DISCLAIMER:
Vegeta, Bulma, Crilin e
Yamcha sono personaggi del manga Dragon ball di Akira Toriyama. Jasper, Lektar, il popolo degli Skatos,
Spartack, Celia e il Vegeta
del passato sono invece personaggi frutto della fantasia dell’autrice. La
presente storia non persegue scopo di lucro, e ogni riferimento a fatti o
persone realmente esistenti è puramente
casuale.
Non
si dichiara intesa nessuna violazione delle norme riguardanti il diritto
d'autore.
E'
possibile utilizzare personaggi, trama o parti del testo solo con il consenso
dell'autrice.
PARTE
OTTAVA: …VEGETA…?
Spartack
diede l’ordine alle terze classi di avvicinarsi alla
città dal lato ovest, distruggendo tutto ma restando a debita distanza.
Dalle
retrovie il Sayan riusciva a vedere gli Ozaru avanzare scompostamente in direzione della città,
emettendo raggi dalle grosse fauci e battendosi i pugni sui petti
possenti.
Accanto a lui Celia agitava la coda con impazienza.
Spartack attese che gli Ozaru
fossero a pochi metri dall’ingresso.
-Puoi
andare-disse a Celia, continuando a fissare le grandi scimmie senza alzare gli
occhi al cielo. Non poteva trasformarsi, doveva restare
lucido e controllare.
La ragazza annuii con la
testa, poi sparì nella vegetazione senza alzarsi in volo, diretta verso la porta
a Est della città.
Con un po’ di fortuna sarebbe entrata senza
problemi.
Ma Spartack non riusciva a essere calmo. Aveva paura che la figlia e il ragazzo non si
sarebbero limitati a scappare, finendo poi con essere
ammazzati dalle macchine degli Skatos.
Se Vegeta
fosse stato in forze avrebbe fatto una strage, e Celia l’avrebbe seguito. Erano
intelligenti, ma erano giovani, e questo bastava per essere un
pericolo.
Spartack pensò a cosa avrebbe potuto fare
Vegeta se fosse stato abbastanza in forze da stare in piedi.
Allora sperò che
il ragazzo fosse vivo, ma che fosse abbastanza debole da non poter far altro che
lasciarsi condurre in salvo.
Spartack diede l’ordine di lanciare una sfera d’energia davanti al
cancello ovest quando vide la chioma nera della figlia rannicchiata davanti
all’entrata est.
In pochi secondi un gruppo di Skatos apparve sulle mura in direzioni degli Ozaru.
Spartack sperò che
fossero tutti lì, perché se qualcuno fosse rimasto a
controllare le camere di sorveglianza sarebbe stato impossibile ignorare la
figura snella e nervosa che scavalcava le mura e spariva nella
città.
Guardando la figura della ragazza sparire, Spartack strinse i pugni e agitò la coda.
-Distruggete tutto!-urlò poi, in direzione degli Ozaru.
Nella
mensa nessuno di mosse, quando ci fu la prima esplosione.
Solo tutti tacquero, e una trentina di individui tra
cui Jasper e Calisia si
alzarono in piedi, dirigendosi ordinatamente verso l’uscita.
Quando andò via la corrente, invece, la sala cadde nel
caos.
Dall’altro lato della stanza proruppe un urlo tanto lancinante da
sembrare quello di un animale preso in trappola. Sentii la mano di Lektar strisciare sulla panca e raggiungere la mia, esitare
un istante poi, stringerla con forza.
-Non ti muovere-disse, avvicinando le
labbra al mio orecchio affinchè Calisia, che alzandosi si era spostata e ora stava a pochi
centimetri da me nel buio, non potesse
sentirlo.
Sembrava di essere in mezzo a una mandria
di animali imbizzarriti. Gli Skatos che fino a
pochi istanti prima mi sorridevano benevoli, ora correvano scompostamente in direzione dell’uscita. Tutto intorno
a me c’erano corpi che sbattevano tra loro, si spingevano e rovesciavano
stoviglie che rimbalzavano sul pavimento con assordanti rimbombi
metallici.
-State calmi, compagni. State calmi!-urlava inutilmente Jasper, ordinando allo stesso tempo a qualcuno vicino alla
porta di sbarrare l’uscita.
