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Autore: ilovebooks3    03/06/2014    0 recensioni
La storia ripercorre l'episodio 6x22, raccontato dal punto di vista dei due protagonisti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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“Good, good” (T. Lisbon)
 
Esco, con la borsa mezza vuota a tracolla e il cellulare in mano.
Sono così furiosa che decido di non dare nemmeno un’ultima occhiata a quello che mi sto lasciando indietro per sempre: un albergo lussuoso che non mi sarei mai potuta permettere, e un Jane ferito che, probabilmente, mi sta osservando dalla finestra della sua camera.
Anzi no, Jane si sarà già rintanato nel suo mutismo e nel suo ego. L’ha sempre fatto, ma non mi ha mai dato così fastidio come adesso. Non so perché.
Una lacrima mi sta bruciando l’occhio destro, ma sono determinata a non lasciarla cadere.
Chi se ne importa di Jane! Non permetterò mai più che la mia vita sia condizionata da lui.
Non sono più il suo burattino.
Non sono più l’agente che ha buttato mille volte all’aria la sua carriera, solo perché teneva al proprio lavoro meno di quanto tenesse al suo consulente.
Non sono più l’amica che l’ha sempre protetto contro nemici, colleghi, superiori e perfino contro se stesso, costasse quello che costasse.
Lo odio.
Gliel’avevo anche detto a volte, quando mi esasperava più del solito, un po’ scherzando e un po’ no.
Non mi ha mai creduto. E nemmeno io.
Ora lo dico sul serio.
Credo.
Sarebbe stato meglio non averlo mai conosciuto.
Questo non gliel’ho mai detto, non l’ho nemmeno mai pensato. Ora sì.
Ho fatto troppe idiozie per lui.
Tra cui annullare me stessa e quello in cui ho sempre creduto.
Tra cui permettergli di uccidere un uomo e dargli la mia pistola d’ordinanza per farlo.
Lo so, è passato molto tempo, ma il mio comportamento da imbecille mi brucia ancora.
Anche perché sospetto che oggi rifarei la stessa identica cosa.
Sapevo che non sarei riuscita a impedire che Jane compisse la sua vendetta, e allora avevo scelto il male minore; e il male minore era fare in modo che si difendesse e ne uscisse vivo.
Me l’aveva chiesto e io l’avevo fatto. Mi era bastato un suo solo sguardo. Come tutte le volte in cui mi proponeva qualcosa di illecito per risolvere un caso. Pazza.
D’altronde, lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe finita male.
Gliel’avevo detto, moltissimo tempo fa; lui, che nel far domande e nell’eluderle è sempre stato un maestro, mi aveva chiesto perché avessi accettato di lavorare con lui, e io gli avevo risposto che insieme catturavamo un sacco di cattivi. La stessa cosa che avevo detto a Bosco.
Anche adesso, fingo di pensare che sia stato solo quello il motivo.
Quella lacrima sta cercando di farsi strada contro la mia volontà.
Ora basta. Quel farabutto non si merita le mie lacrime.
D’istinto compongo il numero di Marcus sulla tastiera del telefonino, mentre salgo sul taxi che mi condurrà in aeroporto.
Ho intenzione di partire subito per Washington. Non ho nessun motivo per restare e ne ho troppi per andarmene.
Mi risponde la sua voce, sempre così perfetta, così calda, così dolce. A volte, in realtà, perfino troppo. Come adesso che mi chiama “tesoro”; suona un po’ stucchevole, ma so di esserlo davvero, per lui.
E’ bello essere importante per qualcuno. Per poche persone lo sono. Per Marcus sì. E lui dice sempre quello che pensa. Senza sotterfugi.
Dopo poche ore che ci eravamo conosciuti, mi aveva detto di piacergli. Me l’aveva rivelato così, con naturalezza: come se mi stesse parlando del suo gusto di gelato preferito.
