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Autore: 9CRIS3    02/06/2014    4 recensioni
< Cosa sta succedendo? > chiese Abby in modo tranquillo ed efficiente.
Aveva capito che si trattava di un'emergenze e che mi serviva in veste di avvocato e non di cognata.
< Ci toccherà parlare a bassa voce e fingere qualche sorriso. Ryan ci sta guardando > la informai.
Abby annuì e poi mi chiese di sputare il rospo.
< Okay. Sto per dirti qualcosa che non ho ancora detto ai miei genitori o a Ted. Non lo sa nessuno e preferirei che continuasse a non saperlo nessuno fino a quando non diventa assolutamente indispensabile che anche gli altri siano informati. >
< Chiaro > fece lei, guardandomi con un'espressione mortalmente seria.
< Sto per assumerti come mio avvocato. > iniziai.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La sfuriata con Ted non era stata certo una cosa di cui andavo fiera. Mio fratello mi conosceva anche troppo bene e si era accorto che c'era qualcosa che non andava, si era accorto che c'era qualcosa che gli tenevo nascosto. Qualcosa di cui però io non volevo parlare.
Sbuffai e spostai le coperte, scendendo dal letto per concedermi una doccia.
Subito dopo che Ted se ne era andato mi ero venuta a rintanare in camera mia, approfittando dell'assenza dei mie genitori e della possibilità di concludere quella serata senza dover affrontare un'altra lite o discussione.
< Ce la farò oggi a non litigare con nessuno? > chiesi alla mia immagine riflessa nello specchio.
I capelli scuri erano spettinati e aggrovigliati, le labbra iniziavano a screpolarsi e gli occhi erano spenti. Decisamente non ero una bella visione.
Aprii il getto dell'acqua calda ed iniziai a spogliarmi. Infilai una mano sotto l'acqua per controllare la temperatura e quando decisi che il calore era quello giusto entrai nella doccia.
Mi lavai meticolosamente, come a voler cancellare quei fastidiosissimi litigi che stavo avendo con mio padre, con Ted.
I miei stati d'animo altalenanti servivano solo a peggiorare la situazione e a farmi sentire peggio. Mi sentivo come se da un momento all'altro potessi esplodere e confessare a tutti il grande casino che mi portavo dietro.
Presi lo shampoo dalla mensola e mi insaponai la testa, massaggiandola delicatamente per cercare di alleviare un po' di tensione e iniziare la giornata in modo rilassato.
Quando scesi in cucina per fare colazione trovai solo mia madre e le sorrisi per darle il buongiorno.
< Tuo padre mi ha detto di informarti che alla GEH sono arrivati i manichini che avevi richiesto > disse posandomi davanti un piatto di uova strapazzate e sciroppo d'acero.
< Okay > risposi. Sarei passata alla GEH verso l'ora di pranzo, quando lui sarebbe stato occupato in qualche pranzo di lavoro. Avrei chiamato Andrea  per tenermi informata. Avrei telefonato anche  Lois per sapere gli impegni di Ted e tenermi fuori anche dalla sua portata.
< C'è qualcosa che non va? > chiese mamma, studiandomi attenta.
< No, tutto a posto > sorrisi rassicurante.
< Allora, come sta la tua amica? >
< Sono stata da lei ieri mattina ed era tutto okay, so che nel pomeriggio si è svegliata, quindi presumo stia davvero bene >
< Andrai a trovarla? > chiese, lisciandosi la gonna dopo essersi alzata in piedi.
< Magari più tardi >
< Bene. Se hai bisogno di supporto morale.. > si riferiva al fatto che avrei potuto incontrare Jake.
Scossi la testa e mia madre venne verso di me < Devo andare piccola, Ava e io abbiamo questo nuovo autore che ci sta facendo perdere la testa > mi diede un bacio sulla guancia.
< Buona giornata > le augurai e tornai ad occuparmi della mia colazione.
Oziai per il resto della mattina.
Navigai in internet in cerca dei regali che mi mancavano ma non ero dell'umore giusto per poter fare quel tipo di ricerche. Nemmeno la musica natalizia mi risollevò il morale, quando Gail infilò un cd nello stereo. La poveretta mi invitò ai aiutarla a fare i biscotti, come faceva sempre quando mi vedeva con il muso da bambina, ma io non ero davvero dell'umore adatto.
