{ Finché Non Cala Il Sole ~ File 0.3 }
Cimitero
di Arlington, Washington D.C.
Tomba
di Nick Fury.
2013
Stark era sicuro Colin si sarebbe
bagnato i pantaloni nel vedere Natasha incedere verso di loro, i capelli color
sangue alla luce balbettante del sole. Invece, l’Agente aveva mostrato un
insolito sangue freddo: si era scostato e le aveva rivolto un abbassarsi veloce
della testa, un rispettoso inchino. La Romanoff aveva pressato le labbra, lo aveva
squadrato a lungo e con la fronte aggrottata, prima di accantonare
definitivamente la sua presenza per dedicarsi alla lastra ai suoi piedi.
Il
Cammino dell’Uomo Timorato, chi l’avrebbe mai detto? Mace Windu un fan
di Pulp Fiction. Quello proprio non lo sapeva e adesso gli era stato persino
tolto il gusto di rinfacciarglielo. Era simpatico, il buon Fury. Quanto un
calcio nei denti colpiti da ascesso o carie penetrante al quarto stadio, ma
simpatico. Un buontempone. Un nonnino sadico. Un’emerita testa di cazzo che si faceva ammazzare dal primo
cecchino che gli passava accanto e saltava sui tetti come una lepre o un gatto
spelacchiato.
Tony contrasse la mascella e allargò
le narici, inalò una generosa sorsata d’aria. Natasha si girò a guardarlo di
sbieco, gli occhi che mandavano lampi.
«Non far finta ti dispiaccia» sibilò,
velenosa.
«Non era il mio amico del cuore, ma
il suo lavoro sapeva farlo.» replicò il magnate, con un calma che non credeva
di possedere.
Non si disperava per Fury, non si
sarebbe sciolto le trecce, battuto il petto, né gettato della cenere tra i
capelli, pur tuttavia Tony aveva abbastanza senno per portare un po’ di
rispetto in quel momento inatteso, un rombo a ciel sereno che, ne era sicuro,
era un annuncio ancor più mesto e terribile delle trombe del Giudizio
Universale.
Non era un esempio di virtù, il caro
Nick, ma riguardo alle virtù Stark sapeva di doversene stare buono e zitto in
un angolino, a montare da bravo bambino una nuova armatura coi mattoncini delle
costruzioni.
Vedova Nera fu sul punto di
replicare: schiuse la bocca ad un ingorgo di parole, quindi scosse la testa e
si rivolse ad Hendrick, in disparte dietro di loro.
Era terrorizzante, la donna, faceva
paura: con le palpebre socchiuse e la bocca affilata, squadrò gelida l’Agente
di Livello Sei, a partire dalla testa fino alla punta delle scarpe. Le guance
si contrassero con un guizzo indispettito, e la russa serrò le braccia sotto il
seno. Così rigida, con le gambe a squadra, le spalle aguzze e i capelli rossi
ad incorniciarle il volto illividito dalla rabbia, dal dolore, dal sospetto,
avrebbe messo in fuga chiunque.
Tony, per precauzione, mosse un passo
all’indietro.
«Perché Fury voleva vederti?»
Colin prese un veloce respiro, con
l’aria di chi aveva risposto cento volte a quella domanda, ma sapeva di non
potersi sottrarre all’idea di doverlo fare altre mille. Drizzò la schiena,
marziale, intrecciando le dita dietro i reni.
Grazie al Cielo, aveva smesso i
solito abiti pescati certamente a caso dall’armadio per un più sobrio completo
alla S.H.I.E.L.D., nero con camicia bianca e cravatta scura; il sole appena
ottenebrato dall’aria cupa del cimitero, dalla situazione e da alcune nuvole sfilacciate
soffiava pulviscolo bianco e oro sui capelli corti, donandogli un’aria serena
ed incredibilmente tranquilla, incredibilmente pacifica.