Ero rimasta stupita, non ero abituata ad atteggiamenti così diretti. Io non sono così aperta, e, tanto meno, lo sono le persone che mi circondano. Mi aveva invitato a uscire, e io ero stata indecisa se accettare o meno. Ma lui non aveva mollato. Ed era stato proprio questo a convincermi. Non era contorto come altri uomini di mia conoscenza, con i quali fare una conversazione equivale a risolvere un rebus. Non mi sono mai piaciuti i rebus. Preferisco quei giochini facili in cui si uniscono i puntini per comporre un’immagine. Sarà demenziale, ma è rassicurante. Come Pike.
No, non voglio dire che Marcus sia stupido. Voglio dire che ha una mente semplice, che rifugge ogni tipo di inganno. Proprio quello che mi piace in un uomo. Proprio quello di cui ho bisogno.
Ora, questo raro esempio di onestà maschile mi sta chiedendo se sto bene. Io gli mento, e gli assicuro che va tutto benissimo.
Bene, un corno! Sto buttando all’aria la mia vita in un secondo, dopo essermi resa conto di averla buttata per una dozzina d’anni.
Sto dicendo addio a una persona che, per quanto odiosa, irritante, strafottente, disonesta, truffatrice e manipolatrice, non posso negare che sia importante per me.
Chissà come se la caverà quell’idiota senza la sua badante personale a controllarlo e a impedirgli di fare qualcosa di veramente stupido. Qualcosa che, in un modo o nell’altro, è sempre riuscito a fare.
Ma Jane non è più un problema che mi riguarda, ormai.
Pensiamo all’uomo che sta parlando con me adesso. Marcus.
Senza nemmeno prendere fiato, gli annuncio che, se è sempre valida la proposta, la mia risposta è sì. Intendo, sì, sposiamoci! E, aggiungo nella mia testa, finiamola con giochetti mentali, frasi non dette e sguardi enigmatici.
Ok, forse non l’ho detto in modo molto romantico, ma nemmeno lui lo era stato quando mi aveva fatto la proposta: all'FBI, nella stanza accanto a Jane e alle sue orecchie tese.
Il mio fidanzato esulta. Come se avesse vinto la sua squadra del cuore.
"Bene, bene", replico io. Non so dirgli altro che queste due parole così sciocche e vuote. Come prima, quando mi ha chiesto come sto.
O mio Dio. Cos’ho fatto? Sono impazzita? Se devo essere sincera, all’inizio, nemmeno mi piaceva Marcus Pike. Poi in un nanosecondo mi ero trovata a uscire con lui; stavamo bene, ma dopo due minuti mi aveva proposto di trasferirci a Washington; non avevo quasi fatto in tempo ad accettare che lui mi aveva chiesto di sposarlo. Calma, un attimo, avevo pensato.
Ma di attimi ne ho perso già troppi. Lui, e una vita nuova in un posto nuovo, è esattamente quello di cui ho bisogno. O almeno spero.
In ogni caso, ora non me lo posso più rimangiare. Sono una donna forte, decisa e onesta, non posso dirgli che stavo scherzando. Non voglio prendere in giro nessuno, tanto meno un uomo che tiene a me e l'ha dimostrato.
Ma non ci sarà bisogno di rimangiarmi nulla. Sposare Pike è la cosa più giusta da fare.
Ho 40 anni, non ho più tempo da perdere se voglio costruire qualcosa di simile a una famiglia. Mi farà bene stare lontana da persone a cui non importa nulla di me.
Beh, se devo essere sincera, non è che a Jane non importi di me, solo che gli importa a modo suo. In un modo che non porterà da nessuna parte. In un modo che io non voglio più.
Ma perché sto continuando a pensare a Jane? Quel farabutto di un mentalista riesce a governare la mia testa anche a distanza con un telecomando?
Sto parlando con Marcus, con il mio fidanzato, e gli sto dicendo che lo sposerò. Il resto non conta.
