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Autore: EmmaEvans    02/06/2014    5 recensioni
Hope aveva un disperato bisogno di ricominciare una vita normale: per capire chi era davvero e per chi poteva diventare, lasciando perdere il proprio passato. Era stata segnata dall’Ombra e tutti glielo ricordavano appena la guardavano. Sapevano, anche se non c’erano più segni visibili del suo passaggio. E lei non ne poteva più: voleva qualcuno di naturale, qualcuno che non sapesse del suo passato e che la giudicasse per come era adesso, non per come era stata. E Noah, un ragazzo conosciuto su internet e mai visto, è esattamente ciò che cerca. Più o meno.
Genere: Drammatico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 24 -  Tutto ciò che non odio

La seduta successiva fu in coincidenza con il giorno del concerto degli One Direction a Roma. Il corpo di Hope non aveva la minima intenzione di alzarsi dal letto quella mattina, sapendo cosa avrebbe dovuto affrontare. La dottoressa Hife la venne a trovare per un consulto di ‘incoraggiamento’. Come se Hope ne avesse bisogno, come se un paio di parole con la psichiatra potessero farle dimenticare la situazione. Le chiese del ragazzo capellone che qualche volta la veniva a trovare. Hope rispose a monosillabi: Harry doveva starne fuori, non voleva coinvolgere lui e la sua vita.

Riuscì a vedere quasi tutto il concerto della sera stessa: il circo massimo era letteralmente stracolmo di ragazzine piangenti/urlanti/entusiaste e la scenografia era molto più bella di quella di Parigi. Ovviamente le italiane erano le più scatenate. Insomma… la fan choreography era stata stupenda (erano riuscite a creare una frase per ringraziare i loro idoli, composta da parole e versi prese dalle loro canzoni) e ancora una volta i ragazzi aveva addirittura pianto. Niall più di tutti.

Ma la notte di Hope era stata un inferno.

 

Harry spense il motore nel parcheggio dell’ospedale. Fece per uscire dalla macchina, con il piccolo regalo di Hope tra le braccia preso a Roma, quando Alice gli mise una mano sul braccio bloccandolo.

“Harry.” Lui si voltò. Alice non era più fredda, come le era stata quando l’aveva incontrato meno di un’ora prima. Non aveva rivolto la parola a nessuno a parte salutare. Tutti e cinque l’avevano notato e Niall aveva detto che probabilmente era ‘in quei giorni’ quindi meglio non chiederle niente.

Si mordeva le labbra. “Cosa?” chiese Harry.

“Non so come dirtelo. Io non dovrei farlo, in effetti. Ma non posso far finta di niente.”

Harry sollevò un sopracciglio. “Cosa stai dicendo?”

“Hope non sta per niente bene.”

Harry si sentì gelare il sangue nelle vene. “In che senso?” chiese cauto.

“La seconda seduta è stata… è stata molto peggio della prima. Hope è due giorni che ha la febbre alta e non mangia.”

Harry non riuscì più a parlare. Guardò gli occhi chiari di Alice, aggrappandosi a quelli. La voce di lei tremò mentre tentava di continuare.

“Non ha quasi toccato cibo. Io… Non è facile, Harry. Non è più come la ricordi.”

 

Ricordare? Ma che significava? Una persona non può cambiare così radicalmente in meno di due giorni.

-Mio Dio- pensò Harry appena la vide.

E fu un pensiero inevitabile, non lo fece apposta. Pensò la stessa cosa che aveva pensato quando era andato a trovare i malati oncologici.

Aveva ancora il foulard, di colore azzurro pallido, i capelli erano quasi del tutto caduti; la pelle era così bianca che poteva confondersi con il muro; il pigiama che portava sembrava starle troppo grande; il viso mostrava i segni della febbre, del non aver mangiato, della chemio e del cancro.

Dormiva quando Alice e Harry arrivarono. I genitori uscirono piano dalla stanza e aggiornarono Alice e Harry con l’angoscia nella voce.

“Ha ancora la febbre” disse Hannah. “E’ due ore che dorme, probabilmente fra poco si sveglierà. Non voglio che si ritrovi da sola quando lo farà. State qui con voi mentre io vado a cercare il dottore?”