Stark si ritrovò a pensare che non
avrebbe sfigurato in qualche congresso: ispirava tepore, ispirava fiducia.
«Il Direttore voleva un rapporto
completo sul signor Stark.» disse, placido, gli occhi azzurri che sostavano un
attimo nello sguardo allibito, e soprattutto infastidito, del magnate prima di tornare in quello imperscrutabile
di Natasha.
La russa inclinò la testa e una
ciocca rossa, in contrasto col bianco accecante della camicetta, sfrigolò su di
lei come sangue; le labbra modellarono un sorrisetto poco convinto, irridente,
i denti baluginarono in una saetta di belva che studi la preda prima di
attaccare. Affondò le unghie nelle maniche di lino, proprio sopra la piega del
gomito, le nocche s’indurirono e impallidirono, le vene spiccarono gonfie e
plastiche sul dorso delle mani.
«E Fury ti avrebbe ordinato di
incontrarlo di persona, di prendere
un aereo da Los Angeles» calcò le
ultime due parole con marcato scetticismo «Venire fino a New York, nemmeno a
Washington, per un rapporto su Stark?»
«Natasha, la tua stima nei miei
confronti mi commuove.»
«Non adesso, Stark.»
«Non c’era altro» Colin scosse il
capo «Glielo posso assicurare, miss Romanoff.»
Vedova Nera curvò le sopracciglia in
un arco perfetto, lo sguardo indurito dal dispetto quanto dal dubbio che
l’altro si stesse prendendo gioco di lei –Per quanto nessuno di mente, il
figlio di Howard ne era sicuro, avrebbe mai osato prendersi gioco di Vedova Nera.
Era molto probabile, comunque, che l’ultima volta in cui era stata chiamata Miss Romanoff, Colin nemmeno fosse stato
concepito.
«Natasha, Hendrick non mente.» si
fece avanti Tony «Credo sia geneticamente incapace di mentire: ha quasi avuto
una sincope quando ha cercato di negare che Chattanooga
Choo Choo provenisse dal suo cellulare.»
Colin tossì e finse di sistemare
l’attaccatura dei capelli alle tempie, in modo da coprire il goffo rossore che
gli aveva mordicchiato la punta dell’orecchio. Tony lo fissò con un sorrisetto
di vittoria stampato sul volto, gongolando ulteriormente quando l’altro sviò il
suo sguardo per concentrarsi sulle lettere in bronzo sopra la lapide di Fury.
«Il buon Nicky aveva più nemici di
me, il che è tutto dire.» continuò il magnate, allargando le braccia «E’
riuscito ad inimicarsi persino degli alieni, perché ti stupisci tanto se
qualcuno alla fine lo ha fatto fuori?»
«Il Direttore non è morto.» li
trafisse, metallica e fredda, la voce di Hendrick.
Natasha alzò il mento nella sua
direzione, gli occhi semichiusi e gli zigomi affilati tanto erano sporgenti,
tanto aveva contratto la mandibola. Era sul punto di ammazzare qualcuno o fare
a pezzi qualcosa, era palese –Ed anche comprensibile: Tony non aveva
dimenticato il modo quasi paterno con cui Fury le aveva cinto le spalle, la
prima volta che gliela aveva presentata nei panni di Agente S.H.I.E.L.D. e non
da Natalie Rushman.
«Il Direttore non può essere morto.
Non può averci lasciati così.» sibilò l’Agente, dando poi un calcio al
pietrisco e allontanandosi da loro, i pugni ficcati nelle tasche e la testa
incassata in mezzo alle spalle.
«Ottimo. Avevo chiesto un segretario
–Pepper aveva chiesto un segretario»
chiarì Stark «E voi mi avete mandato una Drama Queen.»
«Su una cosa ha ragione, però»
Natasha torse il collo ad osservare poco convinta la stele commemorativa del fu
Direttore dello S.H.I.E.L.D. «Fury non ci ha lasciati così.»