Mi sposo. Wow. E’ una cosa importante. Bella.
E allora perché mi sento come se gli avessi appena proposto un affare?
Lui non coglie la mia voce innaturale ed è felice.
E’ così buono, così generoso. Così diverso da altre persone di mia conoscenza. Forse è questo ad avermi attirato verso di lui.
Anzi no, per una volta Jane non c’entra. Questa è una cosa che riguarda solo me. E Marcus. Che sta dicendo di fargli sapere i dati del mio volo.
Certo, così verrà a prendermi. Mi manca l’aria. Strano. Dovrei pensare “che carino”, ma non ci riesco.
Per un attimo, mi attraversa il pericoloso pensiero che la mia vita sarà sempre così, da ora in poi. Sto dicendo addio alla mia libertà e a molte altre cose.
Anzi no, in realtà a che cosa?
E’ solo la stanchezza che non mi fa più ragionare lucidamente, e non mi fa apprezzare le gentilezze di un uomo innamorato.
Amore, eh già. E’ amore quello che provo per lui? Certo, certo, dev’esserlo per forza.
Ora il mio ragazzo mi sta blaterando qualcosa riguardo felicità, ristoranti e appartamenti.
Non è che il mediatore della casa che compreremo, in questo momento, sia proprio la mia priorità. Tanto meno il sushi.
Una vocina petulante dentro la mia mente sta insinuando che nemmeno Marcus lo sia. Ma io la faccio tacere. Come faccio sempre, quando si tratta di argomenti spinosi.
Cerco di sforzarmi a seguire il filo conduttore dei discorsi di Pike, ma proprio non ci riesco. So che fa e dice tutto a fin di bene, è solo che a volte è così tremendamente…noioso. E la noia è qualcosa a cui non sono abituata.
Allontano il telefono dal mio orecchio e lascio che la sua voce parli al vento. Tanto non se ne accorgerà neanche.
Per la prima volta da quando sono uscita dall’albergo lascio che il mio sguardo si volti indietro. Verso quello che ho lasciato. Verso la mia vecchia vita.
E lascio liberi, per una volta, anche i miei pensieri. Che tornano indietro, a molti anni fa. A quando un affascinante vedovo biondo aveva deciso di collaborare col CBI per scovare l’assassino di moglie e figlia.
Pover’uomo, mi aveva fatto subito una grande tenerezza. Sensazione che era durata pochi minuti, ovvero fino a quando quel pazzoide non ne aveva combinata una delle sue. Chi se lo sarebbe immaginato che ne avrebbe combinate di ben peggiori nei dieci anni successivi? Dieci anni intensi. Dieci anni in cui non mi ero mai annoiata. Ma la noia è sottovalutata, a volte.
Comunque, che lo volessi o no, quello che era il mio consulente era diventato il mio partner.
Poi il mio partner era diventato un amico. Un buon amico. L’unico amico che avessi. Quello che aveva detto che avrebbe fatto qualunque cosa per me.
Che ruffiano!
Una volta, in un eccesso di sentimentalismo dettato dal fatto che Jane aveva temporaneamente perso la memoria, gli avevo addirittura detto che eravamo una famiglia. Lo pensavo davvero.
E ora? Ora cosa era Jane per me? Niente. Non più.
Sono ancora molto, molto arrabbiata con lui.
Eppure, sapere che non lo rivedrò più non mi dà alcun sollievo.
Quella lacrima che avevo rinnegato si sta riaffacciando; ma non gliela darò vinta.
Riavvicino il cellulare al mio orecchio. Marcus sta ancora blaterando. Come prevedevo, non si era accorto che nessuno lo stava ascoltando.
Gli dico che gli manderò per messaggio i dati del volo e che ora lo devo proprio salutare. Lui mi assicura che mi aspetterà all’uscita del gate.