Alice annuì. “vai pure. Stiamo qui noi.”

La mamma di Hope ringraziò con un sorriso e insieme al padre si allontanò.

Harry si voltò verso Hope e la guardò attraverso la vetrata della camera. Aveva gli occhi stretti e faceva alcune smorfie con tutto il viso.

“E’ il dolore” spiegò Alice, seguendo il suo sguardo. “E’ il dolore.”

Harry avrebbe voluto entrare in camera, svegliarla e strapparla dalle grinfie di ciò che le faceva male. Sembrava così facile: entrare e portarla via. Ma lui non poteva fare niente. Di colpo, tutta la gioia e tutte le illusioni che si era fatto, si frantumarono. Per due settimane aveva creduto in qualcosa che non era reale.

Alice gli sfiorò il braccio. Lui la guardò e si lasciò abbracciare, sentendosi incredibilmente inutile.

 

Passò un’altra ora prima che Hope aprisse gli occhi. Non sapeva che ore fossero, ma supponeva fosse pomeriggio inoltrato.

Alice era sulla sedia, intenta a leggere qualcosa. Ma appena Hope si mosse, alzò la testa di scatto e, vedendola sveglia, le si avvicinò.

“Ciao…” le sussurrò.

Hope aveva i muscoli indolenziti, come se avesse corso per vari chilometri. Le bruciavano le giunture.

Alice l’aiutò a mettersi seduta e le porse il bicchiere con l’acqua e qualche altra sostanza nutritiva.

Hope temette che il bicchiere potesse cadere quando lo prese in mano. Tremava. Ma si concentrò, e con grande sforzo riuscì a prendere qualche sorso aspirando dalla cannuccia.

Si guardò in giro, cercandolo.

“E’ appena sceso a prendere un caffè.” Le disse Alice prima che Hope potesse mettere in fila le parole per chiederglielo.

Quindi l’aveva vista.

Alice indovinò i suoi pensieri. “Non si può certo dire che sia felice. E che stia bene. Ma l’avevo preparato.”

Hope la guardò.

“Cosa dovevo fare?” chiese Alice risedendosi sulla sedia e riprendendo il libro. “Farlo arrivare qui e non dirgli niente? Credo che si meriti di più di questo.”

Hope avrebbe voluto ringraziarla.

Alice guardò fuori dalla camera, verso il corridoio, e annuì.

Stava arrivando.

 

Harry si comportò come se Alice non fosse stata presente. Appena entrò in camera, le si sedette accanto e le accarezzò il viso, studiandoglielo. I due si scambiarono pochissime parole: Hope non riusciva a sostenere una conversazione per più di cinque minuti. Era come scalare un vulcano, con le pietre infuocate che ti colpiscono il corpo in continuazione.

Hope cadde e rivenne dal sonno cinque volte in un pomeriggio. Le infermiere chiesero se le andava di fare merenda, di mandar giù qualcosa, ma lei si rifiutò nonostante la madre di Hope tentasse di convincerla. Il dottore aveva detto che non poteva fare altro che prescriverle altri liquidi. Per ora.

 

Quando Harry arrivò a casa, i ragazzi stavano preparando la cena.

“Ehi!” lo salutò Liam venendo incontro a lui ed Alice. “Come va?”

Harry lo fulminò e, con le mani affondate nelle tasche, gli diede una spallata, diretto in camera sua.

Alice non potè far altro che assistere impotente fino a quando Harry non sbattè la porta, due piani sopra.

Si sentirono i vetri tremare.

Louis accorse dalla cucina insieme a Zayn. Guardò Alice perplesso.

“non è colpa mia” cercò di scherzare lei. Ma il sorriso che le uscì dalla bocca, fu accompagnato da un paio di lacrime.

 

Harry fece tre passi avanti e indietro per la camera. Poi, scaraventò tutto ciò che aveva sulla scrivania per terra, in preda alla rabbia.