Long
Island, 2013.
(3
Giorni Fa)
Il locale era famoso per non essere
frequentato da gente famosa. A dire il vero, il locale era famoso per non
essere frequentato da gente che avesse un minimo di dignità e classe.
O anche solo rispetto per se stessi.
Era quel tipo di locale dove la gente
annegava l’essere se stessi dietro un
paio di cocktail infamati e infamanti, due o tre shots di liquido per
lavastoviglie e concludeva la serata sbavando sul legno lercio dei tavolini un
ributtante miscuglio oleoso di saliva e liquore a basso prezzo.
Era quel tipo di locale dove la
colonia di blatte nel bagno poteva citare in giudizio il proprietario per il
possesso dello stabile.
Era quel tipo di locale dove la muffa
cresceva agli angoli del soffitto come sotto le ascelle dell’ubriacone di
turno, e poi dentro le sue narici, nel suo cervello, nidificava nei polmoni,
nel cuore e infine dava il colpo di grazia stroncandolo con una trombosi o un
infarto del miocardio.
Era quel tipo di locale dove una
persone al pari di Hansel Gamble non avrebbe mai dovuto mettere piede: Hansel
Gamble era un personaggio a posto, diceva il capo del personale alla Cross
Technological Enterprises, faceva ridere tutti e forse aveva una tresca con
Sheila Danning, Responsabile delle Relazioni Pubbliche. Hansel Gamble era un
bravo Cristo e Capo Della Sicurezza, era nato a Monaco e quando parlava
masticava l’inglese come fosse un piatto di crauti. Forse era un po’ strano,
d’accordo, ogni tanto arrivava al lavoro con gli occhi opachi e la camminata
sbilenca, va bene. Talvolta non si capiva tanto cosa dicesse, ma perché era
nato a Monaco, eh, mica perché era ubriaco fradicio quando iniziava il turno.
La cosa bella di essere Hansel Gamble
era che tutti ti volevano bene perché venivi da Monaco ed eri il Capo della
Sicurezza –Con la maiuscola, sì, perché faceva più figo- e probabilmente avevi una tresca con Sheila Danning, delle
Relazioni Pubbliche.
La cosa magnifica di essere Hansel Gamble era che a fine giornata potevi
mandare al diavolo la sua identità cretina, indossare i panni dell’innominato e
innominabile ubriacone e sfondarti lo stomaco nel locale in cui l’adorabile
Hansel Gamble non avrebbe mai messo piede, neanche a staccargli le gambe e
lanciarle direttamente oltre la soglia.
Hansel Gamble, in fondo, non aveva
bisogno di annegare mostri e fantasmi del passato.
«Scusami, tu sei…Jeremy Renner?»
Clint Barton aveva spiaccicato il
fegato sul banco dei pegni perché ciò accadesse.
Occhio Di Falco, o quel che ne
rimaneva, roteò gli occhi annacquati sulla ragazza che gli aveva appena rivolto
la parola: stirò le labbra livide in un ghigno torto, ironico, per poi
sollevare la mano che teneva il bicchierino di Bruichladdich X4 e si grattò la
fronte con l’unghia del pollice.
«Sei un paparazzo?» sbiascicò, con
voce rauca -Ma che, a quanto sembrava, le donne trovavano parecchio attraente
ed eccitante. La ragazza si passò la punta della lingua sul labbro superiore,
mosse civettuola spalle e bacino, sbatté le ciglia ed emise una risata veloce e
argentina.
«Ma no, assolutamente!» esclamò,
quindi, ondeggiando le dita della mano destra, come a voler cancellare anche
solo la remota possibilità di essere una pazzoide armata di Reflex o anche solo
di un cellulare con fotocamera integrata.
