Serie TV > The Mentalist
Segui la storia  |       
Autore: ilovebooks3    27/05/2014    2 recensioni
La storia ripercorre l'episodio 6x22, raccontato dal punto di vista dei due protagonisti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“ I’m sorry, ok?”  ( P. Jane)
 
Era tutto perfetto.
Avevo organizzato il mio piano nei minimi dettagli. Come sempre.
Avevo consultato gli archivi dell’FBI alla ricerca di un vecchio omicidio insoluto che facesse al caso mio, avevo scritto una lettera anonima con un codice che smuovesse le acque a mio favore, e avevo prenotato due suite adiacenti nell’hotel più lussuoso di Islamorada, dove avrei fatto in modo che le indagini ci portassero.
Come avevo previsto, la lettera aveva messo in allarme i vertici dell’FBI e Abbott aveva annullato ferie e trasferimenti per impiegare tutte le risorse possibili in questa indagine. Compresa Lisbon.
Proprio quello che volevo. Anche se quello che volevo davvero non l’avevo ancora capito. Forse non l’ho capito neanche adesso.
Avevo saputo da Cho che voleva andarsene. Non me l’aveva detto di persona, quindi, sul momento, non mi ero preoccupato. Se Lisbon avesse preso una decisione, sarei stato il primo a saperlo; o, per lo meno, pensavo che lo sarei stato.
Invece mi ha messo di fronte al fatto compiuto, lasciando che lo venissi a sapere da voci di corridoio.
Ero tremendamente deluso. Deluso, perché, come io e lei avevamo detto molte volte, siamo partner. E i partner si dicono tutto. O quasi.
Vabbè, io non le ho detto molte cose, ma io sono Patrick Jane e non faccio testo.
Forse, avrei dovuto intuirlo. Negli ultimi giorni avevo avuto l’impressione che mi volesse comunicare qualcosa di importante.
Ad esempio quando, qualche giorno fa, si era seduta sul divano accanto a me con due tazze di tè in mano, aveva tutta l’aria di voler iniziare un discorso. Mi aveva chiesto perché non dormivo mai nel mio letto, mi aveva consigliato di comprarmene uno nuovo e mi aveva confessato di amare quel divano. Conversazione insolita. Mi aveva guardato in modo strano e, per un attimo, prima che un importuno squillo del telefono ci interrompesse, chissà cosa avevo creduto che mi dicesse. Che stupido! E pensare che mi definisco un mentalista.
Mi voleva parlare anche quella sera in cui Pike le aveva chiesto di sposarlo. In quel modo così imbarazzante. Ora, non pretendo rose rosse e diamanti, ma un po’ di romanticismo ci vuole.
E invece, quello zoticone le aveva buttato lì la sua bella propostina, come se si trattasse di lavoro o di un film da andare a vedere.
Non avevo origliato, era lui che aveva voluto farsi sentire, dichiarandosi proprio quando c’ero io nell’altra stanza. Secondo me l’ha fatto apposta.
Che gentiluomo a chiederglielo così: di fretta, in ufficio e con due orecchie che avrebbero sentito anche se non avessero voluto ascoltare. Con la differenza che le mie volevano ascoltare eccome. In particolare volevano ascoltare la risposta di Lisbon. La conosco come le mie tasche, è un libro aperto per me ed è così bello che lo sia.
Una sera le avevo detto che era prevedibile, ma lei non lo aveva interpretato come un complimento. E invece lo era. Lei non li ha mai capiti i miei complimenti.
Anche quando aveva indossato un vestito nero elegante per un appuntamento con Pike e le avevo detto che era bellissima, lei mi aveva detto di non prenderla in giro.
Forse la colpa è mia. Non so più fare un complimento a una donna.
No, non a una donna qualunque. Non so fare un complimento a Lisbon.
Dirle che era prevedibile, per me significava dirle che era semplice e preziosa come l’aria che respiriamo; che era solida e rassicurante come una montagna; che era quello di cui io ho sempre avuto bisogno.
Ma non ero stato in grado di spiegarglielo.
Allora le avevo domandato cosa avrebbe voluto sentirsi dire una donna, ma lei era rimasta interdetta e aveva ammesso di non saperlo. Sembrava confusa. I suoi occhi lanciavano messaggi contrastanti e incomprensibili. E’ così trasparente, così onesta e giusta la mia Lisbon. Non sa cosa siano i giochetti mentali, anche se con me ha dovuto impararne qualcuno.
