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Autore: AngyHufflepluffLewis    03/06/2014    3 recensioni
Katniss e Peeta stanno andando a casa di Finnick e Annie, nel distretto 4. Lei ha appena partorito e, Finnick vuole condividere con gli innamorati sventurati la felicità del momento. Finnick non è morto(è un modo per autoconvincermi che non è mai successo niente di simile), e vive in una piccola casetta di fronte al mare insieme a Annie e al nascituro. Katniss è afflitta da un problema però, che riguarda proprio i bambini e che la farà riflettere su una decisione importante che potrebbe cambiarla del tutto. Una decisione già stata presa da Katniss, che si ritrova a pensare se sia veramente giusta o no, per lei e soprattutto per Peeta.
Questo é solo l'inizio della storia. Dato che ha avuto abbastanza "profitto" scriverla, ho deciso di non fermarmi solo a pochi capitoli, ma di continuarla.
P.s: Ho dovuto cambiare il rating, ma non é niente di scandaloso :)
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Katniss POV
C’era lui, l’uomo che mi aveva amato e che allo stesso tempo mi aveva rovinato la vita. Chiudo la porta immediatamente e corro per le scale, tremando e inciampando più volte. Mi butto nel letto e cerco invano di soffocare le immagini che invadono la mia testa pudicamente con il cuscino. Prim.  Morta. Bomba. Gale.                                                                               
Quasi perdo il respiro dalla forza con cui premo sul mio volto, che stacco la mia testa e mi dirigo verso il bagno. Lavo la mia faccia tante volte con l’acqua ghiacciata, poi mi guardo allo specchio e mi urlo rabbiosa:                                                                                                              
-Sei una codarda?!-                                                                                                                                            
Tiro un pugno forte alla parete, e creo una crepa minima ma significativa. Si, sono ossessionata dal mio coraggio, l’unica fonte di salvezza in casi di panico.                          
Ritorno all’entrata di casa e apro di nuovo la porta, lentamente. Johanna, Finnick, Peeta, Haymitch e Gale non ci sono, questo vuol dire che nessuno è venuto a cercarmi. Meglio. Non sopporterei proprio i loro sguardi su di me. Mi siedo sul cemento freddo, con il solletico dei miei capelli accarezzati dal vento. Chiudo gli occhi e abbandono la testa tra le ginocchia, liberando la mente e serrandola da tutti i problemi.                                                             
-Ehi-.                                                                                                                                                          
Di nuovo. La sua voce. Gale.                                                                                                                      
-Cosa ci fai tu qui?- riesco a dire con voce rotta, e gli occhi già gonfi dal pianto.                                       
-Sta per cominciare a piovere, vuoi farmi entrare?- mi chiese semplicemente. Che sfacciato! Come può solo pensare di poter entrare in casa mia, dentro la mia nuova vita, come se niente fosse? Eppure sembra che abbia ragione, perché io annuisco mestamente e lo lascio varcare la porta. Lui mi sorride, e senza indugiare, entra a grandi passi, sfiorandomi leggermente il braccio. Non capisco se lo abbia fatto apposta, per mandarmi brividi ad intermittenza in tutta la schiena, o se sia stato un gesto involontario. Forse ho ancora un debole per lui. Assolutamente non nel senso amoroso, ma più che altro in un modo più... inevitabile. Sono destinata a sentire affetto, per una persona che mi ha fatto soltanto capire quanta poca fiducia bisogna affidare alle persone.                             
-Non dovresti essere qui. Dovresti essere in stazione, verso Capitol, con Johanna, Finnick, Haymitch e mio Marito- dico rimarcando l’ultima parola con orgoglio. Gale mi guarda per un’po’ con la faccia sorpresa, ma poi si abbandona ad un sorriso strafottente. Lui mi conosce più di quanto vorrei, e sa che non avrei mai detto la parola “marito” davanti a Peeta, se non ci fosse stato lui ad obbligarmi. Anche questo, in qualche modo, è un modo per dargli importanza, a Gale intendo,  cambiando il mio modo di parlare solo perché c’è lui nei dintorni.                                      