Era furioso. Era furioso con se stesso e con Hope. Aveva passato due weekend divertendosi, credendo che lei stesse bene. Che lei stesse affrontando la cosa in modo pazzesco. Aveva creduto che tutto ciò che si dice sulla chemio fosse un falso. Quanto era stato stupido? Doveva aspettarselo: era stato uno stupido idiota ad illudersi che tutto sarebbe tornato normale. Che tutto era normale. Lui si era divertito, mentre lei, piano piano, cominciava a morire. Cosa pensava? Che l’operazione fosse solo uno scherzo? Che la chemioterapia ‘più pesante’ era solo un modo di dire?

Tirò un calcio al comodino, facendosi anche male.

Ma non gli importava: si sentiva tremendamente in colpa per essersene andato e per non esserle stato vicino. Odiò gli One Direction. Odiò i suoi amici. Odiò Louis. Odiò i suoi concerti e le sue fan. Odiò sé stesso. Odiò la sua vita. Odiò ciò che era. Avrebbe voluto strapparsi la pelle a morsi, per uscirne. 

Bussarono alla sua porta.

“Harry?” era la voce di Liam.

E adesso che cazzo voleva?

“Harry siamo noi, lasciaci entrare.” Disse Niall.

Harry non doveva aprire la porta. Probabilmente li avrebbe presi a pugni. Perché per ora voleva solo spaccare tutto e tutti. Strinse i pugni, tremante di rabbia. Sentì la mano destra bagnata.

“Harry apri. Ti farebbe bene parlare.” Aggiunse di nuovo Liam, in tono da papà.

“Andate via” disse, con la voce più profonda del solito. Non aveva nessuna voglia di sentire le cazzo di lezioni di vita di Liam. “Vattene Liam, tu e chiunque ci sia dietro questa porta. Andate via, ADESSO.”

Dopo mezzo minuto sentì dei passi che si allontanavo e che scendevano le scale.

Odiava anche Hope: perché non gli aveva detto niente? Perché l’aveva lasciato divertire? Perché gli aveva mentito? E lui, idiota per la centesima volta, ci era cascato. Hope non avrebbe dovuto. Non importava se l’aveva fatto per proteggerlo, non importava se aveva cercato di tenerlo fuori. Lui faceva parte della sua vita adesso, doveva e aveva il diritto di sapere che cosa le accadeva. Forse si era lasciato fregare così facilmente perché in fondo non aveva mai voluto vedere realmente cosa accadeva. Si sentì uno schifo per odiarla. Si sentì uno schifo per aver urlato ai suoi amici di andarsene, di avergli urlato addosso, di aver odiato gli One Direction e le loro fan: di aver voluto non essere ciò che amava più essere. Si sentì uno schifo per aver cercato di baciarla, prima che tutto ciò cominciasse.

Si sedette sul bordo del letto, con le lacrime amare che gli bagnavano il viso. Si mise le mani tra i capelli cercando di controllare le lacrime. Il ricordo di Hope che non riusciva a stare sveglia era l’unica cosa che vedeva quando pensava a lei. E non voleva. Voleva ricordarla con i pattini addosso, voleva ricordarla con il vento che le scompigliava i capelli e glieli faceva andare nel gelato con un ‘che schifo’ della sua voce. Voleva ricordare le sue risate, voleva ricordare la sua vera voce. Voleva ricordare la vita che ci vedeva attraverso quando la guardava.

 

Scese a prendere qualcosa da bere, qualcosa di fortemente alcolico possibilmente, dopo due ore. I ragazzi erano tutti davanti alla tv, al completo, anche Zayn che di solito vedeva la sua ragazza al ritorno da uno dei concerti. Quando si avviò in cucina sentì i loro sguardi fissi su di lui, in particolare sulla fasciatura che portava sulla mano.

In cucina, aprì il frigor e, senza esitazione, prese la vodka. Aveva tutta l’intenzione di ubriacarsi.

Tornò in sala, solo perché ci era costretto a passare per tornare in camera.

 

Appena gli occhi di Liam videro la bottiglia trasparente, capì che dovevano intervenire. In un attimo spense la tv.

“Harry…”

“che cazzo c’è” rispose lui in modo brusco, senza nemmeno mettere il punto di domanda in fondo alla frase.

“L’alcol non mi sembra la scelta più adatta in questo momento.”