Ultimamente, però, non riesco più a leggerla facilmente come ai vecchi tempi. La nostra complicità da partner collaudati è sempre la stessa, ma qualcosa di lei ora mi sfugge.
Forse perché mi sfugge qualcosa di me.
Pensavo che, nella risposta che avrebbe dato a Pike, sarei riuscito a interpretare i suoi pensieri più segreti. E invece no. La sua risposta era stata contradditoria, e nemmeno io ero riuscito a decifrarla. Anche perché non potevo vederle il viso.
Aveva detto di volerci pensare su, sembrava interessata, ma allo stesso spaventata; la sua voce era acuta come quando è nervosa o in imbarazzo per qualcosa. Forse non aveva apprezzato le modalità di una proposta così scialba. O forse sì. Poteva essere solo emozione, non avrei saputo dirlo. In effetti, non sono un sensitivo.
D’altronde, Pike aveva detto esattamente quello che sentiva di doverle dire, e lei aveva di sicuro apprezzato quello slancio così spontaneo.
La spontaneità viene sopravvalutata. Diamine, un po’ di romanticismo.
Se io avessi una donna come Lisbon al mio fianco, mi sarei impegnato un po’ di più.
Ma non ce l’ho.
Subito dopo la proposta, lei era passata da me. Avevamo convenuto di aver lavorato bene nell’ultimo caso e di esserci dimostrati, ancora una volta, un buon team; sotto sotto ci eravamo divertiti. Lei aveva mentito per me per l’ennesima volta e io l’avevo ringraziata. In quel momento sembrava volermi dire qualcos’altro, ma io, trincerandomi dietro un libro e un sorriso vuoto, l’avevo quasi mandata via. Non volevo sentire cose che mi avrebbero fatto stare male. Vigliacco.
Dopo che Cho mi aveva rivelato la bella novità, Lisbon mi aveva chiesto se ero arrabbiato.
Forse lo ero, ma non volevo ammetterlo.
Ero deluso, ma non capivo se lo ero di più perché lei se ne andava o perché non me l’aveva detto.
Mi ero dichiarato soltanto un po’ offeso, visto che ero stato l’ultimo a sapere che si sarebbe trasferita.
Lei si sentiva in colpa nei miei confronti; io me ne ero accorto e ne ero pure soddisfatto.
Ma non avrebbe dovuto. Stava facendo la cosa più giusta.
Mi aveva confessato che non era stato facile parlarmene, dopo tutti questi anni in cui abbiamo lavorato insieme. Certo, lavorato. Ma non era mai stato solo lavoro, e so che anche lei stava pensando la stessa cosa.
Mi sono passati davanti alcuni dei miliardi di momenti passati insieme. Moltissimi tragici, molti disastrosi, alcuni divertenti. Tutti, sicuramente, più belli di come sarebbero stati se non ci fosse stata lei.
Trasportato dall’emozione dei ricordi, le avevo chiesto di non partire, di non rompere la squadra. Che suonava un po’ meglio rispetto al “non lasciarmi solo” che avrei voluto dirle. O un po’ peggio, dipende dai punti di vista.
Lei mi aveva guardato, con un’espressione spaesata sul viso. Ma l’ultima cosa al mondo che volevo fare era metterle confusione in testa.
Le cose erano molto semplici. Lei amava Pike e voleva trascorrere la sua vita con lui. Con un brav’uomo, forse non molto romantico o originale, ma onesto, che l’aveva desiderata dal primo momento in cui l’aveva vista e gliel’aveva detto con franchezza.
Era giusto che Lisbon si costruisse una vita. Non potevo pretendere che mi facesse da badante per l’eternità, in attesa di qualcosa a cui non so neanche dare un nome e che, sicuramente, non sarei stato in grado di darle.  Lei si merita molto di più.
Avevo sorriso e le avevo detto che stavo scherzando. Mi ero rimangiato tutto. Come faccio sempre.
Lei mi era sembrata sollevata, ma non del tutto.
Le avevo assicurato che io sarei stato felice qualunque cosa avesse deciso.
La stessa cosa che le avevo detto qualche tempo prima: una sera in cui i miei demoni erano più ingombranti del solito e una forza irresistibile mi aveva attratto fino a casa sua.