Quando riattacco, sospiro. Di sollievo. Forse non è normale reagire così a una conversazione con il proprio futuro sposo. Meglio non chiederselo. Come molte altre cose.
Ad esempio, è meglio non chiedersi cosa stia facendo Jane.
E’ meglio non chiedersi se il suo piano porterà davvero al vero assassino di quella povera donna, oppure no.
Tutto sommato, penso di sì. Le sue intuizioni si sono sempre rivelate giuste.
Ciò non toglie che quel truffatore abbia davvero sfruttato il dolore altrui per i suoi giochetti, come gli ho rinfacciato poco prima di lasciare l’albergo.
Ciò non toglie che sono ancora molto, molto arrabbiata.
Ma, in cuor mio, so già che la nostalgia arriverà prima del previsto. Insieme a una sensazione familiare che non riesco a definire.
E’ un farabutto, non rinnego nulla di quello che gli ho detto poco fa.
Ma c’è del buono in lui. Io l’ho sempre intravisto, anche nei suoi momenti più bui; lui no.
Non mi ha mai creduto quando cercavo di mostrargli quello che vedevo io. Ovvero che in fondo, ma proprio in fondo, è una brava persona. Una brava persona che odia se stessa.
Insieme, poi, ne abbiamo passate di tutti i colori.
Momenti in cui abbiamo rischiato la vita.
Momenti in cui l’avrei ucciso con le mie mani, e allora mi accontentavo di un pugno sul naso.
Momenti in cui mi sentivo come una mamma apprensiva con un figlio esagitato a carico.
Nove volte su dieci combinava un casino a cui avrei dovuto rimediare io, al prezzo di ulteriori casini.
Nove volte su dieci mi innervosiva come nessuno mi aveva mai innervosito in vita mia.
Nove volte su dieci litigavamo.
Anzi no, è impossibile litigare con Jane; diciamo che blateravo al vento, illudendomi che lui capisse la lezione e si pentisse delle sue malefatte.
Ma devo ammettere che nove volte su dieci i nostri battibecchi erano divertenti.
E che nove volte su dieci erano divertenti anche i modi che si inventava per chiedere scusa. Tipo regalarmi un origami a forma di rana. O un fiore. O un pony. Che ruffiano! E io lo perdonavo sempre, non senza farglielo un po’ pesare, ovviamente. Anche quello faceva parte del divertimento.
E’ dura ammetterlo ma, il mio lavoro, da quando era arrivato lui, era improvvisamente diventato più piacevole.
Anche se, da quando era tornato alla civiltà e aveva insistito per collaborare di nuovo con me, le cose che mi davano fastidio non gliele facevo più passare lisce come una volta. Ho anch’io la mia dignità. Ma, detesto doverlo dire, la nostra complicità è sempre stata più forte del resto, e non si basava solo su battutine sarcastiche o duelli verbali.
Tanto tempo fa avevo detto al mio capo che Jane mi aveva reso un poliziotto migliore. Ok, forse avevo esagerato un po’ per parargli il sedere, come sempre.
Ma pensavo davvero qualcosa del genere. Tant’è che le volte in cui aveva rischiato di essere cacciato dal CBI, o quando aveva deciso di andarsene, mi ero impuntata e avevo fatto di tutto affinché rimanesse. Senza farmi troppe domande sul perché lo facessi.
Ci siamo salvati la vita a vicenda molte volte. Ovviamente, io l’ho fatto molto più spesso di lui, anche se qualcuno troverebbe da ridire, se mi sentisse. Ma anche Jane ha fatto la sua parte. E devo ammettere, pur a malincuore, che non sarei qui se non fosse stato per quel mentalista da strapazzo.
Una volta, un secolo fa, mi aveva detto che avrebbe sempre provato a salvarmi. Io ero stata acida e gli avevo risposto, da perfetta agente/donna/ femminista, che non avevo bisogno di essere salvata. Ma, anche se non lo avevo confessato, mi aveva fatto piacere sentirglielo dire.
