto con un Sayan per farmi dire da NESSUNO, cosa potevo fare.
Capendo che volevo solo che mi facesse uscire dalla sala, e poi sarebbe stato libero di farmi ricatturare, Lektar annuii lentamente con la testa.
Allentai leggermente la stretta sulla gamba e la pressione sul piede. –Non voglio che tu venga con me- aggiunsi, tornando al mio tono di voce normale. –Ma ho il pessimo difetto di non riuscire mai a farmi i fatti miei, e non posso restare qua a mangiare frutta mentre fuori infuria una guerra.
Mi dispiaceva metterlo in quella scomoda posizione, ma non potevo farci nulla.
Dal primo momento in cui aveva nominato i Sayan il mio desiderio era stato quello di vederli, come avevo desiderato vedere Freezer sentendo i racconti pieni di timore di Gohan e Crilin.
Ero una scienziata. Ogni cosa, anche la più pericolosa, era interessante sotto almeno un punto di vista.
Avevo trascorso la mia esistenza, confutando questa frase.
E non sarebbe stato Lektar a farmi cessare di essere Bulma Brief.
Lo Skatos mi guardò per un lungo istante come sperando che cambiassi idea. Io in tutta risposta cominciai di nuovo a premere sul collo del suo piede.
Con il volto contratto dal dolore, Lektar disse un –Va bene, va bene- finchè io non lasciai la presa.
In quel momento lui si alzò e mi fece un cenno con la testa in direzione dell’uscita.
Lo seguii in corridoio sotto gli sguardi curiosi dei suoi compagni.

Celia volò giusto il necessario per scavalcare il muro color cobalto. In lontananza sullo sfondo del cielo la sfera del campo centrale brillava in un’enormità ridicola. Non si sarebbe trasformata osservandola. Non emetteva radiazioni, solo una stupida luce che dissipava le nuvole su una volta celeste azzurra come una bestemmia.
Il rumore delle esplosioni giungeva attutito alle sue orecchie, benché il suo udito fosse il migliore tra tutti quanti, compresi Vegeta e suo padre.
Si guardò attorno, studiando le tre vie che da davanti alla porta dove stava lei si snodavano nel territorio ostile. Due costeggiavano le mura nelle due direzioni opposte, una, più larga e ben tenuta, portava direttamente al campo della sfera.
Sul fondo della via di destra, incastrato tra essa e quella centrale, lo spuntone dell’edificio dei laboratori svettava impunemente sul terreno.
Celia riconobbe l’edificio dai disegni che Spartack le aveva mostrato poco prima. Un semi ovale, che terminava sottoterra e non possedeva finestre. L’entrata era sul lato ovest, quindi esattamente dietro al lato che stava osservando lei.
Cercando di essere più silenziosa possibile, Celia si avvicinò all’edificio, ben consapevole che nessuno l’avrebbe vista.
-Quando partiranno gli allarmi-le aveva detto Spartack-i cittadini si rintaneranno nei seminterrati delle proprie case. Se non ti farai vedere scavalcando le mura nessuno ti disturberà fino all’edificio degli esperimenti.
Celia costeggiò l’ovale trovando l’entrata dell’inferno. Un pannello dinnanzi a lei chiedeva di poggiare il palmo destro per identificare il richiedente. Con un colpo silenzioso e ben assestano, Celia scardinò il pannello, e con una piccola onda d’energia ruppe il dispositivo che avrebbe azionato la sirena.
Era andato tutto a perfezione, ora non le restava che trovare Vegeta e andare via.
Come se fosse stata una cosa facile.