Ovviamente mi aveva aperto Pike. Come avevo potuto essere così ingenuo da non prevedere che avrebbero trascorso la serata insieme? Poi era arrivata Lisbon, con una luce interrogativa negli occhi; io le avevo consegnato dei cannoli come un idiota ed ero già pronto a scappare. Come sempre.
Lei però è una mentalista molto più brava di me, e aveva intuito che non ero venuto fin lì solo per portarle dei dolci. E pensare che, un tempo, le avevo detto, un po’ scherzando e un po’ no, che non avrei mai cercato di sedurla col cibo. Di sicuro, in quel momento, non avevo quell’intenzione. La mia maschera era caduta e io avevo parlato. Con sincerità. O, almeno, pensavo di essere sincero mentre le dicevo che volevo solo che lei fosse felice. Ero fiero di me stesso, sapevo che era la cosa giusta da fare; ci mancava poco che mi applaudissi da solo per il mio bel gesto. Mi veniva da piangere, però, e non riuscivo a trattenermi.
Non so cosa abbia pensato Lisbon di quella scena pietosa; mi era sembrata colpita, ma dopo non ne avevamo più parlato. Come di molte altre cose.
Non è da me lasciarmi andare così, ma quella sera non ero il solito Jane. Mi sentivo tremendamente triste e solo. Come sempre. Ma anche come tutte quelle sere in cui avevo visto Pike e Lisbon uscire insieme dal distretto; e a me non rimaneva altro che starmene seduto su quel divano. Immobile.
Per la prima volta in vita mia, non stavo male esclusivamente per la perdita di mia moglie e mia figlia. Quel dolore si era cronicizzato e non se ne sarebbe andato mai. Ma se n’era aggiunto un nuovo: Lisbon se ne sarebbe andata. Il dolore della morte e quello della vita.
Fortunatamente, avevo ancora la lucidità per capire che il mio era solo egoismo. Volevo davvero che Lisbon fosse felice; e volevo solo che lei lo sapesse.
Ma sono il solito Jane che predica male e razzola peggio.
Sotto sotto ho sempre creduto che Lisbon non se ne sarebbe andata. Non so che diritto avevo di pensarlo.
Quando ho capito che stava facendo sul serio, mi sono aggrappato all’ultima risorsa che avevo: i miei giochetti mentali.
Lettera anonima, battutine, passeggiata sulla spiaggia.
Le avevo fatto decifrare quel codice che avevo inventato io. Era felice come una bimba perché era convinta di essersi dimostrata più intelligente di me.
In realtà, nessuno è più intelligente di me. Eppure Lisbon mi tiene testa molto bene.
Mi aveva sorriso, era orgogliosa di se stessa, e anch’io lo ero di lei.
Avrei fatto qualunque cosa per convincerla a rimanere.
Poi mi ero giocato la carta dell’hotel elegante e dei regali. Ma come potevo pretendere che l’agente Lisbon si facesse comprare da qualche gentilezza? Una donna come lei merita molto di più, ma io di certo non avrei saputo darglielo. E lei non lo avrebbe voluto. Non più, per lo meno.
Appena arrivati all’hotel, eravamo saliti nelle nostre camere e io mi ero seduto sul letto ad aspettare la sua telefonata. Sapevo che sarebbe arrivata appena avesse trovato i tre vestiti sul suo letto.
E infatti era stata puntualissima, come un orologio svizzero. Per questo dicevo che era prevedibile.
In quel momento la sua voce era più dolce del solito, senza le autodifese che, a volte, mette in piedi contro i miei trucchetti. Ma, stavolta, non vedeva inganni. Non era l’integerrima agente dell’FBI, era semplicemente una donna felice di aver ricevuto un bel regalo.
Mi aveva ringraziato, e io le avevo detto, con una voce carica di emozione, che nulla avrebbe potuto essere troppo bello per il nostro ultimo caso insieme.
Però non credevo che potesse essere davvero l’ultimo. O forse sì. Non so nemmeno io cosa credessi.
Ora, purtroppo, so che sarà l’ultimo. L’ho fatta troppo arrabbiare, stavolta non mi perdonerà. E’ tutto finito. Di nuovo.
Ci eravamo dati appuntamento per la cena e avevamo riagganciato.