Lektar mi portò la mano
sulla schiena e mi spinse in avanti con decisione. Capendo la sua intenzione, mi
spinsi in avanti con le braccia andandomi a sedere sul pavimento nel buco tra la
panca e la gamba centrale della tavolata.
Sentii Lektar sedersi accanto a me. Non eravamo al sicuro, ma
almeno non rischiavamo che qualcuno ci calpestasse.
O peggio ci dividesse.
Lektar
con un braccio mi circondò una spalla e mi trasse a sé. Sopra
di noi qualcuno sbattè contro la panca proprio dietro
alla mia schiena. Il tessuto smorzò il rinculo, e io riuscii a non finire
con la testa contro la gamba del tavolo.
-Reagiscono
così perché senza la luce non riescono a pensare razionalmente- mi urlò Lektar in un orecchio. –Aspettiamo che si attivino i
generatori di emergenza e si calmeranno.
Non pensai
di chiedergli come mai lui fosse lucido, ma intuii che essere tra gli individui
a capo della comunità voleva dire probabilmente essere superiori agli altri. E
quello poteva essere un contesto in cui
mostrarlo.
Sentii la voce di Jasper ordinare
qualcosa a Calisia, poi il rumore di una grossa leva
tirata verso il basso, e pochi secondi dopo una luce debole e sfarfallante
illuminò la sala, diventando più forte e stabile man mano che avanzava il
tempo.
Gli Skatos si
immobilizzarono all’istante, separandosi gli uni dagli altri come avesse
poggiato le mani su delle pietre arroventate.
Quando
tornò il silenzio a parte le esplosioni, mi tolsi le
mani dalla testa.
Lektar allentò la presa sulla mia
spalla sotto il tavolo. Senza rendermene conto mi ero rannicchiata contro il suo
petto in posizione fetale come un cucciolo con la mamma.
Quello sì che era stato un comportamento da animaletto
spaurito.
Mi scostai bruscamente, guardandomi attorno per nascondere
l’imbarazzo.
Sentii Jasper salire su uno dei
tavoli. –Tornate ai vostri tavoli! La cena non è finita.
Ubbidienti gli Skatos tornarono ai propri posti, raccogliendo i piatti e
posate che erano caduti come se niente fosse.
Io e Lektar tornammo a sederci sulla
panca, ma un altro rombo esplose in lontananza.
Guardai Lektar sperando che anche lui come Jasper, Calisia e quegli altri 30
Skatos dovesse alzarsi e andare a controllare cosa
stava succedendo, ma lui non si mosse.
Mi guardò con un’espressione mista fra
imbarazzo e indecisione. Jasper gli aveva ordinato di
tenermi lì in caso di un attacco, perché quello era un attacco, ci avrei scommesso quei pochi vestiti che avevo
indosso, ma lui capiva benissimo che io non avevo intenzione di ignorare ciò che
stava succedendo.
-Non posso portarti fuori-disse Lektar, quando il mio sguardo alla “bhe, e allora?” gli divenne insostenibile. –Tu non dovresti
neanche sapere cosa sta succedendo.
Mi guardai attorno per controllare che
nessuno ci ascoltasse. Tutti erano tornati a mangiare e conversare, e chi aveva
rovesciato il piatto era tornato allo sportello, ma il nervosismo era
palpabile.
O meglio non sembrava nervosismo, nessuno
di loro pareva avere paura di ciò che stava succedendo. Al contrario quello che
sentivo era impazienza. Voglia di andare alle macchine per
combattere le immonde bestie.
Tornai a fissare Lektar. –Non ti aspetterai che faccia finta di niente mentre fuori succede il finimondo, vero?
Non sarei
rimasta lì, con o senza il suo consenso.
Lektar
cambiò espressione e aggrottò la fronte.
-Non andrai a vedere i Sayan, quindi che ti piaccia o no
torna a mangiare il tuo frutto-disse, con un tono autoritario che suonò poco
credibile tanto a me quanto a lui.
Fu in quel momento che mi resi davvero
conto di essere una prigioniera. Se non avessi convinto Lektar a confidarsi con me non
avrei saputo nulla di quel pianeta, e avrei passato le giornate a pochi metri
dai Sayan senza saperlo. Per loro ero una minaccia,
ero comunque una donna del futuro, per di più
fisicamente più forte di loro.