Clint inclinò pesantemente la testa e
la osservò di sottecchi, le iridi slavate tra le ciglia sottili e tremule: aveva
le unghie lunghe, lo smalto sbeccato, il rossetto che colava all’angolo
sinistro della bocca, la ricrescita e le ascelle pezzate. L’adorabile vestitino
verde mela che indossava faceva difetto in vita e l’anellone di plastica color
crema sbatteva in modo inquietante contro il polso innaturalmente magro; le
scarpe erano un’accozzaglia vomitevole di lustrini argentati, i tacchi alti la
sostenevano per grazia divina, costringendola a claudicare con ondeggianti
passettini ticchettanti.
Quanto
siamo critici, questa sera. Non sei ancora abbastanza ubriaco, amico mio?
Facendo buon viso a cattivo gioco,
Barton sorrise di nuovo e si prese tutto il tempo necessario per appoggiare il
bicchiere, squadrare con studiato interesse la ragazza e nel frattempo gettare
un’occhiata di sbieco accanto a sé. Loki lo fissava con aria innocente, i
gomiti sul tavolo ed il mento puntellato sulle dita intrecciate: arcuò la bocca
a modellare un sorriso ferino, nell’accogliere il suo sguardo ammonitore, gli
occhi che brillavano, soddisfatti e maligni.
«Che ne dici se vai ad ordinare
qualcosa e continuiamo il piacevole interrogatorio, mh?» propose l’arciere e la
ragazza accettò di buon grado, scomparendo in un gran sbatacchiare e tintinnare
di ninnoli.
Perché
allungare così la tortura? Indagò Loki, inarcando un sopracciglio e fissando con
disinteresse l’ultima conquista della serata ordinare un drink gratuito con le
sole movenze dei seni Perché non portarla
nei bagni come le altre?
«Perché hai ragione tu, non sono
abbastanza ubriaco.»
Clint ingoiò l’ultimo sorso di
whiskey, quindi si sistemò alla meno peggio sullo sgabello disarticolato. Roteò
la testa in direzione del Dio Norreno, gli indirizzò un ghigno alticcio,
esausto.
«Speravo che la sua voce querula
potesse coprire il tuo bla bla antiquato
e senza senso.»
Loki schioccò la lingua contro il
palato, la carnagione pallida del volto che scintillava e baluginava alla luce
oleosa del locale.
E pensare che prima era soltanto un
mormorio fastidioso alla nuca.
Come, da residuato bellico che era,
si fosse trasformato in una entità fumosa e tangibile, Clint non era in grado
di spiegarlo: sapeva solo che da un giorno all’altro quella maledetta vocina
gli si era presentata seduta a gambe incrociate sul materasso di un Motel
lurido della Route 66, gli aveva sorriso con espressione serafica e da lì in
poi non gli era stato più possibile liberarsene.
Aveva sentito di gente talmente preda
dei sensi di colpa da avergli dato forma, nome e persino indirizzo di casa o
taglia dei vestiti, ma da lì a ritrovarsi la manifestazione tangibile del
proprio, letterale, strizzacervelli accanto alla tizia con cui aveva passato la
notte…Bhè, Barton aveva capito di essere ancora capace di stupirsi.
Certo, Clint aveva compreso fin
troppo facilmente come l’altro fosse un cancro germogliato e metastatizzato
dacché Natasha l’aveva ricalibrato con un pugno in testa e lui aveva cercato di
lasciarsi il mondo alle spalle. Il mondo e i morti -Una morte, in particolare- e quello, forse, dannazione, accidenti,
era la punizione per aver cercato di dimenticare, di scordare la pioggia sulle
guance e il tuono nel cuore, l’accozzaglia di persone vestite a lutto, la bara
calata nel terreno, la commemorazione, i discorsi, il cielo plumbeo, l’urlo
vomitato senza voce nel cuscino strappato a metà perché colpevole di avere
ancora il suo odore, ma non il suo
corpo, non i suoi occhi, non il suo tocco, non il suo cuore.