Presi un libro in mano e dopo cinque minuti contati lo misi da parte: troppo romantico. Ne presi uno di avventure e mi trovai a pensare che fosse troppo avventuriero e sbuffai spazientita! Si trattava proprio di quel genere di libro e io pensavo che fosse troppo avventuriero?
Uscii dalla biblioteca e feci un giro per la casa apparentemente deserta.
Mi ritrovai ancora in cucina e vidi della cioccolata calda versata in una tazza, non una tazza qualunque a dire il vero: quella era la mia tazza, la tazza che usavo quando mi lasciavo con uno dei miei fidanzatini.
Me l'aveva regalata Ava per un Natale. Stampate sopra c'erano due nostre foto, una di quando eravamo piccole, quando avevamo circa quattro anni, e una di quando avevamo quindici anni. In entrambe eravamo abbracciate e sorridevamo come se non ci fosse un domani. Quelle foto avevano sempre avuto la capacità di emozionarmi.
Mia cugina mi aveva regalato quella tazza perchè avessi sempre un ricordo di lei anche quando non eravamo assieme. Come se potessi dimenticare il vulcano che era!
Immaginai che Gail l'avesse lasciata per me e sorseggiai un po' della cioccolata fumante.
Uscii sul patio e mi sedetti su una delle sedie in ferro battuto. Mi strinsi meglio il maglione di lana sulle spalle e bevvi una generosa dose di cioccolata, sentendo il calore irradiarsi nel mio petto.
D'estate il patio era uno spettacolo: in centro al tavolo c'era sempre un vaso colmo di fiori, le sedie venivano rese più comode grazie a soffici cuscini, la neve era sostituita da un prato verde in fiore e c'era un dondolo su cui la maggior parte delle volte si poteva ammirare mia madre intenta a leggere un libro o un manoscritto.
In quel prato avevo imparato a camminare e poi ad andare in bicicletta ed avevo festeggiato un sacco di compleanni. Papà faceva venire dei clown e animatori specializzati, faceva installare dei gonfiabili e poi c'erano un sacco di dolci da mangiare.
Dio, cosa avrei dato per poter tornare ad essere una bambina incosciente ed ignara del mondo esterno, per poter essere ancora la principessa di papà, per poterlo ritenere il mio eroe, la persona che non sbagliava mai e che sapeva tutto.
Venni distratta dal corso dei miei pensieri da qualcuno che poggiava un cappotto pesante sulle mie spalle e si accomodava accanto a me.
< Ciao > gracchiai, quando vidi Ryan accomodarsi sulla sedia accanto alla mia.
< Ciao > rispose lui stringendosi nel suo cappotto e fissandomi apertamente
Mi rifugiai dietro la tazza di cioccolata e bevvi ancora. Ero terribilmente imbarazzata dalla sua presenza in quel momento, non sapevo cosa dire e tanto meno volevo sentire cosa aveva da dire lui, perchè ero più che certa volesse chiedermi di dimenticare quello che era successo.
Dio, magari lo avevo portato io a prendere quella decisione considerando che poteva aver sentito gran parte delle urla mie e di Ted, la sera prima.
< Come mai sei qui fuori? > chiese circospetto.
< Non c'è un motivo preciso > mi strinsi nelle spalle.
< E' un bel posto. L'intera casa è bella >
< Un po' troppo grande forse > feci notare, ma lui si strinse nelle spalle per tutta risposta.
< Allora.. > iniziai, tossicchiando appena per schiarirmi la voce.
< Si?> fece Ryan, alzando un sopracciglio perfetto.
< Ieri sera.. >
< Ieri sera? >
< Dove sei andato ? > chiesi, smettendola di fare tanti giri di parole. Volevo sapere dove era stato e come mai. Volevo che mi dicesse subito se la nostra era stata una bella avventura che però bisognava dimenticare in fretta, in modo che mi sarei messa l'anima in pace.
< A casa mia > rispose tranquillamente.
" Da solo? " avrei voluto chiedere e invece mi limitai ad annuire.
< Problemi, Phoebe? > chiese arricciando le labbra e capii che stava trattenendo un sorriso.