E in effetti l’aveva fatto. Più di una volta. Anche a scapito della sua missione contro John il Rosso.
Come ha detto lui qualche giorno fa, siamo un bel team.
E non ci vuole un sensitivo per dirmi che io a Jane ho sempre voluto bene. Per quello che è. Con le sue luci e le sue ombre. Con la sua leggerezza di facciata e i suoi fantasmi.
Ecco, l’ho detto.
La nostra partnership funzionava perché ci siamo sempre capiti. Non so come ma, a volte, bastava un’occhiata. Anche quando la combinava grossa; anzi, era in quei momenti che davamo il meglio di noi. Io razionale, lui folle, nelle indagini ci siamo sempre completati a vicenda. Con ottimi risultati, devo ammettere. Al CBI eravamo la squadra che catturava più assassini; all’FBI abbiamo dato un contributo niente male. Quando non mi teneva all’oscuro dei suoi piani, ovviamente.
Mi aveva sempre chiesto di fidarmi di lui. Era difficile, ma ci avevo provato. Come quella stupida prova della fiducia in cui io mi dovevo lasciar cadere all’indietro, sperando che lui mi afferrasse. Già mi vedevo sfracellata al suolo. E invece aveva mantenuto la parola. Sono sempre stata un tipo diffidente, e con lui avevo ottime ragioni per esserlo, ma da quel giorno avevo sempre cercato di fidarmi di lui. Ho finito per esagerare.
Come tutte le volte in cui mi aveva mentito e io non me ne ero accorta.
Come tutte le volte in cui mi aveva abbracciato con un secondo fine.
Come tutte le volte in cui mi aveva manipolato per lasciargli condurre le indagini alla sua folle maniera.
Come quando si era fatto abbindolare da quella donnaccia seguace di John il Rosso.
All’epoca non capivo se, per Jane, Lorelei fosse solo un piano per avvicinare il suo nemico, o se significasse qualcosa di più. Forse la considerava simile a lui. Sicuramente più simile a lui di quanto potessi esserlo io.
Mi ero fidata, ed ecco che lui improvvisamente considerava partner lei e non me. Mi ero sentita esclusa. Sola. Più di quanto mi sarei aspettata. Più di quanto fossi disposta ad ammettere, a lui e a me stessa.
Davo la colpa al fatto che Jane, con quella donna, stesse facendo riaffiorare la parte più oscura di se’; e questo non avrebbe portato nulla di buono, né a lui né alle indagini.
Ma, forse, le mie battutine acide da fidanzatina gelosa avevano rivelato qualcosa che nemmeno io comprendevo.
Poi avevo capito che era stata tutta una tattica da mentalista. Ma la convinzione di essermi fidata troppo di Jane era rimasta. Insieme a una sensazione spiacevole, che non avevo mai compreso appieno. La paura di fidarmi troppo di lui avrebbe sempre fatto parte di me.
Non è vita, questa. O ci si fida di qualcuno o non ci si fida. Adesso basta.
Non so perché mi stanno venendo in mente tutti questi ricordi proprio ora. Sarà la stanchezza. Sarà la rabbia.
Finalmente arrivo in aeroporto. Pago il taxista, scendo e mi dirigo al mio gate. Mi siedo agli imbarchi.
Non vedo l’ora di prendere questo dannato aereo.
Mentre sono qui che aspetto, mi rendo lucidamente conto di una cosa. Jane mi mancherà. Non posso farci niente.
Come mi era mancato in quei due anni in cui lui era su un’isola sperduta e io catturavo ladri di biciclette. Erano stati due anni tranquilli. Molto tranquilli.
E va bene, due anni noiosi, anche se mi scoccia ammetterlo.
Comunque la mia vita procedeva, mi ero costruita un nuovo equilibrio, mi ero abituata all’assenza di quel consulente così ingombrante. Lavoravo bene da sola, tutto sommato.