Aveva scoperto che l’unico modo per
zittire il vocio di Loki era ubriacarsi fino a perdere conoscenza, fare sesso
fino ad avere le ginocchia molli e i fianchi distrutti, abbrustolire il fiato
unto del norreno con una boccata catarrosa di tabacco.
Clint detestava svegliarsi con una
pressa al posto delle tempie, detestava trovarsi accanto chiunque, detestava tossire e soffrire di broncospasmi dolorosi e
improvvisi, detestava dover bloccarsi, appoggiare una mano alla parete più
vicina per non collassare a terra, le viscere praticamente in bocca e i bronchi
in cortocircuito.
Però detestava ancora di più la figura
sinuosa di Loki a fargli da ombra e coscienza, il suo incedere di fumo ad ogni
passo, le sue dita allungate, eleganti, che tessevano nebulosi arazzi di sangue
e proiettili e frecce esplosive, e trasfigurava l’aria e l’etere e lo riportava,
mero spettatore, ad un anno prima, alla gabbia, dietro le sbarre.
Preferiva morire di mano propria,
piuttosto che farsi uccidere dalla malia di quell’hippie bastardo.
Strano.
Ricordo diversamente. Considerò il Dio e gli era alle spalle, ora, le labbra
sottili sussurravano nenie e litanie all’orecchio e Clint cedeva, s’arrendeva,
si genufletteva, il sangue ribolliva, perdeva la presa, la volontà si disfaceva
in filamenti vani inutili, patetici Ricordo
che la mia voce riempieva il tuo cuore. Riempiva il tuo animo spossato. Il tuo
spirito preda della bugia della libertà. Ricordo che non avevi più dubbi,
allora, ed eri quieto solo se prostrato ai miei piedi…
Con le dita che scattavano, nervose, e
i polsi tremanti, l’arciere rovistò nelle tasche della giacca –Le sigarette,
dov’erano le sigarette? Dove l’accendino che canta e che guizza, dove la
fiammella che balugina e sorride e tiene lontano il Maligno e illumina e salva,
dove dove dove?
Annaspando in cerca di aria, la presa
di Loki sempre più vigorosa, sempre più inarrestabile, Clint rovesciò sul
tavolo tutto quello che aveva: portafogli, documenti, fazzoletti
appallottolati, il vecchio distintivo, scontrini, il numero di Sheila Danning,
ed eccole, infine, intonate oh Angeli di tabacco un coro di Hallelujah!, il
pacchetto di Camel e l’accendino.
Sfilò una sigaretta, la strinse tra i
denti e succhiò, avvelenandosi ancora prima di accenderla; curvò la schiena,
serrò le palpebre, nascose lo schiocco del fuoco dietro la mano a coppa,
aspirò. Il fumo gli si rovesciò nei polmoni, guaì, latrò e Loki uggiolò,
stridette, maledisse il cielo, scoppiò ed esplose in un tripudio di bestemmie.
Barton avvertì le ciglia bruciare
quando il primo refolo gli abbandonò la bocca schiusa, i nervi rabbrividirono,
gemiti scricchiolanti si dipanarono lungo le vene, gli strapparono il midollo e
fracassarono le vertebre.
Stava già per ingoiare una seconda
boccata, quando l’occhio gli cadde sul distintivo dello S.H.I.E.L.D.
Non l’aveva buttato. Era un ricordo
di Coulson. L’aveva ricevuto dalle sua mani e alle sue sole mani lo avrebbe
restituito, qualora avesse avuto il coraggio di accettarne la morte. Fino a
quel momento era rimasto un semplice disco di metallo, col simbolo dell’Agenzia
splendente nei suoi dettagli di grigio metallo.
Appunto, fino a quel momento.
Sull’anello esterno, alto appena una
manciata di millimetri, era comparsa una stringa di numeri –Coordinate?- ed una
parola. Non aveva significato, per lui, non aveva idea di cosa volesse dire. Esisteva,
al mondo, un’unica persona che avrebbe utilizzato quel modo, per
comunicargliela, e se era arrivata a tanto, allora la situazione doveva essere
più grave del previsto.