Fantastico! Ora lo facevo ridere? Me li sapevo scegliere un meglio dell'altro, gli uomini!
< No, assolutamente > bevvi un altro sorso di cioccolata e tornai a fissare il panorama di fronte a me.
Lo sentii sospirare, ma evitai di guardarlo. Lui stava temporeggiando per dirmi una cosa che ormai avevo capito anche da sola.
< Tu e tuo fratello discutete sempre in quel modo? > chiese dopo un po'.
< No, non sempre. A volte riusciamo anche ad essere civili ed educati >
< Sophie ed io discutiamo allo stesso modo > mi informò lui.
< Mia nonna dice sempre che riusciamo ad arrabbiarci tanto solo con le persone a cui teniamo davvero > dissi, ed era vero. Grace mi diceva sempre così quando io e papà litigavamo, quando ero un'adolescente che andava a rintanarsi da loro, per scappare da papà.
< Giusta osservazione >  di nuovo, calò il silenzio.
Finii la mia cioccolata e mi allungai sul tavolo per poggiare la tazza e poi incrociai le braccia al petto, stringendo le dita in due pugni, per ripararle dal freddo.
< Posso chiederti una cosa? > mi domandò.
Mi voltai a fissarlo, incuriosita. La sua espressione era incerta: i capelli che gli ricadevano sulla fronte con quel modo così provocante e i suoi denti che mordevano e poi lasciavano il labbro superiore ripetutamente.
< Certo > risposi, non smettendo di guardarlo.
< Tu e tuo fratello, ieri, discutevate a proposito del tuo ex, vero? >
Oh, eccoci arrivati al punto. < Si >
< Non ho potuto fare a meno di ascoltare > si giustificò e io non dissi nulla, perchè sapevo che Ted ed io avevamo urlato, quindi chiunque si fosse trovato in casa avrebbe avuto modo di sentire la lite.
< So che lui ti ha tradita, ma ecco.. Anche io mi chiedo come mai tu sia andata da lui all'ospedale >
Oh. Non era quello che mi aspettavo.
Lo guardavo senza capire quale effettivamente fosse la risposta che voleva. Ryan vide il mio sguardo interrogativo e parlò ancora.
< Intendo dire che, se come dici, lui ti ha fatto soffrire molto, perchè sei andata da lui? >
< Perchè non era lui ad essere in difficoltà, ma Betty >
< Betty è sua sorella > disse.
< Si, lo è. >
< Ancora non capisco >
< Cosa c'è da capire, Ryan? > chiesi in tono esasperato.
Mi stava chiedendo perchè avevo salvato la vita di quella donna invece che lasciarla morire. Okay, non sarebbe morta: in ospedale avrebbero capito qual'era il problema e l'avrebbero aiutata e Betty sarebbe stata bene anche senza il mio intervento. Il punto non era quello però; lui mi chiedeva perchè io avevo risposto alla richiesta d'aiuto del mio ex ragazzo, che mi aveva fatta soffrire ripetutamente, invece che mandarlo al diavolo e sbattergli il telefono in faccia.
< Mi pare di aver capito che lui ti abbia fatta soffrire parecchio, eppure in quel momento tu te ne sei completamente dimenticata e sei corsa da lui > il suo tono di voce cambiò.
Non capii che piega stesse prendendo la nostra conversazione: ero convinta che lui volesse dirmi che il pomeriggio precedente era un errore e che non si sarebbe ripetuto mai più e invece me lo ritrovavo li a chiedermi, esattamente come mio fratello, perchè ero andata da Jake.
< Sono andata in ospedale perchè Betty stava male e lei è mia amica. Lei e io, oltre ad aver condiviso per un certo periodo, l'amore per Jacob, abbiamo vissuto assieme molti momenti profondi legati alla nostra professione. Lei è stata una delle prime che ho conosciuto quando mi sono trasferita e che mi ha aiutata a trovare una casa e a sistemarmi > mi strinsi nelle spalle. Avevo parlato lentamente, come a voler fargli capire tutto con estrema pazienza.
< Quindi non sei andata da lui solo perchè è stato lui a domandartelo ? >
< Non avevo idea che loro fossero qui a Seattle, quindi se non mi avesse telefonata non l'avrei mai scoperto e non sarei potuta andare da loro. Ma no, non sono andata perchè me lo chiedeva lui. >
< Okay, ti credo >
Rimasi sorpresa di sentire quelle tre parole.