Eppure mi mancava.
Mi mancava il suo sarcasmo, mi mancavano i suoi sorrisi, veri o finti che fossero, mi mancavano i nostri battibecchi, mi mancava la soddisfazione nel risolvere casi insieme, mi mancavano perfino i suoi metodi poco ortodossi. Questa è grave, in effetti.
Poi lui era tornato.
In un eccesso di espansività, ci eravamo confessati di aver sentito la reciproca mancanza. Con la differenza che io avevo sentito la mancanza del mio partner, lui di una coperta di Linus; di una baby sitter; di un passatempo; di una cavia per i suoi trucchetti mentali.
Sarebbe stato meglio che non fosse mai tornato. Mi ero abituata e stavo bene così.
A parte la nostalgia che mi prendeva quando leggevo le lettere che mi mandava dall’isola.
Sulla carta era affettuoso come non era mai stato, tenero, diverso. Mi aveva scritto che lì sarebbe stato tutto perfetto se solo ci fossi stata anch’io. Balle.
Leggevo quelle parole, così poco alla Jane, la sera sul divano. Mi crogiolavo in una dolce malinconia a cui non sapevo dare un nome. Ma stavo bene, tutto sommato.
Poi era tornato. Bello come il sole.
Oddio, ma cosa sto dicendo? Più che altro, bella la sua barba, come gli avevo detto ironicamente.
Era sempre lui. Eppure era così diverso.
Aveva la fede, ma indossava una camicia hawaiana al posto del suo caratteristico completo a tre pezzi. Il vecchio e il nuovo.
Mi sorrideva, aveva uno sguardo che non mi ricordavo di avergli mai visto. Era un uomo più sereno. Più libero.
Non riuscivo a fare a meno di guardarlo. Ero felice. Che stupida.
Stavolta non ci saranno lettere, né rimpatriate commoventi. Meglio così. Mi eviterò molti guai. Eppure non riesco a sentirmi sollevata come dovrei.
Dannazione. Stanno annunciando che il mio aereo è in ritardo. Avrei voluto partire il più in fretta possibile, e invece devo stare qui altri 45 minuti ad aspettare e ad affogare in pensieri imbarazzanti.
Vorrei addormentarmi e risvegliarmi a Washington, a casa di Marcus. Un brivido di panico mi percorre, ma non ci faccio caso.
Forse questo ritardo è un segno del destino.
Forse Dio sta cercando di dirmi che sto facendo la scelta sbagliata e mi sta dando il tempo necessario per accorgermene.
Ero molto arrabbiata, lo sono ancora, e la rabbia a volte è una cattiva consigliera.
Ma no, non in questo caso.
Di sicuro non voglio sposare Pike solo perché sono arrabbiata. Con Jane poi, che non c’entra assolutamente niente con tutto questo. Non sarebbe da me. O almeno spero.
Forza Teresa. Questa attesa finirà. Oggi è un giorno importante, quindi sorridi.
Sorridere.
Mi accorgo solo ora che non mai sorriso poco fa, mentre ero al telefono con Marcus. Eppure avrei dovuto farlo, immagino.
Diamine, abbiamo appena deciso di sposarci! Si sorride quando si è felici, giusto?
Una volta il mio consulente da strapazzo aveva detto che avrebbe fatto qualunque cosa per vedermi sorridere. E spesso, effettivamente, ci riusciva.
Una volta, quando aveva momentaneamente perso la vista, mi aveva accarezzato le guance e me le aveva tirate come per simulare un sorriso. Aveva detto che voleva sentire il mio viso sorridere.
Avevo finto scetticismo, ma, forse, era soltanto imbarazzo. E’ una delle cose più belle che qualcuno mi abbia mai detto. Sento ancora quel calore sotto la sua mano.