Ospite un corno.
Anche se sapevo di non
poter essere utile volevo uscire da quella stanza.
Volevo vedere cosa stava succedendo. Non m’importava nulla di salvare o aiutare
gli Skatos, ma nessuno dice a
Bulma Brief che cosa può o
non può fare.
Con rammarico, perché sapevo che lui non ne poteva nulla,
pestai con forza un piede a Lektar, e benchè io fossi a piedi nudi e lui
indossasse degli stivali che sembravano di pelle, sotto la pressione del mio
tallone Lektar emise un gemito di dolore, sgranando
gli occhi dalla sorpresa.
Attorcigliai un polpaccio su una
sua gamba affinchè non potesse muoversi.
–Adesso tu mi fai uscire di qua, non m’importa se poi
mi accompagni o vai a chiamare le guardie, ma mi fai uscire di qua.
Parlai
fissandolo dritto negli occhi, con l’aria minacciosa che solo la
cocciutaggine riusciva a farmi assumere.
Non avevo vissuto dieci anni con un
Sayan per farmi dire da un debole capellone cosa potevo fare.
Non avevo vissuto con un Sayan per farmi dire da NESSUNO, cosa potevo fare.
Capendo che volevo solo che mi facesse uscire dalla
sala, e poi sarebbe stato libero di farmi ricatturare,
Lektar annuii lentamente con la testa.
Allentai
leggermente la stretta sulla gamba e la pressione sul piede. –Non voglio che tu
venga con me- aggiunsi, tornando al mio tono di voce
normale. –Ma ho il pessimo difetto di non riuscire mai a farmi i fatti miei, e
non posso restare qua a mangiare frutta mentre fuori
infuria una guerra.
Mi dispiaceva metterlo in quella scomoda posizione, ma
non potevo farci nulla.
Dal primo momento in cui aveva nominato i Sayan il mio desiderio era stato
quello di vederli, come avevo desiderato vedere Freezer sentendo i racconti
pieni di timore di Gohan e Crilin.
Ero una scienziata. Ogni cosa,
anche la più pericolosa, era interessante sotto almeno un punto di
vista.
Avevo trascorso la mia esistenza, confutando questa
frase.
E non sarebbe stato Lektar a farmi cessare di essere Bulma Brief.
Lo Skatos mi guardò per un lungo istante come sperando che
cambiassi idea. Io in tutta risposta cominciai di nuovo a premere sul collo del
suo piede.
Con il volto contratto dal dolore, Lektar disse un –Va bene, va bene-
finchè io non lasciai la presa.
In quel momento lui
si alzò e mi fece un cenno con la testa in direzione dell’uscita.
Lo seguii
in corridoio sotto gli sguardi curiosi dei suoi compagni.
Celia
volò giusto il necessario per scavalcare il muro color cobalto. In lontananza
sullo sfondo del cielo la sfera del campo centrale brillava in un’enormità
ridicola. Non si sarebbe trasformata osservandola. Non emetteva radiazioni, solo
una stupida luce che dissipava le nuvole su una volta celeste azzurra come una
bestemmia.
Il rumore delle esplosioni giungeva attutito alle sue orecchie,
benché il suo udito fosse il migliore tra tutti quanti, compresi Vegeta e suo padre.
Si guardò attorno, studiando le tre
vie che da davanti alla porta dove stava lei si snodavano nel territorio ostile.
Due costeggiavano le mura nelle due direzioni opposte, una,
più larga e ben tenuta, portava direttamente al campo della sfera.
Sul
fondo della via di destra, incastrato tra essa e quella
centrale, lo spuntone dell’edificio dei laboratori svettava impunemente sul
terreno.
Celia riconobbe l’edificio dai disegni che Spartack le aveva mostrato poco
prima. Un semi ovale, che terminava sottoterra e non
possedeva finestre. L’entrata era sul lato ovest, quindi esattamente dietro al
lato che stava osservando lei.
Cercando di essere più silenziosa possibile, Celia si avvicinò
all’edificio, ben consapevole che nessuno l’avrebbe vista.