Avrei voluto che quella conversazione non finisse mai; avrei voluto dirle che nulla era troppo bello per lei.
Sciocchezze. Ovviamente, e per fortuna, non gliel’avevo detto.
Dopo pochi secondi il telefono aveva ripreso a squillare. Credevo fosse lei e ne ero elettrizzato.
Invece erano Abbot e Cho. Che erano arrivati. Qui. Altro che cenetta con Lisbon. Il mio sogno si stava trasformando in un incubo.
Ero sceso e avevo trovato i due agenti. Avevo un po’ ironizzato sulla loro presenza, avrei fatto carte false per mandarli via. Ma ero impotente. Ormai mi ero quasi abituato a esserlo.
Mi ero seduto insieme a loro al tavolo, quello in cui pensavo di cenare in pace con Lisbon.
Chissà che vestito avrebbe scelto.
Quello verde si intonava perfettamente ai suoi occhi.
Quello bianco simboleggiava la purezza del suo animo, così diverso dal mio.
Quello rosa, lungo e regale, mi ricordava un vestito che le avevo visto addosso una volta, tantissimo tempo prima.
Dopo qualche minuto avevo risolto l’enigma. Lisbon stava scendendo le scale e indossava il vestito rosa.
Sembrava una principessa, non più arrabbiata come l’avevo definita quella volta; aveva un’espressione dolce e allegra. Mi sorrideva e io, probabilmente, avevo la faccia da pesce lesso. Era bellissima. L’avevo vista fermarsi per un attimo alla reception e poi dirigersi verso di noi. Se solo non ci fossero stati quei due ficcanaso…anche se in realtà, cosa avrei fatto se fossimo stati soli? Assolutamente niente. Volevo solo ammirare i suoi occhi splendenti e gustarmi il suo sorriso.
Ma, improvvisamente, mi ero accorto che, sul suo viso sempre più vicino, non c’era traccia di sorriso.
C’era qualcosa di sbagliato. Cosa stava succedendo? Sembrava così felice un minuto prima.
Già, un minuto prima di fermarsi alla reception.
Un dubbio atroce mi stava attanagliando. E se avesse scoperto tutto?
La mia intuizione si era rivelata, come sempre, esatta. Lisbon, con un fuoco verde negli occhi, mi aveva chiesto spiegazioni. Perché diavolo avevo prenotato le camere in questo posto ben due giorni prima che arrivasse la lettera?
Diamine, quella ragazza della reception poteva farsi i fatti suoi! Aveva rovinato tutto.
Non mi passava neanche per l’anticamera del cervello il pensiero che, a rovinare tutto, ci avevo pensato da solo.
Non mi restava che confessare. D’altronde, Lisbon mi aveva sempre perdonato; lo avrebbe fatto anche questa volta. Avevo cercato di sfoderare un sorriso ingenuo e sbarazzino, e avevo dichiarato, non senza un leggero imbarazzo, di aver scritto io la lettera. In fin dei conti, ne avevo combinato di peggiori.
Ma lei, evidentemente, non era di quest’idea. Mi aveva guardato con odio e mi aveva rovesciato un bicchiere d’acqua addosso. Poi era fuggita.
Non era da lei. Eppure, arrabbiata l’avevo vista molte, moltissime volte.
L’acqua bruciava sulla mia pelle, come se fosse alcool su una ferita aperta.
Avevo tentato di asciugarmi e darmi un po’ di contegno, poi ero salito con l’intenzione di parlarle e chiederle scusa.
Forse non sarebbe stato più difficile di altre volte. Anche se la sua reazione era stata un po’ esagerata e non prometteva niente di buono.
Infatti.
Ora sono qui, appoggiato alla porta della sua camera, e lei non ha la minima intenzione di aprirmi.
Mi urla di andarmene, ma io non lo farò; non senza guardarla in faccia.
Ha la voce fredda come non ha mai avuto.
In fin dei conti, la sta facendo più grossa di quello che è. Giochetti ne ho sempre fatti, non è certo questa la prima volta che le nascondo qualcosa.
Vuole sapere perché l’ho fatto. Domanda da un milione di dollari.
Comincio a balbettare.
Non lo so nemmeno io. O forse sì.
Nella mia mente si affollano emozioni contrastanti: le stesse che lottano ormai da molti mesi, forse da anni.
Le dico che non voglio che se ne vada.