Dannazione Jane, smettila di entrare nella mia testa! E’ sempre stato il mio terrore. Si atteggia a sensitivo e capisce sempre, o finge di capire, quando mento. E’ stancante collaborare con un tipo del genere. Può anche essere pericoloso per la mia sanità mentale.
Per questo ero stata così scettica quando, mille anni fa, mi aveva ipnotizzato. Non ricordo nulla, ricordo solo una sensazione dolce e una paura folle di rivelare troppo di me stessa.
Per questo arrossivo tutte le volte che diceva di conoscere ogni mio pensiero più segreto. O quando mi diceva che per lui ero trasparente. Avrebbe potuto scoprire cose di me che nemmeno io stessa ho mai saputo. Cose che non ho mai avuto neanche il coraggio di pensare, ma che il mio inconscio, a volte, sembrava suggerirmi. Cose che forse, per fortuna, non ha mai capito nemmeno lui. Cose che ora non importano più a nessuno.
Come non importa più a nessuno ricordare quando avevamo ballato insieme, in quella serata di beneficienza sulle note della mia canzone preferita; ero stata così stupida, avevo appoggiato la testa sulla sua spalla e avevo perfino chiuso gli occhi, mi sembrava di essere una sedicenne al ballo del liceo. Quello a cui non avevo mai potuto partecipare perché avevo una tribù di fratelli a cui badare.
Non importa più ripensare a quella volta in cui mi aveva preso la mano, sul ciglio della strada, quando la cattura di John il Rosso era fallita per l’ennesima volta: eravamo a terra e lui aveva cercato la mia mano. Era raro vederlo compiere gesti così spontanei, così veri. In quel momento avevo pensato che noi saremmo stati sempre più forti di tutto il resto. Red John compreso. Illusa.
Non importa più neanche quella volta in cui avevo pensato di essere, per lui, più importante della vendetta. Non era stato così, alla fine. Jane aveva fatto quello che doveva fare, poi mi aveva salutato con un messaggio in segreteria telefonica ed era sparito. Un messaggio che avevo riascoltato centinaia di volte. Ma l’avevo accettato. Era giusto così, tutto sommato.
Non importa più quello che avevo sperato mi dicesse qualche settimana fa; quando gli avevo rivelato che Pike mi aveva chiesto di seguirlo a Washington.
Non ho idea di cosa avrei voluto che mi dicesse, ma di sicuro, non volevo sentire le sue congratulazioni. Me le aveva fatte, ma aveva l’aria di non crederci molto nemmeno lui.
Ci eravamo guardati in modo strano. Come, ultimamente, ci capita spesso.
Ormai credevo di conoscere bene Jane, e invece, in quel momento, non avevo idea di cosa pensasse.
Credevo di conoscere me stessa e, invece, in quel momento non avevo idea di cosa volessi io.
Alla fine ero andata via con Marcus, ma mi ero voltata indietro e avevo guardato Jane dal vetro.
Era immobile. Come tutte le sere che uscivo con Pike e lo lasciavo seduto su quel divano. E sentivo che c’era qualcosa di sbagliato.
Ok. Ora basta. Sul serio. Non è da me fare questi pensieri. Su Jane, per giunta. Che non voglio rivedere mai più.
Non è da me essere così confusa. Non ho nessun motivo per esserlo. E’ tutto molto chiaro. Fin troppo.
E allora perché, quella sera in cui dovevamo decidere quale film vedere e Pike mi aveva detto che Casablanca parlava di una donna che doveva scegliere tra due uomini, mi ero rifiutata di vederlo? Non capisco. Nel mio caso non c'è proprio niente da scegliere.
E non capisco nemmeno perché mi sia venuta in mente questa cosa proprio ora.
Oddio, devo essere impazzita. Sarà la stanchezza.
Per fortuna, l’apertura del gate interrompe le mie pericolose riflessioni. Dopo aver mostrato il biglietto al personale, mi imbarco.