-Quando partiranno
gli allarmi-le aveva detto Spartack-i cittadini si
rintaneranno nei seminterrati delle proprie case. Se non ti farai vedere
scavalcando le mura nessuno ti disturberà fino
all’edificio degli esperimenti.
Celia costeggiò l’ovale trovando l’entrata
dell’inferno. Un pannello dinnanzi a lei chiedeva di poggiare il palmo destro
per identificare il richiedente. Con un colpo silenzioso e ben assestano, Celia
scardinò il pannello, e con una piccola onda d’energia ruppe il dispositivo che
avrebbe azionato la sirena.
Era
andato tutto a perfezione, ora non le restava che trovare Vegeta e andare
via.
Come se fosse stata una cosa facile.
Lektar mi condusse fuori dalla sala mensa senza osare
guardarmi in faccia. Il suo volto era un misto di rabbia e frustrazione. Non
sarebbe venuto con me, ma sentivo il desiderio che aveva di seguirmi, di essere partecipe delle attività che quel fratello gli
precludeva.
Lektar era l’emblema dei terrestri
figli minori, di quelli che stavano sempre in seconda fila, vuoi perché il maggiore desiderasse proteggerli, o perché
semplicemente non li giudicasse in grado di combattere.
Mi ricordava quel
Trunks che ormai era così lontano di
essere solo più un fantasma nei miei ricordi, perché mio figlio ogni
giorno nelle sue certezze gli assomigliava sempre meno.
L’espressione di
Lektar mi ricordava terribilmente Trunks, e sentire di star giocando col suo non essere in
grado di nuocere ad alcuno mi faceva sentire una persona orribile, benché
cercassi di non mostrarlo essendo grata che non mi stesse guardando e così non
dovessi fingere.
Mi ricordava Trunks quando vedeva Vegeta
andare ad allenarsi senza aspettarlo, quando lo sentiva parlare di Goku e aveva gli occhi di chi rimpiange di non riuscire a
suscitare sentimenti così forti in qualcuno. Sentimenti d’odio, magari, ma comunque sentimenti.
Mi ricordava quanto avevo odiato
Vegeta in quel periodo, quanto avevo trascorso il tempo
con Trunks sia per amore che per cercare di non fargli
notare l’indifferenza di quell’animale.
Di quanto Trunks avesse dovuto ripetermi
tre volte come aveva reagito Vegeta alla sua morte, prima che io cominciassi
anche solo a considerare il fatto di potergli credere.
Mi rendevo
conto che quel camminare nel corridoio era il preambolo di un addio, comunque fosse andata quella sera, il nostro legame era ormai
rotto.
Lektar mi aveva porto la catena che aveva al
collo, e io l’avevo tirata per piegarlo al mio volere.
Mi sentii meschina, ma
sapevo di non poter fare altrimenti.
Non potevo fingere in eterno che stare
con quelle creature fosse una cosa accettabile. Non volevo arrivare al punto di
dover far del male a un antenato di Vegeta per non
tradire la fiducia degli Skatos.
La mia vita erano
i Sayan, non le creature che cercavano di
sterminarli.
Le guerre non sono mai contro buoni e cattivi, ma dovevo scegliere da che parte stare. E volevo tornare a casa, con gli Skatos sarebbe stato semplice aspettare quei quattro giorni
prima della riparazione della macchina, ma volevo avere il coraggio di guardare
in faccia Vegeta, quando sarei tornata.
Gli Skatos
mi vedevano come una minaccia, e forse la cosa migliore era far vedere loro che
non sbagliavano.
Lektar mi condusse fino alla sala
dello schermo. Di lì vidi la sagoma di cinque grosse scimmie che avanzavano
verso quello che doveva essere uno degli ingressi della città.
La
vista di quegli animali mi stranì.
Fissai
lo schermo per alcuni istanti come una persona che va a
riconoscere un cadavere e si rende conto di essere di fronte al corpo di una
persona diversa da quella che si aspettava.
Erano anni che non vedevo una di
quelle scimmie, e pensare che uno di loro potesse
essere un antenato di Vegeta mi riempiva di un disgusto che mi lasciava piena di
dubbi.