Harry sollevò la bottiglia e la guardò. Poi, più arrabbiato di prima, spostò gli occhi su Liam. “E cosa ti sembra più adatto in questo momento? Una fetta di torta? Un po’ di gelato?”. Odiò per aver detto ‘gelato’ con la voce tremante. Lei adorava il gelato.“Lasciami in pace.”

“Almeno stai qui. Sfogati con noi.” gli disse Louis quasi implorante.

Harry lo guardò e si arrabbiò anche con lui.

“va bene” disse facendo il giro del divano e sedendosi vicino a lui. Sbattè la bottiglia sul tavolo. “Adesso sono qui. Siete più contenti?”

“Harry sono sicuro che Hope…”

“Che Hope COSA Liam? Che starà bene? Che si riprenderà?”

“…Che non vuole questo.” Liam guardò la bottiglia.

“Ah si? E tu come fai a saperlo? La sei andato a trovare?”

Liam si scambiò un’occhiata con Louis.

Zayn appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse dal divano. “Sono sicuro che Hope non ti ha detto quanto stava male per non farti preoccupare…”. Evidentemente Alice aveva spiegato loro tutto quanto. Che si facesse un po’ i cazzi suoi, no eh?

Niall deglutì prima di dire: “… l’ha fatto per farti godere i concerti…”

“l’ha fatto per proteggerti…” aggiunse Liam.

“MA NON MI INTERESSA!” esplose Harry. “Non mi interessa un cazzo di quello che ha pensato lei, non mi interessa un cazzo di quello che pensate voi e non mi interessa un cazzo di stare qui a parlare con voi! Perché si tratta solo di me! SOLO DI ME, di come sto io, non di voi, non di noi , per una cazzo di volta in tre anni, MA DI ME E BASTA. E delle tue fottute lezioni di vita Liam non me ne faccio un cazzo in questo momento. Questa situazione la gestisco e la affronto come pare a me, non voglio consigli, non voglio pareri, voglio solo essere lasciato in pace, VA BENE?”

Si alzò e se ne andò.

Niall chiuse mezzo occhio, facendo una smorfia, aspettandosi il classico rumore della porta della camera che sbatteva che, infatti, arrivò presto.

“Be’” disse poi, quando Zayn si decise a riaccendere la tv. “Almeno ha lasciato qui la vodka.”

 

La loro casa si sviluppava su tre piani: al piano terra c’era la zona ‘comune’, con cucina, sala e stanza ‘libera’ come la chiamavano loro. Al primo piano abitavano Zayn, Liam e Niall: era praticamente un appartamento di tre camere da letto più una piccola sala; al secondo c’erano Harry e Louis, anche loro in camere separate ma con una zona in comune.

Louis fece il più piano possibile nel tornare a letto. Prima di mettersi in pigiama, andò in bagno a farsi una veloce doccia e poi andò nella stanza in comune che divideva le loro due camere. Harry aveva ancora la porta chiusa. Louis si abbassò e guardò dalla fessura: la luce era spenta, ma era sicuro che non stesse dormendo. Si avvicinò alla porta e posò una mano sulla maniglia. Non sapeva se stava facendo la cosa giusta. Non l’aveva mai visto così sconvolto.

Prese un bel respiro e abbassò la maniglia. Poi aprì piano la porta.

Era come sospettava: Harry non era nemmeno sotto le coperte. Era semplicemente seduto, probabilmente dove lo era stato per due ore dopo essersi fatto anche lui una doccia. Forse pensando che avrebbe sciacquato via tutto il dolore che provava.

Sollevò lo sguardo su Louis.  Gli occhi erano pieni di lacrime e i capelli in disordine dalla doccia. Come al solito, non ci fu bisogno di parole. Harry non provò nemmeno a cacciarlo via, perché, in fondo, non voleva farlo. Louis si sedette accanto a lui, guardandogli la mano fasciata malamente e collegandola ai pezzi di vetri cosparsi sulla scrivania. Harry abbassò lo sguardo.

Louis gli circondò le spalle con un braccio tirandoselo leggermente più vicino. Harry si lasciò trasportare dal suo migliore amico, piangendogli sulla spalla. 

  
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