Lektar mi condusse fuori dalla sala mensa senza osare guardarmi in faccia. Il suo volto era un misto di rabbia e frustrazione. Non sarebbe venuto con me, ma sentivo il desiderio che aveva di seguirmi, di essere partecipe delle attività che quel fratello gli precludeva.
Lektar era l’emblema dei terrestri figli minori, di quelli che stavano sempre in seconda fila, vuoi perché il maggiore desiderasse proteggerli, o perché semplicemente non li giudicasse in grado di combattere.
Mi ricordava quel Trunks che ormai era così lontano di essere solo più un fantasma nei miei ricordi, perché mio figlio ogni giorno nelle sue certezze gli assomigliava sempre meno.
L’espressione di Lektar mi ricordava terribilmente Trunks, e sentire di star giocando col suo non essere in grado di nuocere ad alcuno mi faceva sentire una persona orribile, benché cercassi di non mostrarlo essendo grata che non mi stesse guardando e così non dovessi fingere.
Mi ricordava Trunks quando vedeva Vegeta andare ad allenarsi senza aspettarlo, quando lo sentiva parlare di Goku e aveva gli occhi di chi rimpiange di non riuscire a suscitare sentimenti così forti in qualcuno. Sentimenti d’odio, magari, ma comunque sentimenti.
Mi ricordava quanto avevo odiato Vegeta in quel periodo, quanto avevo trascorso il tempo con Trunks sia per amore che per cercare di non fargli notare l’indifferenza di quell’animale.
Di quanto Trunks avesse dovuto ripetermi tre volte come aveva reagito Vegeta alla sua morte, prima che io cominciassi anche solo a considerare il fatto di potergli credere.
Mi rendevo conto che quel camminare nel corridoio era il preambolo di un addio, comunque fosse andata quella sera, il nostro legame era ormai rotto.
Lektar mi aveva porto la catena che aveva al collo, e io l’avevo tirata per piegarlo al mio volere.
Mi sentii meschina, ma sapevo di non poter fare altrimenti.
Non potevo fingere in eterno che stare con quelle creature fosse una cosa accettabile. Non volevo arrivare al punto di dover far del male a un antenato di Vegeta per non tradire la fiducia degli Skatos.
La mia vita erano i Sayan, non le creature che cercavano di sterminarli.
Le guerre non sono mai contro buoni e cattivi, ma dovevo scegliere da che parte stare. E volevo tornare a casa, con gli Skatos sarebbe stato semplice aspettare quei quattro giorni prima della riparazione della macchina, ma volevo avere il coraggio di guardare in faccia Vegeta, quando sarei tornata.
Gli Skatos mi vedevano come una minaccia, e forse la cosa migliore era far vedere loro che non sbagliavano.
Lektar mi condusse fino alla sala dello schermo. Di lì vidi la sagoma di cinque grosse scimmie che avanzavano verso quello che doveva essere uno degli ingressi della città.

La vista di quegli animali mi stranì.
Fissai lo schermo per alcuni istanti come una persona che va a riconoscere un cadavere e si rende conto di essere di fronte al corpo di una persona diversa da quella che si aspettava.
Erano anni che non vedevo una di quelle scimmie, e pensare che uno di loro potesse essere un antenato di Vegeta mi riempiva di un disgusto che mi lasciava piena di dubbi.

Guardando gli animali avanzare verso l’obbiettivo dello schermo, mi resi conto di cosa dovevano essere i Sayan per Lektar e i suoi simili.
Degli animali feroci, delle bestie.
Niente a che vedere con lo scontroso ma pur sempre umano Sayan che io avevo in casa.
L’avevo anche convinto a tagliarsi la coda, perché l’evidenza di quella diversità mi disturbava al punto di rendermi nervosa ogni qualvolta mi si avvicinava sventolando quella cosa che ostinatamente continuava a ricrescere.
Eppure i Sayan erano loro, quelli che vedevo riflessi in quello schermo. Non Goku o il Vegeta che conoscevo io.
Se quelli erano i Sayan, chi era il padre di mio figlio?

Era quella la natura di Vegeta prima di arrivare sulla Terra?
Improvvisamente pensai che non ero più tanto sicura di voler conoscere il passato dei Sayan.

Lektar mi guardava con un’espressione che non riuscivo a decifrare.
-Sono diversi da come li conosci tu?-disse, con un tono neutro da perfetto estraneo.
Annuii sentendo un’esplosione in lontananza. –Sì...molto diversi…
Lektar sentiva il mio turbamento. Era combattuto tra il desiderio di cacciarmi via con quelle bestie che sembravano interessarmi tanto e l’istinto di tenermi lì, debole e cocciuta, al riparo dai Sayan.
Credo che dentro di lui si agitassero emozioni che non riusciva a decifrare, come un cieco per la volta con gli occhi funzionanti davanti al mondo e ai suoi colori.
Non riusciva a volermi male, ma al tempo stesso temeva i danni che avrei potuto arrecare a lui e alla sua gente.
Vedendo che la mia determinatezza era scemata con la mia risposta, si avvicinò e lentamente mi prese una mano tra le sue. –Non so che gesti usate sul tuo pianeta in queste situazioni. Ma non sei costretta ad andare. Possiamo tornare indietro e dirò che dovevi solo andare in bagno.
Era più una supplica che una proposta.

Ti prego, cambia idea…

In quel breve pomeriggio, ero diventata un’amica che non voleva abbandonare. Una persona da significasse qualcosa in più di una fredda e insensibile macchina.
Mi aveva mostrato la catena che portava al collo.
E anche se l’avevo tirata, ero l’unica a conoscerlo davvero.
Stavo per dirgli che quanto avevo visto mi bastava, che non avrei avuto nulla a che spartire con i Sayan del suo tempo come non avrei avuto nulla a che spartire con i primati terrestri da cui la mia razza era discesa.
Che potevamo tornare indietro.
Avevo visto abbastanza.
Ma in quel momento sulla soglia della sala comparve il ragazzo la cui vista mi colpì come una bastonata in pieno viso.
-E’ qui lo schermo! Ce…
Il ragazzo si interruppe vedendo me e Lektar nella stanza.
Con il petto coperto di sangue raggrumato, una spalla lasciata penzoloni in maniera innaturale accanto al corpo e un lungo sfregio ad attraversargli il viso e quasi tagliargli gli occhi ardenti di febbre e ira, un giovane Vegeta ci stava fissando come un leone avrebbe fissato una gazzella ben pasciuta.