«Ecco qui. Scusa se ci ho messo
tanto.» cinguettò la ragazza senza nome, posandogli davanti un boccale di
qualcosa e osservando schifata la quantità di roba accatastata nel poco spazio
del tavolino.
Clint sorrise, di nuovo sobrio oppure
non del tutto ubriaco, trascinò indietro la sedia, si mise in piedi, le scoccò
un bacio sulla guancia e le piazzò in mano una banconota da cinque dollari.
«Perdonami, dolcezza, sono stato contattato
dal mio agente: mi hanno rinnovato il contratto come Occhio Di Falco e intendo
proprio accettare.»
Località
Sconosciuta.
2011.
Appunti
del Medico.
I Supervisori del progetto ci hanno intimato a
procedere quanto prima con i test. A nulla sono valse le mie repliche, non
hanno voluto ascoltarmi: il soggetto è refrattario ad ogni sorta di anestetico,
i sedativi non hanno alcun effetto. Abbiamo cercato di immobilizzarlo, ma il
soggetto ha reso vano anche quest’intervento liberandosi senza difficoltà
alcuna da cinghie e legacci.
In queste condizioni è ovvio che non possiamo
procedere come vorremmo e ottenere così i risultati tanto sperati e agognati
dai vertici dell’operazione.
Hanno chiesto al Dottor Marlowe di intervenire,
sebbene io abbia poche speranze a riguardo. Cosa potrebbe mai fare, lui, che i
nostri medicinali e i nostri metodi non sono in grado? Come intervenire, se il
soggetto nemmeno parla, nemmeno considera la nostra presenza?
Vorrei poter dialogare con lui. Chiedere.
Ascoltare. Non so da
cosa derivi questa mia convinzione, eppure sono sempre più convinto ci sia
molto di più, dentro di lui, dietro quegli occhi che ostinatamente non
abbandonano i nostri volti. Qualcosa di grande e terribile, in grado di far
sanguinare il cuore e stritolare il fiato tra le dita.
Non so che dire, non so cosa pensare. Non so cosa
vogliono i Supervisori, né chi ci ha messo a capo di questo progetto. Non so
perché questo progetto esista e mi sento confuso.
Mi sento perso e spaesato, proprio come il soggetto,
mi vedo nello specchio della sua persona, c’è il mio riflesso, lì, e non
capisco cosa ci faccia. Non capisco troppe cose.
Sembrava tutto chiaro quando era il Dottor Marlowe a
spiegarci. Sembrava tutto cristallino e non avevo domande. Ora, invece, che
siedo nel mio studio con la sola compagnia di una penna, di una luce e di
questo diario, ogni cosa mi sfugge di mano. È come…E’ come uscire da una nebbia
e i pensieri, dapprima offuscati e torbidi, cominciano a riprendere coscienza
di sé, mi chiamano, mi chiedono aiuto. Perché esistiamo, essi domandano, Perché
ci hai formulati? Qual è la risposta?
Lontano dal Dottor Marlowe il mondo è oscuro, la mia
mente piena di dubbi.
Vorrei poter parlare da solo col soggetto.
Chiedergli come ha la forza di dibattersi, dove l’ha trovata, per quale motivo
mi sento intrappolato in una rete e perché i suoi occhi mi inchiodano alla
parete, al suolo, all’aria stessa che respiro, quasi fossi io l’esperimento e
non lui.
Sono confuso. Giusto e sbagliato, fatico a ricordare
finanche perché sono qui. Chi ha mandato. Perché. Cosa dovrei fare. Come
procedere. Per quale fine.
Devo parlare col Dottor Marlowe. Devo parlare col
Dottor Marlowe al più presto.
RFD
Washington, Washington D.C.