Guardando gli animali avanzare verso l’obbiettivo dello schermo,
mi resi conto di cosa dovevano essere i Sayan per
Lektar e i suoi simili.
Degli animali feroci, delle
bestie.
Niente a che vedere con lo scontroso ma pur sempre umano Sayan che io avevo in
casa.
L’avevo anche convinto a tagliarsi la coda, perché l’evidenza di quella
diversità mi disturbava al punto di rendermi nervosa ogni qualvolta mi si
avvicinava sventolando quella cosa che ostinatamente continuava a ricrescere.
Eppure i Sayan erano loro, quelli che vedevo riflessi in quello schermo. Non Goku o il Vegeta che conoscevo
io.
Se quelli erano i Sayan, chi era il padre di mio figlio?
Era
quella la natura di Vegeta prima di arrivare sulla Terra?
Improvvisamente
pensai che non ero più tanto sicura di voler conoscere
il passato dei Sayan.
Lektar mi guardava con un’espressione che non riuscivo a
decifrare.
-Sono diversi da come li conosci tu?-disse, con un tono neutro da
perfetto estraneo.
Annuii sentendo un’esplosione in lontananza. –Sì...molto
diversi…
Lektar sentiva il mio turbamento. Era
combattuto tra il desiderio di cacciarmi via con quelle bestie che sembravano
interessarmi tanto e l’istinto di tenermi lì, debole e cocciuta, al riparo dai
Sayan.
Credo che dentro di lui si agitassero emozioni che non riusciva a decifrare, come un
cieco per la volta con gli occhi funzionanti davanti al mondo e ai suoi
colori.
Non riusciva a volermi male, ma al tempo stesso temeva i danni che
avrei potuto arrecare a lui e alla sua gente.
Vedendo che la mia
determinatezza era scemata con la mia risposta, si
avvicinò e lentamente mi prese una mano tra le sue. –Non so che gesti usate sul tuo pianeta in queste situazioni. Ma non sei costretta ad andare. Possiamo tornare indietro e
dirò che dovevi solo andare in bagno.
Era più una
supplica che una proposta.
Ti
prego, cambia idea…
In quel breve pomeriggio, ero
diventata un’amica che non voleva abbandonare. Una persona da significasse qualcosa in più di una fredda e insensibile
macchina.
Mi aveva mostrato la catena che portava al collo.
E anche se l’avevo tirata, ero l’unica a conoscerlo
davvero.
Stavo per dirgli che quanto avevo visto mi
bastava, che non avrei avuto nulla a che spartire con i Sayan del suo tempo come non avrei avuto nulla a che
spartire con i primati terrestri da cui la mia razza era discesa.
Che potevamo tornare indietro.
Avevo visto
abbastanza.
Ma in quel momento sulla soglia della
sala comparve il ragazzo la cui vista mi colpì come una bastonata in pieno
viso.
-E’ qui lo schermo! Ce…
Il ragazzo si interruppe vedendo me e Lektar
nella stanza.
Con il petto coperto di sangue raggrumato, una spalla lasciata
penzoloni in maniera innaturale accanto al corpo e un lungo sfregio ad
attraversargli il viso e quasi tagliargli gli occhi ardenti di febbre e ira, un
giovane Vegeta ci stava fissando come un leone avrebbe
fissato una gazzella ben pasciuta.
Vegeta
fissò lo Skatos e subito lo riconobbe.
La
somiglianza con lo scienziato che pochi minuti prima
gli aveva distrutto la clavicola era impossibile da ignorare.
Accanto a lui
c’era una donna. Non una Skatos, una
vera e propria donna.
Nel lungo istante in cui i tre rimasero a
fissarsi, Vegeta registrò un gran numero di
informazioni.
Primo: né lo Skatos né la
donna avevano armi in evidenza. La donna non ne portava
di sicuro, indossava solo una maglia mezza stracciata e dei pantaloni aderenti,
la protuberanza di qualsiasi oggetto sarebbe stato più
che evidente. Aveva inoltre un livello combattivo molto basso. Lo Skatos indossava la tunica d’ordinanza, quindi doveva stare
attento, non sapeva cosa potesse nascondere sotto il
tessuto immacolato.