Ecco, l’ho detto.
Mi sono rimangiato tutti i miei propositi di essere felice per lei, ma cosa importa ormai?
Sono stato sincero. Forse, per la prima volta.
Lei, probabilmente, capirà che ho fatto tutto a fin di bene e mi aprirà la porta. Dopodiché non ho idea di cosa potrebbe succedere.
Forse niente.
Forse tutto.
Forse le cose torneranno come prima.
Ma il problema non si pone, perché lei urla contro di me, ancora più arrabbiata.
Mi accusa di essere egoista. Vero. Voglio trattenerla qui per qualcosa che non so neanche cosa sia. Non farei il suo bene, solo il mio. Lei merita di essere felice. Lontano da me.
Mi accusa di considerarla una comodità. Falso. E ingiusto. Sa benissimo che non è così. Lei significa molto per me, gliel’avevo anche detto una volta, al tramonto, un vita fa…peccato che, mentre la abbracciavo, le avevo rubato il cellulare, per poi abbandonarla in strada, impedendole di partecipare alla caccia a John il Rosso. Quella era una cosa che dovevo fare da solo. Non volevo metterla in pericolo. Non volevo che mi impedisse di ucciderlo, ma non volevo che si sentisse in colpa per non avermelo impedito. Non sapevo neanche se ne sarei uscito vivo; a me non importava, ma a lei sì. L’avevo ingannata, ma quello che le avevo detto di fronte a quel meraviglioso sole rosso che, forse, insieme ai suoi occhi verdi, non avrei rivisto mai più, era vero.
Non so se lei l’ha mai capito.
Penso rapidamente ad altre occasioni in cui l’ho fatta sentire importante per me.
Ad esempio quella volta in laboratorio, quando stavamo per morire e, alla domanda se ci fosse stato qualcuno a cui avrei voluto telefonare, le avevo detto che, se non ci fossimo trovati insieme in quella situazione, avrei chiamato lei; ne era stata sorpresa e lusingata.
Peccato che non stessimo affatto morendo e che quello fosse semplicemente uno dei miei trucchetti. Premiato con un bel pugno sul naso. La parte della telefonata, però, era vera.
O quando ero sparito per dei mesi interi, fingendo di non fare più parte del CBI e diventando un’esca per John il Rosso; per poi ricomparire come se nulla fosse e chiederle aiuto. Peccato che Lisbon fosse davvero preoccupata per me, non sapendo se fossi vivo o morto. Mi ero sentito in colpa, ma nemmeno troppo. Non ero più abituato ad avere qualcuno a cui importasse qualcosa di me.
Oppure quando, di comune accordo, avevo dovuto fingere di spararle e le avevo detto quella frase, quella frase che non dicevo da moltissimi anni…ma non importa più di che frase si trattasse, perché, quando lei aveva timidamente provato a chiedermi spiegazioni, me l’ero allegramente rimangiata. Non ero pronto per qualcosa del genere e non sapevo neanche se lo sarei mai stato. Non volevo sorpassare un confine che avevo deciso di non superare mai più. Non porto nulla di buono a chi mi sta troppo vicino. E non avrei mai permesso che le succedesse qualcosa di brutto; anche a costo di allontanarla da me.
Capisco cosa intende ora Lisbon. Lei non ha idea di quanto sia importante per me. Perché non gliel’ho mai detto, oppure gliel’ho detto insieme ad altre mille bugie.
Non ho la forza di negare nulla. Ha ragione a essere così arrabbiata.
Mi accusa di essere disonesto. Vero. Lei si merita un uomo onesto al suo fianco.
Mi accusa di aver frugato nel dolore altrui per i miei giochetti. Vero. Ma ero, comunque, sinceramente convinto che avremmo preso il vero assassino. E lo sono ancora. Come si dice, avevo preso due piccioni con una fava; e io li amo molto i piccioni.
Poi mi dice quella frase, la più crudele. La più vera.
Dice che ho dimenticato come si comporta un normale essere umano.
Sono stordito, come se avessi preso una botta in testa. Ha colpito nel segno.
Da quando mia moglie e mia figlia sono morte, io non sono mai più stato un normale essere umano. Mi ero trasformato in un fantasma. Un automa, con la vendetta come unico obiettivo.
Poi ero diventato un assassino.
Sono passati due anni da quando ho ucciso colui che aveva ucciso la mia famiglia.