Mi guarda ancora, e legge nei miei occhi ciò che non vorrei mai che leggesse. La verità. Ossia che io, purtroppo, non provo per lui l’odio che dovrei. Solo quando mi ricordo di mia sorella Prim, e del modo in cui lui senza pietá l’ha fatta morire, allora sì ,penso che non merita il mio perdono, e che non lo meriterà mai.                                                                      
-Dovevo parlarti. Senza tuo Marito nei dintorni- mi dice infine, con una nota divertita.                                       
-Non ho niente da dirti.- ribatto io quasi immediatamente.                                                                      
-Ma io ho da dire a te. Molto da dire-.                                                                               
All’improvviso si fa serio, ed io rimango in silenzio, valutando se ho veramente voglia di sentire ciò che ha da dirmi.                                                                                                                   
-Va bene. Ti ascolto. Ma ti avverto: se sono solo stronzate, ti do un pugno in faccia- dico.                       
Lui prende un respiro profondo, e abbassa lo sguardo, coprendosi con una mano. “È solo una messa in scena” mi dice una voce nella mia testa, molto simile a Johanna. Forse è vero, ma l’altra parte di me gli crede e ha voglia di sentire, di capire perché è successo tutto questo casino, perché non poteva andare diversamente… Mi chiedo anche perché le voci nella mia testa devono sempre associarsi a qualcuno che conosco…forse mi hanno influenzata, e ho cambiato ragionamenti a seconda delle loro personalità.                                                                          
-Mi dispiace. Per tutto, intendo. Per averti ferita e per aver contribuito a farti soffrire.- confessa.                                                                                                                                             
No, non è possibile. Tutto qui? Non ha da dire altro, che “mi dispiace”? Purtroppo non mi basta. Inoltre il suo essere qui, ha risvegliato in me quella dose di rabbia e di vendetta repressa per anni, dopo la fine della rivolta, nonché di parte della mia vita.                                        
-E? Cosa dovrei farmene con le tue scuse, accertarle? Credi davvero che sarei disposta a perdonarti? E a lei? A Prim non ci pensi?- sputo io, colpendo la porta così rumorosamente da far tremare i muri. Chiudo gli occhi e abbasso lo sguardo, per nascondere le lacrime amare che rigano il mio viso. Dopo, un altro tipo di rabbia mi colpisce il cuore così violentemente da farmi perdere il fiato.                                                                                                     
-Per che non parli?! Cosa hai da dire dopo quello che ti ho detto? Cosa puoi dire che non possa incolparti? Dimmi, perché sei venuto se non per ammettere le tue responsabilità? Pensavi che non ti avrei dato dell’assassino se ti fossi scusato?- domando, disperatamente. Mi accanisco contro di lui, dandogli pugni violenti sul suo petto, per farlo reagire. Lui però è imperturbabile, deciso a non difendersi, cosa che mi fa arrabbiare sempre di più:                                                                                                                              
-Avanti! Uccidici ad entrambe, che differenza fa!  Fai l’uomo per una volta!- urlo. Finché non mi stanco, e mi accascio sulla porta, mezza in piedi e mezza seduta. Tutto questo mi ha fatto girare la testa fortemente, come una trottola senza fine, aggiungendo anche degli strani crampi alla pancia.                                                                                                          
-Voglio farmi perdonare, Katniss- mi dice, avvicinandosi a me pericolosamente. Quando riacquisto un’po’ dell’equilibrio perduto, domando tremante:                                                                           
-Come?-                                                                                                                                     
-Così-.                                                                                                                                          
Questa volta la sua voce è quasi impercettibile, un sussurro, ma non conta. Adesso conta solo che ho le sue labbra sulle mie. E io, non so perché, rispondo con troppa foga al bacio, senza però perdere il controllo. Lui posa entrambe le mani sui miei fianchi, sollevandomi leggermente la maglietta per toccarmi la pelle nuda. Lo costringo ad andare in cucina, camminando goffamente a quattro gambe, senza però perdere il contatto tra le nostre labbra. A lui può sembrare un’idea eccitante. A me invece, sembra più che altro un buon pretesto per procurarmi dei coltelli. Mi posa sul piano lavoro della cucina, proprio di fianco al porta coltelli. Decido di cambiare le posizioni, mettendomi a cavalcioni su di lui. Senza che se ne renda conto, afferro un dei coltelli per tagliare il pane di Peeta.                                                                         
Gli uomini sono davvero stupidi, per certi versi.                                                                                             
E con un’agilitá sorprendente, lo punto sulla sua gola, godendomi la sua faccia sorpresa.
 
  
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