Ora sto salendo le scalette esterne dell’aereo. Per un attimo mi guardo intorno.
Forse voglio solo salutare la mia vecchia vita.
Forse spero di vedere qualcosa che mi costringa a scendere da qui e a tornare indietro.
Non sono più sicura di niente e non è da me sentirsi così.
Non gli ho detto neanche addio come si deve. D’altronde, io e Jane non l’abbiamo mai fatto. Dirci addio come si deve, intendo.
Penso a tutte le volte in cui avevo pensato di non rivederlo più.
Come quando era stato rapito, una vita fa. E io mi ero preoccupata come raramente mi accadeva.
Come quando l’avevo trovato in fin di vita in un lago; lì avevo temuto davvero il peggio. Era esanime e io non potevo fare niente, se non urlare il suo nome. Uno dei momenti più spaventosi di cui abbia memoria.
Come quando era sparito volontariamente per mesi interi. Senza una parola.
Come quando gli avevo telefonato per implorarlo di non compiere la sua vendetta senza di me e di non buttare via la sua vita. Mi aveva mollato per la strada qualche ora prima e avevo dovuto sequestrare una macchina a un ignaro passante per raggiungere la villa di Malibu. Appena in tempo per vederla saltare in aria.
Probabilmente, con la scenetta al tramonto, Jane mi aveva salvato la vita. Avrei potuto esserci anch’io lì dentro.
Avevo pensato che fosse morto nell’esplosione. Ero entrata, cercando di comportarmi come un freddo poliziotto che si trovava su una scena del crimine. Non era stato facile mantenermi lucida.
Poi avevo trovato il suo corpo. Malconcio, ma vivo. Avevo ringraziato Dio in silenzio.
Come quando mi aveva chiesto la mia pistola per andare a uccidere Red John. E io gliel’avevo consegnata, così, in quattro e quattr'otto. Entrambi avevamo pensato che non ci saremmo visti mai più, ma non ci eravamo detti nulla. “Vai”, era stata l’ultima parola che gli avevo rivolto, dopo la patetica scenetta della pistola. Il regalo più grande che gli avevo fatto.
Non me lo sarei mai perdonato se non ne fosse uscito vivo. Ma lui non mi avrebbe mai perdonato se l’avessi ostacolato.
Avevo dovuto farlo. Anche se avevo sempre giurato che non gli avrei permesso di commettere quella pazzia. Ma tutto era cambiato e io, ormai, ero troppo coinvolta per tirarmi indietro.
In effetti, non ci siamo mai detti addio come si deve. Anche perché il farabutto era sempre ricomparso, in un modo o nell’altro, e non ce n’era mai stato veramente bisogno.
Ora è diverso. E lo avrei voluto il mio bell’addio.
Invece gli avevo sbrodolato addosso tutta la mia rabbia. Meritatissima, sia chiaro.
Ma stavolta non lo rivedrò davvero, e salutarsi decentemente sarebbe stato il minimo, considerato tutto quello che abbiamo passato insieme.
Forse, però, se lo avessi guardato in faccia non avrei trovato la forza di dirgli quell’addio che ora mi manca.
Ora basta. Quel truffatore non si merita tutto questo. Non sono mai stata così sentimentale. Tanto meno con Jane. Non mi riconosco più.
Salgo la scaletta, fingo un piglio deciso che sono lontana dall’avere, percorro il corridoio dell’aereo e mi siedo al mio posto. Tra un uomo e una donna. Non mi sembrano molto loquaci e io, dal canto mio, non ho nessuna voglia di parlare. Voglio solo che questo aereo parta. Il più presto possibile.
La solita lacrima è ancora lì, pronta a cogliermi in fallo.
Bravo Jane, sei riuscito a mentirmi fino all’ultimo. Un giorno mi avevi detto che ci saresti sempre stato per me.
Ora sto scappando e tu non ci sei.
 
  
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