Non me ne sono mai pentito; ma, nemmeno per un solo istante, mi sono sentito meglio per quel gesto che avevo sempre creduto mi potesse portare, finalmente, un po’ di pace.
Aveva ragione Lisbon, la vendetta non mi aveva aiutato. Il tempo, però, sì.
Sull’isola ero rinato. Avevo salutato una parte di me. Avevo trovato un nuovo equilibrio. Stavo bene.
Alla lunga, però, mi ero accorto che mi mancava qualcosa. Anzi, qualcuno.
Ed era per quel qualcuno che ero tornato.
Ero un Jane nuovo. Sotto certi aspetti, molto simile a quello vecchio, eppure completamente diverso. Avevo reimparato a vivere. Avevo ritrovato la voglia di ricominciare; la voglia di tornare negli Stati Uniti; la voglia di lavorare sui casi, insieme alla persona che mi era mancata di più.
Ma non ero un normale essere umano. Non lo potevo essere. Non lo sarei stato mai più.
Con la sua frase lapidaria, Lisbon  non intende rinfacciarmi la vendetta compiuta o il mio dolore cronico. Non sarebbe giusto, e lei è troppo generosa per farlo.
Vuole solo dirmi che non mi sono mai comportato da persona normale con lei. Nemmeno adesso. E’ quello il messaggio. E ha ragione. Forse sottintende qualcosa che mi sfugge.
Non so cosa voglio, non so cosa voglia lei, probabilmente non lo saprò mai.
Ma so che lei si merita una persona normale. Anzi, molto di più. Si merita una brava persona. Come Pike.
Sto zitto. Non ho idea di cosa potrei dirle, e anche se ce l’avessi non glielo direi.
Mi urla di andare via, ma sono incollato alla sua porta. Sono tentato di bussare fino a buttarla giù.
Vorrei entrare e abbracciarla.
Vorrei che mi dicesse che va tutto bene e che continueremo a risolvere altre migliaia di casi insieme.
Vorrei molte cose che non posso ammettere.
E invece resto lì. Impotente.
Con una voce stizzosa che non sembra neanche la mia, le chiedo scusa. Spero ancora possa bastare.
Ma non basta.
Mi chiede di andarmene, se davvero sono dispiaciuto come dico.
Non posso.
Sospiro, come un giocatore di football che ha perso la partita ma non vuole ammetterlo. Come un bambino che fa i capricci.
Si accorge, dal mio respiro pesante, che sono ancora qui e mi manda via, un’ultima volta.
Mi arrendo. Non posso fare nulla e, forse, è meglio così.
Con uno sguardo di rimpianto verso la sua porta, annuisco al vuoto e mi allontano.
Un passo, poi l’altro. Il mio corpo non vuole saperne di muoversi, ma la mia mente lo trascina, in un estremo sforzo di volontà.
Mi gira la testa, ma cerco di darmi un contegno, travestendomi dal solito Jane indifferente. Apro la porta della mia camera, poi la chiudo sbattendola.
Rimango in piedi, con la schiena appoggiata al muro adiacente a quello della camera di Lisbon.
Siamo così vicini, eppure così lontani.
Mi merito tutto quello che ha detto. Me la sono cercata.
Lei ora chiamerà un taxi e se ne andrà per sempre. Da Pike.
Non importa. E’ meglio così. Io non le ho procurato che guai e lacrime. Non sono nella posizione di pretendere nulla. E, d’altronde, chi mi sta vicino è destinato a finire molto male.
Resisto alla tentazione di sporgermi dalla finestra per vederla andare via. Non lo sopporterei. Voglio che l’ultima immagine che ho di lei sia quella di una donna sorridente fasciata in un abito rosa, che è bello solo perché è lei a indossarlo.
Ora basta. Non è da me fare questi pensieri.
Ho superato situazioni di gran lunga peggiori di questa. Me ne farò una ragione. Tra qualche tempo ci riderò su.
Va tutto bene.
Mai stato meglio.
Prendo una bottiglia di rhum. Ho bisogno di qualcosa di forte, che mi annebbi la mente. Quella mente che, nei momenti più bui, mi ha sempre sostenuto. Quella mente che, oggi, con i suoi giochetti, mi ha tradito.
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > The Mentalist / Vai alla pagina dell'autore: ilovebooks3