Secondo: la donna non era una Skatos, ma non era una Sayan, non
era di nessuna delle razze che Spartack gli aveva descritto nelle lunghe lezioni sull’universo nei cinque
anni d’insegnamento da bambino.
Era più vecchia di lui, non molto alta, un
corpo le cui rotondità forse potevano significare che
aveva avuto figli, ma non poteva dirlo con certezza. Non costituiva una minaccia
in ogni caso. Lo guardava con un’espressione talmente stranita che pareva di
fronte a un morto.
O non aveva mai visto un Sayan coperto di sangue, o ne aveva
visti, e sapeva che la parola Sayan non significa mai
nulla di buono.
Terzo: gli Ozaru erano quasi
arrivati alla porta della città, in pochi minuti avrebbero smesso di avanzare e
gli Skatos avrebbero capito che si trattava di un
diversivo. Doveva muoversi ad andarsene.
Tutte queste informazioni gli
attraversarono la mente nonostante la febbre stesse cercando di annientarlo.
Vegeta cercò di mantenersi lucido e di ignorare la clavicola fratturata che
pulsava prepotentemente, in conseguenza alla corsa che
aveva appena compiuto.
Dovevano andarsene. L’idea di uccidere quello Skatos e quella donna non lo attirava come si sarebbe
aspettato da sé stesso. Aveva atteso e sopportato troppe ore legato a quella lastra per mandare tutto in fumo
giocherellando con due esseri così deboli e inferiori per qualche minuto prima
di essere ammazzato dagli Skatos.
Un ben gioco
sarebbe stato avere il tempo di torturarli e essere abbastanza in forze da poter
godere di ogni gesto, essere abbastanza lucido da poter prendere il viso dello
Skatos tra le mani e guardarne gli occhi terrorizzati. E poi divertirsi
anche con quella donna, che per inciso non era proprio
niente male, nonostante fosse vestita come un giocattolo sbrindellato e
pettinata anche peggio.
Vegeta distolse gli occhi dai due esseri e fissò lo
schermo, non l’avrebbero attaccato, e lui doveva capire bene dove si trovavano
gli Ozaru.
Accanto a lui, Celia varcò la soglia
della stanza.
-Ma guarda un po’ chi abbiamo
qui-disse la ragazza con un sorriso ferino in volto. –Due animaletti in
trappola, direi.
Vegeta non si mosse mentre Celia
varcava la soglia. Era stata in gamba, doveva ammetterlo, ma non potevano
permettersi di stare
giocare con quelle insulse creature. Vegeta ricordò la macchina
con cui gli avevano disintegrato le ossa prima di catturarlo.
Non poteva
restare lì.
Non sarebbero mai usciti se fossero arrivati dei
rinforzi.
-Lasciali perdere Celia,-disse-dobbiamo andare.
La ragazza si bloccò voltandosi a
fissarlo. Probabilmente non riusciva a credere che lui non volesse restare per
vendicarsi su quei due, nemmeno lui l’avrebbe mai
pensato.
Spartack avrebbe definito il
restare a trastullarsi un’occupazione da cuccioli egocentrici.
E anche se era vero che era giovane, Vegeta non era
stupido.
Per quella giornata era già tanto essere riuscito a portare in salvo
la pelle e avere ancora tutti gli arti attaccati al corpo. Non c’era bisogno di
sfidare ulteriormente il fato. Sarebbe stato per un’altra volta, perché ce ne
sarebbero state altre e lui sarebbe stato in forze e incattivito
dall’attesa.
Celia continuava a fissarlo per capire se stesse dicendo sul
serio. Vegeta venne scosso da un brivido febbrile e la
vista gli si appannò per un istante.
-Muoviti!-ringhiò,
appoggiandosi allo stipite dell’entrata con il braccio buono.
Celia gli si
avvicinò e fece per mettersi sotto il suo braccio per sorreggerlo, ma lui la
scansò e uscì dalla sala cercando di non barcollare più dello stretto
necessario.
Probabilmente fu in quel breve istante che lui passò strizzando
gli occhi e cercando di resistere al pulsare frenetico della spalla, che lo
Skatos estrasse l’arma e gliela puntò
contro.
Percepì il rumore dell’aria sferzata dall’anello radioattivo troppo
tardi, solo quando il colpo venne silenziosamente
esploso fuori dall’arma, e anche se l’avesse percepito in tempo non sarebbe
riuscito a scansarsi, era troppo debole per farlo.