< Pensavo che tutta questa conversazione portasse ad un esito diverso > ammisi, spostando lo sguardo sulla neve.
< In che senso? >
< Pensavo che te ne saresti uscito dicendomi che quello che avevamo fatto è stato un errore e che io non sono emotivamente pronta > dissi tutto d'un fiato. Se aveva sentito l'ultima parte della lita mia e di Ted, aveva anche sentito quello che io avevo detto a proposito di rovinare la carriera di Jacob.
< Non credo che quello che sia successo sia stato un errore. Non lo è stato per me, almeno, ma se tu non ti senti emotivamente pronta.. >
Tornai a guardarlo e mi morsi il labbro inferiore per evitare di scoppiare ancora e di piangere per l'ennesima volta.
< No, non è quello che volevo dire. >
< Non capisco, Phoebe >
Mi alzai in piedi e lo raggiunsi per sedermi sulle sue ginocchia, fregandomene del fatto che qualcuno avrebbe potuto vederci in quella posa: erano tutti a lavoro e non sarebbero tornati a casa prima di cena. L'unica che avrebbe potuto beccarci era Gail, ma non me ne importava un accidente perchè volevo, bramavo, il contatto con Ryan disperatamente.
< Ieri quando siamo tornati qui sei sparito > gli ricordai.
< Non sapevo come comportarmi > ammise, quasi imbarazzato. < E poi avevo ricevuto ordini precisi di telefonare tuo padre, non appena ti avessi riportata a casa >
< Ho pensato che ti fossi pentito: sei sparito per tutto il pomeriggio, e poi quando hai interrotto me e Ted per dire che stavi andando via e non mi hai nemmeno guardata, io.. ho pensato che.. >
< Sono stato parecchio impegnano in una conversazione con mio zio e poi con tuo padre > tossicchiò prima di continuare < E ieri sera era la mia serata libera, Phoebe > mi disse ancora.
< Si, ora lo so. >
< E tu e tuo fratello stavate urlando come pazzi, non mi pareva il caso di informarti o di invitarti ad uscire, soprattutto tenendo conto dell'argomento della discussione >
< Hai ragione, io.. > non sapevo cosa dire per giustificare la mia irrazionale paura di sentirmi dire che non voleva più avere niente a che a fare con me.
< Non vado da nessuna parte > mi rassicurò, accarezzandomi i capelli.
Mi avvicinai al suo viso e gli posai un bacio delicato sulle labbra. Mi sentii immediatamente a casa quando sentii quel sapore dolce a contatto con la mia bocca e feci un sospiro soddisfatto quando mi staccai da lui.
< Lui è stato importante per te? > domandò, riferendosi a Jacob.
< Lo è stato, si > ammisi. Era inutile fare giochetti con lui, volevo che sapesse come stavano lo cose. Non tutte, ma almeno quelle principali.
< Lui ci tiene ancora a te >
< Può fare quello che vuole, la cosa no mi riguarda più > dissi dura.
< Perchè? >
< Perché mi ha fatto male. > spostai lo sguardo dai suoi occhi neri e guardi un punto non definito sopra la sua testa.
Ryan mi afferrò il mento con una mano e mi costrinse a guardarlo negli occhi. < Non me lo vuoi dire? >
Scossi la testa per rispondere negativamente alla sua domanda.
< Perchè? > chiese ancora, lasciando i suoi occhi dentro ai miei.
< Fa ancora male > risposi, sincera.
Di tutta risposta, Ryan mi strinse a sé nel'abbraccio più caldo e stretto in cui fossi mai stata.
Profumava di ammorbidente e bagnoschiuma al cocco, un odore che mi mandò in estati. Affondai il naso nel suo collo per sentirlo meglio e lo sentii rabbrividire quando il mio naso freddo arrivò a contatto con la sua pelle.
< Cosa hai detto a mio padre quando gli hai telefonato per dirgli che ero a casa ? > domandai senza cambiare posizione.
< Che avevi bisogno di chiarirti le idee e che ti avevo portata a fare un giro >
< Okay >  ero soddisfatta della risposta che gli aveva dato. 