Penn
Quarter. 810 7th St. NW
Colin non aveva spiccicato parola
durante il tragitto dal cimitero di Arlington fino al pub. Molto probabilmente
nemmeno voleva finire la propria giornata in un pub, ma Tony sentiva il bisogno
fisico di triturare lo stomaco con
gli alcolici e quindi la decisione era stata presa, la macchina messa in moto.
Un tavolo appartato e la luce del
pomeriggio che tagliava il locale di traverso, Stark non aveva dato il tempo
all’altro di sedersi che già s’era involato al bancone e ordinato per entrambi.
Hendrick non aveva fatto una piega,
sebbene fosse evidente quanto poco gli andasse a genio l’idea, e il magnate
ringrazia per aver tenuto la bocca cucita e lo spirito proibizionista muto.
Non aveva la forza, la non aveva la voglia di sorbirsi una ramanzina su
quanto poco fosse salutare ubriacarsi alle quattro, alle cinque, a che
accidenti di ora era: aveva soltanto bisogno di mettersi a tacere per un po’,
smetterla di pensare, di agitarsi e di dibattersi come un pesce fuor d’acqua.
Aveva bisogno del torpore che solo una sbronza in piena regola era in grado di
dargli: Colin era utile unicamente come chauffeur.
Della sua compagnia, altrimenti,
Stark avrebbe fatto volentieri a meno.
Già non dormiva da un numero
considerevole di ore, a stento era in grado di prendere un respiro che non
fosse un rantolo irrancidito dal panico, faticava a ricordare l’ultima volta
che aveva posato la testa sul cuscino o su qualunque altra superficie
orizzontale senza sognare il gorgo flatulento sopra Manhattan.
Quel maledetto cerchio di fumo,
ribollente di Chitauri, di fuoco, quell’inferno di astri e ringhi che ancora
minacciava di sopraffarlo, di inghiottirlo. Lo ghermiva ogni volta che chiudeva
gli occhi, lo afferrava, lo trascinava a fondo, lo schiacciava, lo stritolava,
giù sempre più giù, dove non c’era luce, dove non c’era aria, dove non
esistevano neanche le stelle.
Dissimulando un ansito dietro un
colpo di tosse, Tony annegò il principio di soffocamento con una generosa
sorsata di qualunque cosa ci fosse nel bicchiere –L’importante era che lo
rintronasse abbastanza da metterlo fuorigioco. Avrebbe persino ricorso alla
benzina, fosse servito a tenerlo distante dalla realtà e dall’ansia.
L’Agente drizzò gli occhi chiari
verso di lui e subito li riabbassò, storcendo l’angolo della bocca. Stark finse
di non vederlo per un paio di secondi, stette al gioco, osservò un paio di
avventori e diede il proprio (pessimo) giudizio all’arredamento del locale,
prima di passarsi la mano libera tra i capelli, schiarirsi la gola e dedicare
cinque minuti della giornata al vivere civile e alle relazioni sociali di base.
«Facciamo così.» propose, conciliante
«Hai una frase, d’accordo? Una frase per dirmi cosa ti ronza nel cervello,
quindi vedi che sia una frase di senso compiuto e diciamo sopra la media delle
idiozie comuni solitamente sparate dalla gente in lutto, intesi? Una frase e se
rispetterà queste condizioni potrei anche decidere di posticipare il mio coma
etilico.»
Hendrick rizzò le sopracciglia,
squadrandolo con un malcelato disgusto ed una punta di fastidio. Tony rispose
alla muta provocazione con un ghigno da manuale nel mentre che s’aggiustava
contro lo schienale della sedia.
«Allora?»
«Beva e stia in silenzio, per
cortesia.»
«E’ la prima volta che perdi un
soldato?»
Colin spalancò gli occhi, stupito:
ogni traccia di rancore svanì dallo sguardo ora perplesso, indeciso, tentennante.