Vegeta fissò lo Skatos e subito lo riconobbe.
La somiglianza con lo scienziato che pochi minuti prima gli aveva distrutto la clavicola era impossibile da ignorare.
Accanto a lui c’era una donna. Non una Skatos, una vera e propria donna.
Nel lungo istante in cui i tre rimasero a fissarsi, Vegeta registrò un gran numero di informazioni.
Primo: né lo Skatos né la donna avevano armi in evidenza. La donna non ne portava di sicuro, indossava solo una maglia mezza stracciata e dei pantaloni aderenti, la protuberanza di qualsiasi oggetto sarebbe stato più che evidente. Aveva inoltre un livello combattivo molto basso. Lo Skatos indossava la tunica d’ordinanza, quindi doveva stare attento, non sapeva cosa potesse nascondere sotto il tessuto immacolato.
Secondo: la donna non era una Skatos, ma non era una Sayan, non era di nessuna delle razze che Spartack gli aveva descritto nelle lunghe lezioni sull’universo nei cinque anni d’insegnamento da bambino.
Era più vecchia di lui, non molto alta, un corpo le cui rotondità forse potevano significare che aveva avuto figli, ma non poteva dirlo con certezza. Non costituiva una minaccia in ogni caso. Lo guardava con un’espressione talmente stranita che pareva di fronte a un morto.
O non aveva mai visto un Sayan coperto di sangue, o ne aveva visti, e sapeva che la parola Sayan non significa mai nulla di buono.
Terzo: gli Ozaru erano quasi arrivati alla porta della città, in pochi minuti avrebbero smesso di avanzare e gli Skatos avrebbero capito che si trattava di un diversivo. Doveva muoversi ad andarsene.
Tutte queste informazioni gli attraversarono la mente nonostante la febbre stesse cercando di annientarlo. Vegeta cercò di mantenersi lucido e di ignorare la clavicola fratturata che pulsava prepotentemente, in conseguenza alla corsa che aveva appena compiuto.
Dovevano andarsene. L’idea di uccidere quello Skatos e quella donna non lo attirava come si sarebbe aspettato da stesso. Aveva atteso e sopportato troppe ore legato a quella lastra per mandare tutto in fumo giocherellando con due esseri così deboli e inferiori per qualche minuto prima di essere ammazzato dagli Skatos.
Un ben gioco sarebbe stato avere il tempo di torturarli e essere abbastanza in forze da poter godere di ogni gesto, essere abbastanza lucido da poter prendere il viso dello Skatos tra le mani e guardarne  gli occhi terrorizzati. E poi divertirsi anche con quella donna, che per inciso non era proprio niente male, nonostante fosse vestita come un giocattolo sbrindellato e pettinata anche peggio.
Vegeta distolse gli occhi dai due esseri e fissò lo schermo, non l’avrebbero attaccato, e lui doveva capire bene dove si trovavano gli Ozaru.
Accanto a lui, Celia varcò la soglia della stanza.
-Ma
guarda un po’ chi abbiamo qui-disse la ragazza con un sorriso ferino in volto. –Due animaletti in trappola, direi.
Vegeta non si mosse mentre Celia varcava la soglia. Era stata in gamba, doveva ammetterlo, ma non potevano permettersi di stare  giocare con quelle insulse creature. Vegeta ricordò la macchina con cui gli avevano disintegrato le ossa prima di catturarlo.
Non poteva restare lì.
Non sarebbero mai usciti se fossero arrivati dei rinforzi.
-Lasciali perdere Celia,-disse-dobbiamo andare.
La ragazza si bloccò voltandosi a fissarlo. Probabilmente non riusciva a credere che lui non volesse restare per vendicarsi su quei due, nemmeno lui l’avrebbe mai pensato.
Spartack avrebbe definito il restare a trastullarsi un’occupazione da cuccioli egocentrici.
E anche se era vero che era giovane, Vegeta non era stupido.
Per quella giornata era già tanto essere riuscito a portare in salvo la pelle e avere ancora tutti gli arti attaccati al corpo. Non c’era bisogno di sfidare ulteriormente il fato. Sarebbe stato per un’altra volta, perché ce ne sarebbero state altre e lui sarebbe stato in forze e incattivito dall’attesa.
Celia continuava a fissarlo per capire se stesse dicendo sul serio. Vegeta venne scosso da un brivido febbrile e la vista gli si appannò per un istante.