Sicuramente mi aspettava un discussione con mio padre e volevo essere sicura di dare le stesse risposte di Ryan.
< Ha detto altro? > indagai ancora.
< Nulla che tu debba sapere > fece il misterioso.
< Eh? >
< Non ti preoccupare, ha creduto alla mia storia visti gli avvenimenti della sera prima > il suo sguardo era perso, probabilmente stava rivivendo la telefonata con mio padre.
Sospirai, ripensando al casino che ero.
< Quindi.. dovremo tenere questa cosa segreta, lo sai vero? >
< Si > feci imbronciata. < Mio padre non gradisce i rapporti tra i dipendenti > gli ricordai.
Jason e Gail erano solo un'eccezione a cui acconsentiva perchè Gail non era mai stata un intralcio per il lavoro che Taylor doveva svolgere, ma Christian Grey non aveva voluto saperne di offrire il beneficio del dubbio a nessun altro dei suoi dipendenti.
< Tu non sei una sua dipendente > mi fece notare Ryan.
< Questo ti mette solo in una brutta posizione > lo informai.
< Sai, forse giudichi tuo padre troppo severamente >
Risi di gusto. < Lo conosci da quanto? Qualche settimana? Io ci vissuto assieme per ventiquattro lunghissimi anni. Le mie guardie del corpo prima erano tutte donne >
< E' un padre apprensivo >
< Per usare un eufemismo >
< Io avrei fatto lo stesso >
Chissà perchè la cosa non mi sorprese.
Le sue mani si insinuarono improvvisamente sotto il giaccone che poggiava ancora sulle mie spalle e mi accarezzò la schiena con le dita agili.
In quel momento mi resi conto che ancora non ci eravamo baciati sul serio. Alzai la testa e fissai i miei occhi nei suoi. Ryan mi regalò un sorriso sghembo accattivante e seducente e io piano, avvicinai il suo viso al mio e gli poggiai un delicato bacio sulle labbra per poi approfondire la natura di quel contatto e far incontrare nuovamente le nostre lingue.
Sentii Ryan gemere nella mia bocca e la cosa servì solo ad eccitarmi di più.
Si scostò appena. < Siamo a casa tua e Gail è dentro, non siamo soli >
Sbuffai, aveva ragione. Mi alzai dal suo grembo e tornai in casa, entrando dalla porta finestra che stava in cucina. Lui fu subito dietro di me.
Gail era ai fornelli a preparare il pranzo per quel giorno.
< Ci sarà qualcuno a parte me per pranzo? > le chiesi
< No. > mi sorrise cordiale
< Bene > avrei potuto pranzare in tranquillità prima di andare a controllare i manichini alla GEH e poi andare a fare un salto sbrigativo da Betty, augurandomi che non ci fosse Jacob.
Il telefono di casa suonò e dissi a Gail di non preoccuparsi: ci avrei pensato io.
< Pronto? >
< Oh, sei a casa! > esclamò mio padre dall'altro capo.
< Si > risposi secca.
< Volevo informare Gail che tornerò a casa per pranzo >
Ora dovevo inventarmi qualcosa per uscire a pranzo.
< Okay, glielo dirò. >
< Sono arrivati i manichini >
< Me lo ha detto mamma >
< Phoebe.. >
< Ciao > attaccai velocemente, prima che gli passasse per la testa di mettersi a discutere per telefono.
Avvisai Gail che papà ci avrebbe raggiunti per pranzo e lei mise un' altra pentola sul fuoco, affaccendandosi con gli ingredienti.
Ryan era sparito ancora e ne approfittai per tornare in camera mia e prendere il mio telefono per mandare un messaggio ad Abby e chiedere se ci fossero novità.
Aspettai qualche secondo e quando vidi che non rispondeva lasciai perdere e cercai di distrarmi, trovando qualcosa da fare.
Presi il portatile e navigai in internet senza una meta specifica. Controllai le mie mail e poi entrai su vari siti di medicina, dove lessi nuove tecniche per fare una sutura. La cosa mi incuriosiva e volevo provare a farla. Presi il computer ed andai in cucina, in cerca di una banana da torturare.
Con me avevo portato anche del Vicryl e un ago con cui mi sarei potuta esercitare. Mi mancavano le clamp, ma mi sarei accontentata di una forbice qualunque.