Celia invece se ne accorse, con una sfera di energia cercò di colpire il
raggio ma questo si divise e le colpì il polso da cui aveva scagliato l’onda,
spingendolo verso il basso e inchiodandolo al pavimento.
Vegeta
vide l’anello viaggiare nell’aria ad altezza d’uomo. Ad
altezza di Sayan, ad altezza sua.
Venne sbalzato indietro contro la parete e l’anello gli si
serrò attorno alla gola conficcandosi alle estremità nella parete del corridoio.
Sentì un plop leggero e solo allora si rese conto che
quella non era l’arma con cui l’avevano catturato tredici anni prima.
A
tenerlo spalle al muro e imprigionato alla gola era un anello metallico, una
specie di collare che nel momento in cui si era conficcato nella parete aveva
esploso la piccola camera d’aria che separava la sua pelle dal nudo acciaio.
Adesso tra l’epidermide e il cerchio restavano solo un
paio di centimetri.
Senza riflettere Vegeta pensò di reagire.
Ma stava per
dare uno strattone contro l’anello per cercare di scardinarlo, quando una voce
irruppe nel corridoio.
-NO! NON FARLO!
Vegeta si bloccò giusto in tempo
per vedere Celia che, bloccata a terra dall’anello che le fermava il polso, non
ascoltava la voce e dava uno strattone al vincolo di
acciaio. E un cerchio di denti aguzzi che al contatto della pelle contro
di esso saettavano fuori da piccole fenditure
lacerandole la carne fino all’osso.
Celia lanciò un urlo che a Vegeta ricordò
quello degli animali quando li colpivano agli arti per
non far colare il sangue sulla carne viva. Come un animale di fronte a un laccio, Vegeta tirò indietro la testa contro la parete,
la gola il più lontano possibile dall’anello.
Da
quella posizione lo sguardo andò alla stanza dello schermo.
Sulla soglia la
donna con gli aderenti pantaloni blu lo guardava con gli occhi sgranati di
paura.
Accanto a lei lo Skatos era ancora immobile
con l’arma puntata verso il suo volto.
Vegeta fissò la donna, gli occhi pieni
di stupore per il colpo e per l’aiuto inaspettato.
Era stata lei a urlare.
Dallo sguardo pieno di stupore dello Skatos Vegeta capì che lei l’aveva fatto per impedirgli di
ammazzarsi, non per catturarlo vivo.
La donna si
incamminò verso di lui tendendo le mani in avanti e mormorando qualcosa
che non comprese.
Vegeta continuò a fissarla ad ogni
passo.
Quella donna gli aveva salvato la vita.
E non per
catturarlo.
Le donna si fermò davanti a lui e
gli guardò il volto e poi il petto coperto di sangue.
-Non ti muovere…-disse,
avvicinando piano le mani all’anello metallico.
Dietro di lei lo Skatos le urlò di fermarsi, ma lei lo ignorò.
Vegeta la
sentii poggiare due dita sul lato inferiore dell’anello, percorrerlo
delicatamente e poi fermarsi.
Con il tocco leggero di un attimo l’anello
scattò da contro la parete e rotolò in terra.
Vegeta non si mosse mentre la donna chinava lo sguardo e gli osservava la
depressione delle fratture all’altezza della clavicola.
-Cosa ti hanno
fatto…
Stava per attaccarla e scappare, quando lo Skatos fece per avvicinarsi e toccare una spalle alla donna,
ma lei senza voltarsi urlò: -NON MI TOCCARE! e lo Skatos si bloccò.
Stava per attaccarla ancora, quando la
donna alzò gli occhi, e mormorò una frase stupida da dire a un essere che vive in guerra, ma con un’ultima parola che
non gli consentì di colpirla a morte.
-Che cosa ti hanno fatto…
Vegeta non si mosse e lasciò che la mano di
lei arrivasse quasi a toccargli il petto.
Aveva gli occhi azzurri come il
cielo sereno e senza nuvole.
E velati di lacrime come il
cielo coperto, prima della pioggia.
Cosa
ti hanno fatto…Vegeta…?