-Muoviti!-ringhiò, appoggiandosi allo stipite dell’entrata con il braccio buono.
Celia gli si avvicinò e fece per mettersi sotto il suo braccio per sorreggerlo, ma lui la scansò e uscì dalla sala cercando di non barcollare più dello stretto necessario.
Probabilmente fu in quel breve istante che lui passò strizzando gli occhi e cercando di resistere al pulsare frenetico della spalla, che lo Skatos estrasse l’arma e gliela puntò contro.
Percepì il rumore dell’aria sferzata dall’anello radioattivo troppo tardi, solo quando il colpo venne silenziosamente esploso fuori dall’arma, e anche se l’avesse percepito in tempo non sarebbe riuscito a scansarsi, era troppo debole per farlo.
Celia invece se ne accorse, con una sfera di energia cercò di colpire il raggio ma questo si divise e le colpì il polso da cui aveva scagliato l’onda, spingendolo verso il basso e inchiodandolo al pavimento.

Vegeta vide l’anello viaggiare nell’aria ad altezza d’uomo. Ad altezza di Sayan, ad altezza sua.
Venne sbalzato indietro contro la parete e l’anello gli si serrò attorno alla gola conficcandosi alle estremità nella parete del corridoio. Sentì un plop leggero e solo allora si rese conto che quella non era l’arma con cui l’avevano catturato tredici anni prima.
A tenerlo spalle al muro e imprigionato alla gola era un anello metallico, una specie di collare che nel momento in cui si era conficcato nella parete aveva esploso la piccola camera d’aria che separava la sua pelle dal nudo acciaio. Adesso tra l’epidermide e il cerchio restavano solo un paio di centimetri.
Senza riflettere Vegeta pensò di reagire.
Ma stava per dare uno strattone contro l’anello per cercare di scardinarlo, quando una voce irruppe nel corridoio.
-NO! NON FARLO!
Vegeta si bloccò giusto in tempo per vedere Celia che, bloccata a terra dall’anello che le fermava il polso, non ascoltava la voce e dava uno strattone al vincolo di acciaio. E un cerchio di denti aguzzi che al contatto della pelle contro di esso saettavano fuori da piccole fenditure lacerandole la carne fino all’osso.
Celia lanciò un urlo che a Vegeta ricordò quello degli animali quando li colpivano agli arti per non far colare il sangue sulla carne viva. Come un animale di fronte a un laccio, Vegeta tirò indietro la testa contro la parete, la gola il più lontano possibile dall’anello.

Da quella posizione lo sguardo andò alla stanza dello schermo.
Sulla soglia la donna con gli aderenti pantaloni blu lo guardava con gli occhi sgranati di paura.
Accanto a lei lo Skatos era ancora immobile con l’arma puntata verso il suo volto.
Vegeta fissò la donna, gli occhi pieni di stupore per il colpo e per l’aiuto inaspettato.
Era stata lei a urlare.

Dallo sguardo pieno di stupore dello Skatos Vegeta capì che lei l’aveva fatto per impedirgli di ammazzarsi, non per catturarlo vivo.
La donna si incamminò verso di lui tendendo le mani in avanti e mormorando qualcosa che non comprese.
Vegeta continuò a fissarla ad ogni passo.

Quella donna gli aveva
salvato la vita.
E non per catturarlo.

Le donna si fermò davanti a lui e gli guardò il volto e poi il petto coperto di sangue.
-Non ti muovere…-disse, avvicinando piano le mani all’anello metallico.
Dietro di lei lo Skatos le urlò di fermarsi, ma lei lo ignorò.
Vegeta la sentii poggiare due dita sul lato inferiore dell’anello, percorrerlo delicatamente e poi fermarsi.
Con il tocco leggero di un attimo l’anello scattò da contro la parete e rotolò in terra.
Vegeta non si mosse mentre la donna chinava lo sguardo e gli osservava la depressione delle fratture all’altezza della clavicola.
-Cosa ti hanno fatto…
Stava per attaccarla e scappare, quando lo Skatos fece per avvicinarsi e toccare una spalle alla donna, ma lei senza voltarsi urlò: -NON MI TOCCARE! e lo Skatos si bloccò.
Stava per attaccarla ancora, quando la donna alzò gli occhi, e mormorò una frase stupida da dire a un essere che vive in guerra, ma con un’ultima parola che non gli consentì di colpirla a morte.

-Che cosa ti hanno fatto
Vegeta non si mosse e lasciò che la mano di lei arrivasse quasi a toccargli il petto.
Aveva gli occhi azzurri come il cielo sereno e senza nuvole.
E velati di lacrime come il cielo coperto, prima della pioggia.

Cosa ti hanno fatto…Vegeta…?

  

  
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