Mi sedetti il più lontano possibile da dove si trovava Gail e mi misi all'opera, cercando di imitare la sutura di cui avevo letto in internet.
Dopo qualche svariato tentativo ci riuscii, guardai soddisfatta la mia opera e la mostrai anche a Gail, che mi chiese però che cosa ne avrebbe dovuto fare ora della banana.
< Sciolgo la sutura e me la mangio > la rassicurai, sapendo che papà le aveva passato la mania sullo spreco del cibo.
Papà arrivò puntuale per pranzo, portando uno dei manichini che avevo fatto ordinare.
Senza rivolgergli parola andai a prenderlo e lo ispezionai, cercando di pensare a cosa avrei potuto preparare per l'incontro successivo. Sicuramente la respirazione bocca a bocca ed il massaggio cardiaco, poi avrei potuto inscenare qualche taglio e quindi insegnare come disinfettare la ferita; qualcosa che riguardava persone svenute, sangue dal naso, corpi estranei.
Si, poteva andare.
Studiai meglio le istruzioni del manichino e lessi che al loro interno erano progettati come dei veri e propri esseri umani: avevano tutti gli organi delle giuste dimensioni e situati accuratamente al loro posto, il sistema nervoso, l'apparato cardiovascolare. Tutto.
Eccitata come una bambina davanti ad un unicorno presi il manichino, che notai pesava esattamente quando poteva pesare un uomo e lo spostai sul pavimento, dove lo misi disteso. Volevo aprirlo e guardare dentro, ma per farlo mi servivano un bisturi e tutti gli altri strumenti per operare, che non avevo con me.
Corsi in cucina, Gail era ancora ai fornelli e le chiesi di spostarsi un po' per prendere il coltello più affilato che avevamo, l'ago, il Vicryl avanzato, le forbici e delle salviette che avrebbero preso il posto delle garze.
Mi mancava l'aspiratore, ma poco male: ce l'avrei fatta lo stesso.
Tornai in salotto, spogliai il manichino della sua maglia leggera e praticai un incisione sul petto. Immediatamente il sangue finto venne fuori e io rimasi scioccata di quell'avvenimento. Erano in tutto e per tutto uguali agli essere umani.
Dalle labbra mi uscì un risolino eccitato e continuai con la mia opera, divaricando i tessuti e guardando la cavità addominale del mio finto paziente.
< Cosa stai facendo, Phoebe? > chiese mio padre, andandosi a sedere su un divano di stoffa, con il suo onnipresente telefono in mano.
< Volevo guardare meglio dentro > spiegai eccitata ma restando guardigna. Bastava uno spiraglio e Christian Grey ti rivoltava come un calzino, facendoti credere di essere in torto.
< E devi farlo proprio nel nostro salotto? > guardò orripilato le mie mani dentro l'oggetto che trafficavano tra i finti organi.
Organi che, dovetti ammettere, erano fatti magnificamente, persino al tatto erano molto simili agli originali.
< E' perfetto! > esclamai.
< Stai sporcando tutto > mi rimproverò lui.
Fissai attorno a me e vidi il sangue finto formare una pozza attorno al manichino.
Per la smania di guardare meglio dentro ed osservare organi e vene e tutta quella meraviglia che c'era da scoprire, non mi ero accorda che avevo fatto morire il mio paziente finto dissanguato.
< Ora del decesso: dodici e quarantacinque > fece papà, canzonandomi.
Rinfilai tutti gli organi dentro il poveretto che avevo maciullato e poi richiusi il taglio che avevo fatto sul suo addome. 
< Credo che questo manichino non sarà più utilizzabile >
< Ce ne sono altri novantanove alle GEH > mi informò lui tranquillo, scorrendo le sue mail. Subito dopo posò il suo sguardo su di me e si infilò il telefono in tasca.
Presi le salviette ed iniziai a tamponare la pozza di sangue che avevo fatto fuoriuscire.
< Gail! > urlò papà.
La nostra domestica si materializzò in salotto e capì al volo quando mi vide carponi sul pavimento, quello che doveva fare.
Tornò pochi istanti dopo con qualche spugnetta ed un secchio d'acqua.