Qualcosa passò dietro le sue iridi, un ricordo che Stark non fu in grado di
decifrare –E di cui, del resto, non gli importava poi un granché.
Forse.
Il giovane s’umettò il labbro
superiore, deglutì e scosse il capo.
«No.» rispose, il tono appena più basso
di quanto Tony si sarebbe aspettato «Lei?»
«Sì.»
Di nuovo, una nota di palese
perplessità nell’espressione altrimenti seria di Colin ed il magnate ingoiò un
altro sorso di alcool per spazzare via il nodo alla gola, il dolore sordo al
petto, la cenere che graffiava e scorticava i polmoni.
«Chi?»
«Non sono affari tuoi, Hendrick.»
L’Agente gli rifilò un’occhiata di fuoco
tanto rapida che a Tony venne il dubbio di averla solo immaginata. Aggrottò le
sopracciglia, socchiuse le palpebre, si grattò a punta di dita la linea della
gola e strofinò il palmo contro il mento. Hendrick, a disagio, si chiuse nelle
spalle e accartocciò le labbra, abbassando gli occhi sul sottobicchiere in
plastica: il figlio di Howard poteva intravedere un frammento azzurro d’iride
bagnato in un singhiozzo di sole e da un singulto paglierino della sua birra
chiara ormai priva di schiuma.
«E’ che…» esordì Hendrick, disegnando
una figura imprecisata sopra le venature del tavolo «Non riesco a togliermi
dalla testa l’idea che se fossi arrivato prima, se non avessi tardato, sarei
riuscito a…A salvare il Direttore.»
«No. Non ce l’avresti fatta.» replicò
Tony, tirando poi su col naso «Avresti finito col farti uccidere a tua volta.
Ho letto il tuo curriculum, Hendrick, guardiamo in faccia la realtà: non sei
niente di eclatante.»
Colin incassò il colpo con grazia da
manuale: addirittura, simulò un sorriso che sì, no, forse, in una realtà
alternativa appositamente costruita per l’occasione, sarebbe anche potuto
essere convincente.
«Non sono niente di eclatante, già.»
sussurrò «E non sono neanche la signorina Potts. Mi chiedo cosa ci faccio
ancora accanto a lei, signor Stark.»
«Fai sì che io abbia il mio apporto
di zuccheri e carboidrati senza glutine tutte le mattine.»
Prima di ogni replica, di una risata
o di un commento poco ripetibile, si frappose un brusio, qualche mormorio di
protesta, il fischio del televisore mal sintonizzato: Hendrick, che aveva lo
schermo proprio di fronte, alzò la fronte e impallidì di colpo. Quel perdere
improvviso di colore mise Tony sull’attenti, così come l’atmosfera tesa del
locale, i volti impauriti, le mani alla bocca, le sedie scostate con violenza,
gli occhi sbarrati.
Il magnate si girò di scatto e lo
stomaco si contrasse con un ringhio nel vedere la televisione eruttare fiamme,
boati, un SUV che esplodeva nel centro di Manhattan, e poi fumo e una strada buia,
un inghiottitoio di asfalto e piscio, un corpo noto, fin troppo noto, disteso,
lo zoom traballante sul foro alla nuca, sul sangue, Fury, Nick Fury nell’inquadratura
danzante della telecamera. E infine, nel tetro silenzio che aveva investito
tutti come un’onda in pieno, una voce melliflua e sardonica, di potenza e
sapere antichi quanto il tempo stesso.
«Alcuni
mi definiscono un terrorista: io mi considero un Maestro.
America…Pronti
per un’altra lezione?»
Note Finali
Hansel
Gamble è un gioco di nomi, dai film “Hansel&Gretel: Cacciatori di Streghe”
e “S.W.A.T.”. Clint Barton ha davvero lavorato per la Cross Technological
Enterprises come Capo della Sicurezza e Sheila Danning è il loro Responsabile
delle Relazioni Pubbliche.