L'aiutai a pulire e poi approfittai di una spugnetta libera per strofinarmi le mani e i polsi che si erano sporcati di sangue. Fortunatamente i miei vestiti erano rimasti intatti.
< Phoebe > fece papà, serio.
Capii immediatamente che la festa era finita e che l'inevitabile era arrivato.
Lo guardai, senza parlare ma mordendomi il labbro, nervosa per quello che sarebbe potuto succedere tra noi.
Andai a sedermi sulla poltrona di fronte a dove si trovava lui, con il tavolino a dividerci. Un po' di distanza in questi casi serviva sempre.
< Vorrei parlare di quello che è successo l'altra sera > iniziò, studiando il mio volto, come a voler capire fino a che punto poteva spingersi.
Fui io a risolvere il suo dubbio. < Mi dispiace di averti urlato contro, ma era una situazione piuttosto tesa e tu non capisci mai quando è il momento di farti da parte > dissi, senza tanti giri di parole.
Mio padre sussultò e mi fissò, con gli occhi spalancati. < Io mi preoccupo per te >
< Si, lo so papà >
< Un attimo prima eri normale e stavamo trascorrendo una bella serata in famiglia e l'attimo dopo ti vedo innervosirti e sbiancare a dare ordini come se il tuo mondo fosse appena crollato. E poi scappi in ospedale, salvi la vita di quella ragazza e ti trovi faccia a faccia con il tuo ex fidanzato. > Fece un sospiro prima di continuare < Tutto questo non deve essere facile da gestire >
Aveva fatto un perfetto riassunto della serata.
< No, non lo è > ammisi.
< Vorrei solo farti capire che io sono qui, se hai bisogno di me > il suo tono si addolcì.
< Lo so. Quello che vorrei farti capire io, invece, è che non puoi continuare a controllarmi, a dirmi cosa fare e quando perchè tu pensi che sia la cosa giusta per me >
< Voglio proteggerti > scattò in avanti sul divano, appoggiando un braccio sul bracciolo, mentre con l'altro si teneva al bordo, vicino al suo ginocchio destro.
< Papà.. Devi lasciarmi fare >
< Ma stai soffrendo >
< E' naturale! Tutti passano periodi brutti >
< Lo so > fece cupo.
< Passerà, prima o poi > mi strinsi nelle spalle.
I suoi occhi grigi si fissarono nei miei e lo vidi riassumere una posizione più rilassata sul divano. Le sue labbra si schiusero, come se avesse voluto aggiungere qualcosa ma poi si bloccò e si passo una mano tra i capelli, con fare esasperato.
< Sei come tua madre > sentenziò.
Corrugai la fronte, non capivo cosa potesse c'entrare con la nostra discussione.
< Pensi che tutti i problemi prima o poi si risolvano e che sono solo un peso da sopportare. Non è così, Phoebe: quel cretino non se ne andrà tanto facilmente! >
Per un attimo ebbi voglia di scoppiare a ridere, di farmi una di quelle risate catartiche da cui è difficilissimo riprendersi. Una risata spontanea e genuina che ti porta addirittura a lacrimare.
Avrei voluto sbellicarmi dalle risate e invece restai seduta su quella poltrona, immobile a fissare l'espressione severa di mio padre, che mi aveva appena accusata di vedere del buono in chiunque io conoscessi.
Era lontano anni luce dalla verità ma non potevo biasimarlo per questo, considerando che ero io che non volevo condividere nessun tipo di informazione.
Rimasi in silenzio, ad elaborare qualcosa da dire. Qualcosa che potesse passare inosservato e servire da scusa perfetta, qualcosa che mi concedesse il tempo di sistemare il casino che avevo combinato senza coinvolgere la mia famiglia e poi ripartire da zero con la mia vita.
< Papà.. >  mi bloccai. il rimorso fu più forte di me e cominciai a domandarmi se non fosse il caso di ammettere quello che stavo passando, di chiedere il suo aiuto.
In fondo era bravo in questo, a prendere la situazione in mano e impartire ordini affinché venisse risolta. Potevo delegare a lui i miei problemi e starmene in disparte ad osservare quanto bene venivano risolvi, senza che io me ne occupassi. Mi sarei potuta sdraiare nel mio caldo letto ed restarci fino a quando non fosse venuto qualcuno ad avvisarmi che la mia auto reclusione poteva terminare e che ero una donna, una dottoressa, libera di andare per la mia strada.
Vigliacca! urlò il mio cervello.
Che razza di persona sarei stata se avessi permesso una cosa simile?
Scossi la testa e lo fissai con rinnovata determinazione < Non fraintendermi, ma non voglio che tu ti metta in mezzo >
< Perchè? Perchè non vuoi che ti aiuti? > potevo scorgere il fastidio e l'esasperatezza nel suo tono di voce
In cosa avrebbe potuto aiutarmi? A rispedire Jacob a casa sua? Scossi la testa energicamente.
< Perchè è qualcosa che devo fare da sola >
< Phoebe, quel ragazzo ti fa solo soffrire >
< Non credo possa fare peggio di quando abbia già fatto >
< Sei così testarda > si passò ancora una volta la mano tra i capelli e poi si alzò in piedi. < Mangiamo? Tra poco devo rientrare in ufficio >
 
Chiacchierammo senza più tornare sull'argomento Jacob.
Programmammo il corso della riunione che si sarebbe tenuta due giorni dopo e gli spiegai che avrei voluto far fare direttamente agli uomini di Mr Hoock che poi avrebbero spiegato il da farsi ai dipendenti.
Papà mi assicurò che era d'accordo con me e mi guardava con un espressione di orgoglio che gli avevo visto solo durante la consegna dei diplomi di laurea.
Me lo ricordo ancora quel giorno. Se ne stava con il suo completo gessato scuro, di fianco alla mamma, che gli stringeva forte la mano, con le lacrime negli occhi. Ted poco più distante con un'aria solenne.
Mi avevano chiamata a discutere la mia tesi, davanti ad una commissione di dieci professori.
Avevo lasciato il mio posto e mi ero diretta a passo fiero verso quella enorme cattedra, mi ero seduta ed avevo cominciato ad esporre il mio argomento.
Non avevo avuto nemmeno un attimo di cedimento. Ero partita convinta di quello che dovevo dire, senza nemmeno soffermarmi a pensare che dietro di me c'era la mia famiglia, i miei amici e altri dieci studenti con le loro rispettive famiglie che ascoltavano quello che io stavo dicendo.
Quando finii la commissione si ritirò e io rimasi in piedi, dietro quella porta ad aspettare che mi richiamassero per comunicarmi che ce l'avevo fatta, avevo realizzato il mio sogno.
Rimasi lontana dai miei genitori, zii e nonni. Non volevo sentire quello che avevano da dire, non volevo farmi condizionare dal loro entusiasmo perchè ero un fascio di nervi che in quel momento non riusciva a fare altro che pensare al peggio.
< Phoebe Grey? > chiamò una hostess.
Mi avvicinai alla porta e così anche i miei parenti.
Ripresi posto dietro al piccolo banchetto ed attesi che l'intera commissione si sistemasse meglio. Il presidente si alzò in piedi ed avvicinando il microfono alle labbra disse: < Con i poteri conferitimi dal magnifico rettore dell'università, la proclamo Dottoressa in Chirurgia Generale con votazione massima e lode >
Il tono di voce era fiero autoritario. Avevo sentito le labbra incresparsi in un sorriso di pura felicità. Mi ero avvicinata avevo stretto un sacco di mani ed avevo ritirato il pezzo di carta che conteneva il mio sogno.
Mi ero voltata verso i miei e fissando i loro volti commossi, mentre si stringevano uno con l'altro in abbracci e strette sulle spalle, ero scoppiata in uno dei sorrisi più ampi e luminosi che avessi mai saputo fare ed avevo sussurrato un < Ce l'ho fatta > .
Poi era stato un susseguirsi di abbracci e baci sulle guance.
Mamma piangeva e papà aveva gli occhi lucidi. < Sono orgoglioso di te, dottoressa > aveva esordito il maniaco del controllo, prima di stringermi in un abbraccio caloroso.
Un brivido mi percorse la schiena al ricordo di quella esperienza così toccante e mi rabbuiai quando pensai che qualcuno avrebbe potuto portarmi via quello per cui avevo faticato tanto.
Stizzita, presi il cellulare e chiamai ancora Abby, desiderosa di sapere a che punto era la mia pratica
  
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